Questo tempo è solo apparentemente sospeso: principi, valori, problemi e cose sono comunque in movimento. Anche uomini e donne sono in movimento, dentro di loro, con un’accelerazione delle paure, del coraggio, delle sofferenze.

Tra queste ultime, la povertà si sta muovendo con una velocità inaudita, complementare a quella del virus.

Come povertà assoluta, relativa e come impoverimento sul piano materiale; come povertà delle relazioni; come mal di vivere delle persone, delle famiglie e di una parte della società.

Solo dove ci sono tracce di comunità si riesce a sentire la forza del noi che vince le solitudini imposte.

A partire dagli ospedali, dalle carceri, dai territori più colpiti.

Le diseguaglianze, già al limite della insopportabilità e della insostenibilità, quindi sull’orlo dell’esplosività, stanno in questo momento implodendo.

La situazione non è uguale per tutti.

A parte gli avvoltoi che, come i mercanti della borsa nera in tempo di guerra, si arricchiscono speculando su un dramma collettivo epocale, non è la stessa cosa poter contare su un reddito magari decurtato ma continuativo e trovarsi senza risorse; poter usufruire degli ammortizzatori sociali o non disporre di alcun paracadute; sopravvivere in piccoli locali fatiscenti o poter disporre di spazi vitali.  

Il rischio reale è di uscire da questa situazione, quando si uscirà, ancora più deprivati, più sofferenti, più disorientati.

Il nodo della povertà va aggredito subito.

Su almeno tre linee di intervento: l’abitare, la sopravvivenza economica, le solitudini.

 L’abitare

Abitare un luogo vuol dire poter avere radici: magari deboli, spesso rattrappite, o fragilmente vissute. A partire dalle radici è possibile gettare lo sguardo verso i rami, senza rimanere obbligatoriamente fissati sulle suole usurate o sui cartoni dove passare la notte.

L’housing first non può trovare la soluzione nella sosta notturna in un dormitorio: in questi giorni solo a Milano oltre duemila persone vi accedono per una risposta anche quantitativamente insufficiente, ma il ricovero temporaneo non è la dimora. E non lo è, neanche, l’isolamento obbligato o da paura in fatiscenti condomini di desolate periferie. Il momento, da questo punto di vista, è paradossalmente propizio: le solitudini hanno l’opportunità di trasformarsi in una filiera solidale, in cui chi può fare qualcosa, anche solo la spesa, può farlo anche per l’altro.

E spesso accade.

Si possono intensificare queste pratiche, diffondendo come strumento di coesione l’esperienza delle portinerie sociali. Non si può più essere i portinai dell’indigenza, ma i portatori collettivi di una nuova socialità, aprendo e varcando le soglie dell’isolamento.

Isolani, con il senso di comunità di un’isola, e non isolati.

Gli enti responsabili dell’edilizia popolare dovrebbero promuovere queste esperienze, innovando anche sulla ristrutturazione degli appartamenti inabitabili.

Un solo esempio: alcuni anni fa, nel 2015, è stato firmato un protocollo tra Regione Lombardia e ministero della Giustizia in cui si prevedeva, con uno stanziamento paritario di risorse, di mettere al lavoro i detenuti. Quel protocollo è rimasto una carta scritta. Ma può essere trasformato in una opportunità concreta, con i detenuti che sistemano quegli appartamenti: la pena come attività utile e non come tempo inutile, e che, in cambio, possono usufruire di un’abitazione, anche condivisa, nel momento dell’uscita dal carcere.

Vi è poi il problema di valorizzare, nelle nuove costruzioni ma anche in quelle esistenti, gli spazi comuni, spesso desolatamente vuoti o in rovina, trasformandoli in luoghi vissuti delle relazioni di vicinato.

Lavoro e reddito

Il secondo punto, strettamente correlato al primo, è quello del reddito di sopravvivenza.

Quello che papa Francesco chiama il diritto al reddito universale.

La povertà sostenibile e non la miseria insostenibile.

