L’incontro con il morbo

Il mio è stato un incontro graduale, trovandomi da gennaio in quell’Oriente cuore del morbo, non troppo vicina né troppo lontana dalla Cina. Cosa se ne pensava  a gennaio in Occidente: i soliti Orientali,  la mancanza di razionalità, l’inferiorità della loro civiltà, la sporcizia, la mancanza di libertà.  I soliti Cinesi. Anch’io  in quell’isola tropicale, in quel fine gennaio, quando incontravo un turista Cinese dovevo scacciare una sorta di brivido interiore, una paura del contagio. Nel frattempo, in quel mese ho avuto modo di avere esperienza di quanto sia presuntuosa e fuori luogo la nostra boria di Occidentali. Da subito, nel mentre che le amiche mi scrivevano raccomandandomi di stare attenta e temendo per la mia salute, in Oriente sono comparse le mascherine e tanto, tanto disinfettante per le mani. Subito i supermercati lo hanno introdotto all’entrata dei clienti, insieme talvolta alla misurazione della febbre. Ai primi di febbraio eravamo incerti se mantenere il nostro programma di viaggio a Ho Chi Minh city, poi abbiamo deciso di partire, un po’ incoscienti sulla portata del virus, ma anche un po’ rassicurati dalle misure di igiene che vedevamo praticate. I viaggi in aereo durante i vari spostamenti sono stati tranquilli, su velivoli chiaramente ripuliti, con disinfettante per le mani a disposizione, pulizia delle superfici e attenzione degli addetti in ogni aeroporto. Lo stesso in Vietnam, dove si girava abbastanza tranquilli. I contagi nel paese erano quasi tutti al nord, e non si diffondevano al sud dove eravamo noi, nonostante che i trasporti non fossero stati bloccati. Ho trovato i vietnamiti un popolo tranquillo, molto gentile; la città accogliente e vivibile, i mercati, i musei, i parchi aperti. A parte l’incontro serale con le pantegane: dice la mia amica birmana forse con un pizzico di rivalsa nei nostri confronti, che la convivenza con un ambiente sporco in quei paesi ancora poveri rafforza il sistema immunitario nella popolazione, mentre noi europei, con la nostra pur ammirevole pulizia, eccoci subito contagiati a dismisura. Ma, intendiamoci, la popolazione, la gente comune e povera in Oriente, anche in campagna, è estremamente pulita nella persona, sarà per la necessità di combattere il caldo con numerose docce, e negli abiti che vengono cambiati giornalmente. E’ difficile, se non per i senza casa, vedere qualcuno con una patacca sul vestito, anche i bambini. Il distanziamento tra le persone a febbraio non era un obbligo e si utilizzavano le mascherine solo in situazioni di ressa. Fatto sta che abbiamo viaggiato senza alcun problema, e che ancora oggi il Vietnam è fermo a due-trecento contagi e nessun deceduto, forse anche perché si è applicato il controllo dei contatti attraverso una app, non così militaresca come in Cina, che avvisava vicini e contatti dell’esistenza di contagiati, senza fornirne i nomi, ma solo l’indirizzo e il sesso, una mediazione che mi pare intelligente per salvare la nostra cosiddetta privacy senza rinunciare all’efficacia. Nel frattempo la Thailandia dai costanti quarantacinque contagi di gennaio-febbraio è passata a due-tremila  e una cinquantina di decessi  solo grazie all’ondata dei turisti occidentali ivi giunti a fine febbraio-primi di marzo e ora, con dieci contagi al giorno, ha  tutte le attività chiuse fino al 30 giugno.  Ad oggi nell’ isola da cui sono partita, chiusa pochi giorni dopo ai turisti, un po’ spettrale mi dicono con gli esercizi pubblici e i resort sbarrati, perciò con mancanza di lavoro e numerosi disoccupati, sette sono stati i contagiati, tutti guariti, e la gente gira senza controlli di polizia, tranne che per un coprifuoco notturno.

Ignara della reale forza del contagio,  agli inizi di marzo, dopo una settimana di incertezza dato che vedevo salire le cifre italiane, in particolare nella zona di Bergamo, che dai miei diecimila chilometri di distanza mi aspettavo invano fosse dichiarata zona rossa, ho deciso di prendere il volo aereo prenotato in precedenza per mantenere  gli impegni pubblici e privati presi in Italia,  per poi trovare dopo tre giorni scuole chiuse definitivamente, rapporti sociali bloccati, impegni svaniti.  Quello che mi ha fatto arrabbiare è stato lo scenario del sei marzo all’aeroporto di Malpensa, oramai mezzo vuoto, questo sì; ma sono rimasta basita a cercare invano, una volta scesa dall’aereo,un disinfettante, una misurazione della temperatura corporea, un addetto che controllasse più di tanto gli arrivi dall’Oriente. Eppure sull’aereo viaggiavano persone con tosse e disturbi notevoli. Vuoti i corridoi, silenzio, scaricabarile quando chiesi a un paio di addetti le ragioni della mancanza di dispositivi di protezione. Nessuno con la mascherina, naturalmente. Allora pensai che avevo fatto bene a evitare di raggiungere Sondrio con il Malpensa express e Trenord: la mia diffidenza nei confronti della gestione di Regione Lombardia data da lunga data e mi faceva pensare che mai più avevano provveduto a sanificare i convogli, come avevamo visto fare in Cina e Corea.  

