ZIO GIACINTO STAI IN CASA

Era una contrada vivace, quasi un paese, prima della guerra. La chiesa, il forno del pane, il lavatoio, il buon odore di letame a ogni angolo di stalla.
Le case avevano pochi angoli, quasi tutte addossate, a scaldarsi la schiena  l’una con l’altra.
E gli storti ballatoi a guardarsi in faccia sulla stretta via, ricco ciascuno dell’oro del granturco, delle zucche aranciate, dei grappoli d’uva ad essicare fin quasi a Natale.
Tra le poche case appena discoste, quella bassa e tozza dei Giacinti, condannati dai tempi dei tempi a portarsi, uno almeno per generazione, quel nome che era diventato ormai più di un cognome e aveva perso nei secoli qualunque grazia e profumo.
Tozzi e testardi, i Giacinti. Gran lavoratori e avari di parole, aggrappati a quei pochi campi sassosi, come le capre, dalle quali sapevano spremere un latte che saziava, aspirato ancora tiepido tra i baffi.
Che diventava quasi un tronchetto miracoloso, da estrarre furtivi dalla tasca e mordere col pane nero nelle corte giornate d’inverno a far legna. Una boccata dal fiasco e testa bassa di nuovo a picchiare precisi sul faggio con l’ascia.
Di poche parole e pochi figli, anche. Pareva che uno per generazione fosse anche troppo a prender moglie e fare sì e no due o tre figlioli, che poi il tifo, la guerra, l’America, il convento qualcuno o qualcuna di certo se li sarebbe portati via.
Nessun motivo, anche dopo la guerra, fatti un po’ di soldi col lavoro nella cava, per ingrandire la casa, metterci le comodità, o addirittura comprarsi una macchina.
Giacinto aveva provato una volta la bicicletta, per andare più in fretta alla madonna di Ferragosto e tornare per regolare le capre. Non gli avevano detto che il freno davanti, afferrato come il manico del piccone e tirato di colpo a chiudere la mano, avrebbe fatto bloccare la ruota e rovesciare in
avanti il guidatore.
S’era rialzato, scosso la polvere e tornato a piedi facendo un largo giro a cercare fichi selvatici.
Non s’è maritato Giacinto. Qualche gatto selvatico è rimasto ad abitare la contrada, e lui più selvatico di loro, con ancora molti capelli arruffati e le unghie dei piedi come uncini da pesca.
Spento il forno e diroccato il lavatoio, solo una moderna fontana di ghisa per attingere acqua e segnarsi davanti la chiesa, spoglia e sconsacrata.
Lontani i rombi delle macchine che salgono la domenica i tornanti alle ville più in alto, cresciute sul cadavere di vecchi casolari o dal nulla in mezzo a pascoli che davan da mangiare per tre mesi a due mucche.
Giacinto ha sbuffato di no al nipote, venuto a vendemmia finita a parlargli di lasciar la contrada. Almeno per l’inverno, due locali più caldi, il negozio, il dottore… e il barbiere.
“Nemmeno per sogno, son vecchio ma non ancora abbastanza.”
“Se sarà mi sposto per andare al ricovero non sapendo più camminare, ma meglio un viaggio solo al campo dei morti e così sia.”
Testone di uno zio, sapevo di fare la strada per niente!
Da due domeniche, suonano le nove, le dieci, le undici e nessun rombo arriva dalla strada.
“Avrò sbagliato a contare ma da un po’ anche i treni, quasi tutti, se ne stanno rintanati in galleria.”
E’ sgelato più presto quest’anno. Agli e cipolle son già alti una spanna nell’orto e da un bel po’ una volta la settimana la frittata è infarcita con l’insalata amara dei prati. Presto saran da seminare le patate, che ormai per far legna la luna è passata. E’ passato l’inverno che quasi era ieri ancora vendemmia.
E’ tornato il nipote. Giacinto lisciava con il vetro d’un fiasco rotto il manico nuovo della vanga, gli ha gridato qualcosa dalla macchina. “Può darsi mi sbaglio ma ho capito zio Giacinto stai in casa”.
Dal vetro ha visto appena che il nipote aveva mezza faccia coperta di bianco-verdino e solo gli occhi di fuori. “Sì che carnevale è passato da un po’!”