Tra le ricette anti-crisi serve una patrimoniale

Di fronte alle spese da sostenere per la crisi causata dalla pandemia, si riaccende il dibattito sulla patrimoniale. Dagli Usa alla Francia, dalla Spagna all’Italia, un giro del mondo per capire come si può strutturare la misura, quali sono gli ostacoli e i suoi obiettivi, quante entrate potrebbe generare.

Così come è avvenuto dopo la grave crisi economica del 2008, oggi ci si interroga su come ripartire dopo lo shock causato dalla pandemia. All’epoca i governi imboccarono la via della “socializzazione delle perdite” e i debiti provocati dai fallimenti finanziari furono coperti dagli Stati, i quali applicarono politiche di austerità per ridurre il debito pubblico accumulato. Il peso della crisi ricadde così sulle fasce più vulnerabili. Oggi siamo davanti allo stesso bivio e i governi devono scegliere chi debba sostenere i costi della crisi. In quest’ottica, assume una grande rilevanza il tema dell’introduzione di una tassa patrimoniale, un’imposta rivolta a ricchi e super-ricchi. Partiamo da un dato di fatto: l’aumento delle disuguaglianze negli ultimi decenni è ben noto, così come quello della concentrazione della ricchezza. Secondo il Rapporto 2020 di Oxfam i 22 uomini più ricchi del pianeta possiedono una ricchezza superiore a quella di tutte le donne in Africa.

Negli ultimi giorni è apparsa in Italia una proposta del Partito Democratico definita “contributo di solidarietà”, che prevede un incremento della progressività dell’aliquota marginale dell’Irpef. La soglia sarebbe fissata a 80mila euro e poi ci sarebbe un’ulteriore progressività che permetterebbe di incassare circa 1,25 miliardi di euro all’anno. Tralasciando l’arbitrarietà della soglia stabilita, bisogna notare che l’Irpef cattura principalmente i redditi da lavoro dipendente e da pensione (che rappresentano circa l’80% della base imponibile), per cui non è appropriato riferirsi a questa proposta del Pd come a una vera e propria tassa “patrimoniale”. Inoltre, le tasse patrimoniali sono pagate annualmente e non una tantum e si possono differenziare a seconda della base imponibile.

Il concetto di patrimonio è infatti onnicomprensivo e comprende forme di ricchezza immobiliare, mobiliare e finanziaria. Un’altra grande categoria di tasse patrimoniali è quella sugli immobili: in Italia un esempio è l’Imu, in cui il livello di progressività, nonostante l’esenzione per la prima casa, non è elevato. A queste si aggiungono le tasse che possono essere imposte sulle transazioni di ricchezza. Un esempio in tal senso è la tassa sulle transazioni finanziarie conosciuta anche come Tobin tax, introdotta in Italia nel 2013, che garantisce ogni anno circa 400 milioni di euro di introiti. Un altro esempio è la transazione intergenerazionale della ricchezza, in altre parole la trasmissione ereditaria. In Italia su questo tipo di tassazione siamo molto indietro: l’aliquota massima della tassa di successione è al 4%, tra le più basse dei Paesi industrializzati (su questo punto si veda qui).

Per quanto riguarda invece le tasse sul patrimonio, alcune tra le proposte più popolari provengono dagli Stati Uniti. Ben due ex candidati democratici alla nomination per la Presidenza presentavano una patrimoniale nel loro programma, Elizabeth Warren e Bernie Sanders. Quella di Sanders è una proposta radicale: far pagare l’1% a chi possiede più di 32 milioni di dollari di patrimonio, con un’aliquota crescente fino all’8% per chi possiede più di 10 miliardi di dollari. Secondo le stime tratte dal sito di Sanders, la misura consentirebbe di accumulare oltre 4.000 miliardi di dollari in 10 anni, riducendo in modo sostanziale la concentrazione della ricchezza negli Stati Uniti. La proposta di Elizabeth Warren consiste invece nell’imporre una tassa del 6% sul patrimonio eccedente il miliardo di dollari. Come verificato utilizzando i dati della classifica di Forbes, se in Italia applicassimo questa misura si potrebbe generare un gettito di circa sei miliardi e mezzo di euro colpendo solo 33 persone o famiglie. Le proposte di Sanders e Warren si ispirano peraltro a quelle di Thomas Piketty nel suo Il Capitale nel XXI secolo.