Dopo quaranta giorni

Al’inizio non mi dispiaceva poi troppo la solitudine domestica. Avevo salutato – con abbracci – le mie amiche dopo il lungo viaggio; ero rientrata a casa per progetti che non hanno avuto corso e che comunque avrebbero implicato la vita da sola a casa: non è poi così spiacevole, soprattutto se rapportato a chi in casa deve sorbirsi mariti insopportabili o figli fuori di testa. Quella di essere a casa da sola per due mesi non è un’esperienza nuova per me e non è mai stata particolarmente spiacevole.  Significa stabilire i propri ritmi con estrema libertà, assaporare cibi scelti esclusivamente da e per me, secondo i miei gusti e le mie personali esigenze. Certo l’incertezza e la paura non sono buone compagne, ma avrei saputo tenerle a bada, innanzitutto tenendomi informata senza restare però tutto il giorno attaccata alle notizie sparse ovunque e in qualunque ora del giorno con un’abbondanza non priva di un certo sadismo (giornalistico). Ma perbacco, non siamo persone che non abbiano discernimento e  risorse proprie e interessi intellettuali, pensavo. Più dura è stato dover rinunciare alla primavera magnifica che si annunciava,  primavera che ho sempre amato assaporare seguendone i vari gradi di sviluppo, dai primi teneri verdi ai ciliegi in fiore all’esplodere delle differenze vegetative nelle chiome degli alberi, camminando o pedalando dal fondovalle fino alle prime quote di montagna, meglio se in compagnia, ma anche da sola. Sì,  a questo mi costava rinunciare, ma ne ho fatto occasione di  distanziamento meditativo, immersione da lontano o con il binocolo.  Anche così la natura può rasserenare e darti il giusto senso della tua piccolezza e caducità. Le relazioni si mantenevano con alcune ore di chiacchierate al telefono,  notizie tristi ne sono arrivate, ma l’amicizia e la vicinanza virtuali funzionavano. Poi quei brevi appuntamenti, prima con le canzoni, poi con gli striscioni ai balconi che chiedevano più sanità pubblica, poi il 25 aprile, che riattivavano la nostra comune umanità.. E per quaranta giorni, giusto proprio una quarantena, è andata abbastanza bene. Abbastanza, perché comunque la constatazione di non poter incontrare persone che avevano bisogno della mia amicizia, o situazioni  per le quali mi è sempre sembrato  giusto spendersi, la mancanza cioè della dimensione politica, intesa in senso arendtiano di spazio pubblico dove costruire insieme il mondo,  quello sì era vissuto come handicap, una dolorosa mancanza. Però questo sentimento di mancanza è provvisorio, mi dicevo. E però questo senso di provvisorietà lavorava dentro, in me e nelle mie conoscenze, a rendere il tempo un tempo di sospensione, un’attesa non tanto aperta, piuttosto bloccante, che ha finito per inficiare molte possibilità di concentrazione e di attività intellettuale.  In questo senso sono stati giorni in gran parte persi. E questo non è bello per chi sa di aver davanti un futuro piuttosto breve.

Sono uscita pochissimo, per senso civico o di giustizia: se non possiamo uscire tutti, perché sarebbe un casino, perché prendermi questo privilegio per me sola? E poi uscire e dover guardare le persone che incontri e che non conosci con un brivido di paura è una nuova brutta esperienza. Allora cerchi di reagire mettendo  in moto le tue convinzioni sull’empatia e dispensi comunque sorrisi e gentilezze.  Intanto hai introiettato l’uscire di casa come un pericolo e una fatica, non parliamo poi quando è stata obbligatoria la mascherina.

Credo di essere una donna coraggiosa,  e mi sono dovuta mettere alla prova quando l’ambulanza con le sirene è arrivata per ben tre volte in due giorni nel cortile del mio condominio. Ma è stato faticoso tirar fuori  quel coraggio quando le scale del tuo condominio diventano luogo di contagiati. Il coraggio è consistito nel non  perdere l’equilibrio asseragliandoti  nel tuo appartamento, decidere di poter comunque riaprire la porta di casa e scendere quelle scale. Governare la rabbia verso chi lascia morire le persone aspettando all’ultimo per portarli in ospedale e non organizza rintracciamento di contatti e sanificazioni.  E’ passato anche quello, grazie anche alla fattiva , virtuale ma fattiva  vicinanza di familiari e amici. E’ da annoverare tra le esperienze di insicurezza  della vita. Rinforzano l’autocontrollo e la consapevolezza che non sempre la vita scorre liscia. Così i tanti volti della morte e del dolore cui abbiamo assistito tutti e quelli che ho visto nelle amiche che hanno perso genitori, la solitudine dei morenti, sono esperienze dure, eppure non nuove.

Ma, trascorsi  quei fatidici quaranta giorni qualcosa si incrina di giorno in giorno. Si comincia a dormire meno bene, mentre prima lo stress emotivo faceva dormire di sasso.  Nell’alzata mattutina  fanno capolino le domande sul da farsi quotidiano e sul futuro prossimo. I riti giornalieri, il succedersi delle piccole cose che davano un ordine interiore alla giornata sono diventati  noiosi , l’incertezza sul dopodomani  si tinge man mano di rabbia per l’insipienza di chi, là fuori, prende le decisioni. Come pensare che andrà tutto bene quando quasi niente va bene? Quando le decisioni di chi ha la facoltà di prenderle per noi sono confuse, incerte o non esistono proprio?  Ci rimandano una speranza di libertà o il timore di essere in mano a deficienti, cioè in qualche modo di essere prigionieri? Di esserci lasciati fare prigionieri, ostaggi  che verranno scambiati con che cosa poi, magari mandando al macello i lavoratori?  Proprio per questo adesso ho deciso di uscire  una volta in più,  incontrando, a distanza mi raccomando, chi  ha bisogno di  ricevere, e dà,  amicizia. Ma il tutto è così controllato, pieno di barriere, la mascherina che dà fastidio, attenti alla polizia, e poi sempre questa brutta sensazione dell’altro/a come possibile contagiante. Ecco che cosa ci ha introiettato la quarantena. Una quarantena fatta perché chi doveva intervenire l’ha trovata la soluzione più facile, rozza, scontata? Di questo non bisogna dimenticarsi, magari quando saremo di nuovo inebriati dalla libertà riconquistata.  Ora la mancanza dello spazio pubblico, della politica si fa sentire e diventa preoccupazione di non recuperare più ciò che è andato perso, data  la mia età, forse per sempre. La sensazione cioè di essere vicina davvero alla fine della vita, anche senza suicidarsi.  Sperimentare su se stessi quanto  pericolosa sia la macchina dell’annichilimento che si è messa in moto, una salvezza con la doppia faccia: nel chiuso di casa, pur con molte possibilità virtuali, pur con spazi di pensiero e di parole recuperate, ma da soli.

Poi penso ai ragazzi del doposcuola alla ragazzina mia vicina di casa, e mi domando come metabolizzeranno, come ne usciranno, e che cosa hanno perso nel frattempo. L’educazione, la scuola, avranno dato loro i necessari anticorpi (della storia, del pensiero) per non diventare indifferenti e individualisti?  Chi di loro aveva meno risorse sociali ne avrà ancora meno? 

La paura resterà nel cuore delle persone? Si avrà finalmente imparato a distinguere tra paure reali e paure mentali, dopo che noi stessi abbiamo introiettato questa  paura per qualcosa di ineffabile ? Si affideranno più di prima le persone a chi si pone, non meritandole, a salvatore della situazione?  Si ricorderanno dei buchi della sanità che si sono visti e che peraltro si vedevano anche prima se si avevano gli occhi aperti?

Riusciremo, noi, a ricordare bene, a ricordare la caduta della nostra protervia di occidentali, della nostra mentalità da “patto atlantico”, a non contrapporci, e anche ad imparare dagli esempi migliori (non tutti!) venuti dall’Oriente? Diventeremo più umili?  Finiremo di parlare solo di globalizzazione, con la testa tutta rivolta all’Occidente, dimenticando la parola internazionalismo solidale e collaborante? Finiremo di ascoltare e taciteremo chi parla di eccellenze, di  patrie, di  ingannevoli meritocrazie, cadute come torri di sabbia? Staremo dunque più attenti alle parole da usare?  Sapremo liberarci dalle paure e dal linguaggio militaresco? Avremo capito meglio, per averne fatta esperienza, le situazioni di chi le paure le introietta, per dar loro una mano? In una parola: sapremo tornare alla politica con rinnovato coraggio e con menti ripulite?

Queste sono per me le difficili  “graduali riaperture”. Graduali perché esigono da noi maggiore attenzione e considerazione da adesso in poi, nel chiuso delle nostre case; e un po’ di coraggio, che ritroveremo insieme al piacere di passeggiare reincontrandoci, con tutto quello che ne consegue, e che non è poco.

27  aprile 2020                                                                                                                 Marina Salacrist