Una tassa simile è stata implementata in Francia fino al 2018. Conosciuta come ISF, Impôt de Solidarité sur la Fortune, è stata sostituita dal governo Macron con un’imposta valida solo per la ricchezza immobiliare. La struttura dell’imposta era complessa e si applicava a patrimoni superiori agli 800mila euro, ma con aliquote marginali molto basse (tra lo 0,5 e l’1,5%), garantendo all’incirca 4-5 miliardi all’anno. Una simulazione effettuata con i dati italiani della Banca d’Italia mostra come in Italia un’imposta così strutturata assicurerebbe un gettito di circa 4 miliardi all’anno. Una misura analoga, con aliquote molto basse, è tuttora in vigore anche in Spagna (Impuesta sobre el patrimonio).

D’altronde, questo tipo di tassazione sul patrimonio o sulla ricchezza presenta un triplice problema di implementazione. In primo luogo, vi è la difficoltà di conoscere in modo dettagliato l’ammontare e la composizione delle grandi ricchezze: tutto ciò come conseguenza di un trentennio di politiche neoliberiste che hanno smantellato le capacità statali di controllare queste dinamiche all’estremo della distribuzione. Bernie Sanders, non a caso, sottolinea nel suo programma l’importanza del rafforzamento dell’IRS (l’Agenzia delle Entrate statunitense) come precondizione per un’applicazione efficace. La stessa cosa vale ovviamente per l’Italia e gli altri paesi. E anche Piketty sostiene nel suo libro sopra citato che la prima utilità di questa tassa sarebbe proprio quella di produrre conoscenze e informazioni su patrimoni e ricchezze.

Il secondo, e forse più gettonato, tra i punti critici di questo tipo di imposta è legato alla libertà di movimento dei capitali: una tassa del genere avrebbe più costi che benefici, in quanto farebbe scappare all’estero i grandi capitalisti. Infine, questa imposizione fiscale sarebbe considerata ingiusta e iniqua in quanto viene tassato annualmente uno stock (il patrimonio) e non un flusso. Detto questo[1], occorre sfatare due miti:

1. Qualsiasi tassa è difficile da far pagare, che colpisca uno stock oppure un flusso. Ma la difficoltà nel far rispettare il regolare pagamento dei tributi non può mai essere un elemento di dissuasione per l’imposizione di una fiscalità.

2. La libertà di movimento dei capitali può essere arginata. Ci sono modi e metodi per limitarla. L’architettura istituzionale dell’Unione Europea, però, non facilita il compito. Certamente questo limite spinge a internazionalizzare la mobilitazione per introdurre una tassa o una politica simile, dal momento che una patrimoniale introdotta in più paesi moltiplicherebbe la sua efficacia.

Per quanto riguarda l’Italia, il problema dei dati a disposizione e di come definire base imponibile e aliquote non può essere di certo trascurato, anche se – come si è visto – ci sono vari esempi da cui prendere spunto. Inoltre, nell’ottica di una necessaria riorganizzazione fiscale, a una tassa sul patrimonio se ne possono e devono affiancare altre, come l’incremento della progressività delle tasse sul reddito e sugli immobili, oppure una web tax per intercettare i profitti di chi si sta avvantaggiando dalla crisi attuale: le grandi piattaforme ICT e i grandi player del web.

Quello che andrebbe tuttavia sottolineato è l’intento con cui va disegnata la misura. Un’imposta patrimoniale non può essere pensata e costruita alla stregua di una colletta filantropica tra i grandi industriali e capitalisti del Paese per finanziare alcune opere pubbliche. Essa va interpretata piuttosto nel segno di una politica fortemente redistributiva che miri a ridurre (se non azzerare) la concentrazione dei grandi capitali. Inserire un’aliquota elevata su determinate ricchezze deve avere l’effetto a lungo termine di erodere quelle stesse ricchezze, riducendo via via gli introiti della tassa. Quindi, un’efficace imposta patrimoniale è una tassa a tempo con cui si prevede che entro un certo periodo si vada assottigliando il numero di coloro che sono chiamati a pagarla. L’obiettivo dovrebbe essere eradicare i super-privilegiati, partendo dal presupposto che con una ricchezza redistribuita in più mani è la società intera a beneficiarne e a poter raggiungere risultati migliori.

Note

[1] Per una trattazione più approfondita sul tema si rimanda a questa pubblicazione dell’Ocse.

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