Occorre anche in questo caso superare la logica assistenzialista che finisce per passivizzare i fruitori e rendere indifferenti gli erogatori in un vuoto a perdere senza speranza, arrivando a individuare attività utili per il bene comune.

Il Covid-19 ha incontrato ben pochi ostacoli sulla sua strada; ha trovato invece davanti a sé una prateria in una società segnata dalle diseguaglianze estreme: i castelli e le favelas metropolitane; un ambiente soffocato dall’inquinamento; una natura del tutto trascurata.

Per uscire da questa pandemia e costruire barriere efficaci alla diffusione di nuove forme di contagio, è necessario rispettare la sostenibilità del rapporto tra uomo e natura; prendersi cura dell’ambiente; ridurre sensibilmente le diseguaglianze che producono discariche sociali.

C’è bisogno di un grande piano di ricostruzione sociale, di tutela della natura e di difesa dell’ambiente. Per questo è opportuno mettere al lavoro tutte le risorse umane disponibili, con il riconoscimento del loro valore e della loro dignità: un New Deal delle piccole opere quotidiane in grado di produrre valore condiviso.

Unione Europea, Stato, Regioni, Enti locali e le comunità territoriali hanno l’opportunità di lavorare in sinergia a questo piano.

I programmi, regionali e nazionali, con finanziamento europeo possono cogliere l’occasione per diventare più ampi, diffusi e, incisivi.

Gli stati di sofferenza individuale e familiare

Questo tempo sospeso ha prodotto nel breve periodo anche pratiche positive di mutuo aiuto.

Che, nel medio periodo, vanno valorizzate e non dimenticate.

Ma già oggi le domande di ascolto delle sofferenze umane, materiali e relazionali richiedono risposte di aiuto pronte e adeguate.

Il soccorso come intervento immediato nell’emergenza sanitaria. Ma anche il soccorso come conforto delle parole: le solitudini non possono più essere lasciate sole. Altrimenti il disorientamento, gli stati di sofferenza psichica, il mal di vivere esploderanno come e più che nella Grecia della crisi finanziaria mondiale.

L’egoismo, cieco perché gli occhi sono fatti per vedere e abbracciare il mondo, non se stessi, deve cedere il passo alla dimensione del girotondo di Sergio Endrigo: con lo sguardo che si posa sugli altri e le mani che si intrecciano.

Costruendo un grande ponte e non un muro invalicabile tra l’io e il noi.

Con l’autoreferenzialità dell’io si finisce tutti inevitabilmente per terra.      

E invece c’è bisogno di rialzarsi.

Sapendo che le strade saranno lastricate per lungo tempo di condizioni esistenziali difficili, di traumi a lungo rilascio, di sofferenze dell’anima.

Si dovrà passare dalle relazioni di cura alla cura delle relazioni.

Non c’è nulla da inventare, se non la valorizzazione mirata e condivisa della miriade di iniziative, proposte e percorsi in campo. Ma è necessario anche un cambiamento di paradigma da parte dei servizi sociali e di cura: bisognerà andare sul campo, nei territori, casa per casa, non limitarsi ad attendere chi ha bisogno di aiuto.

Consultori, SERT, CPS, organizzazioni del privato sociale dovranno essere costantemente in missione, non dentro e dietro le mura. Come è accaduto lo scorso anno, piccolo esempio, a Rogoredo, quando siamo andati a incontrare il popolo del bosco senza aspettare che arrivasse ai servizi, perché tanta, troppa era la strada da percorrere.

Le risorse umane ci sono. Quelle materiali servono, ma non occorrono cifre impossibili: sarebbe sufficiente ampliare, intensificare, anche cambiare il modo d’essere e di agire quotidiano. Come hanno saputo e sanno fare medici, infermieri e tutto il personale sanitario nella fase acuta. La solidarietà riguarda tutti, a partire dalle famiglie. Il popolo curdo, con il suo confederalismo democratico, è già sul campo, pur oppresso dalla Turchia. Lì è iniziata la pratica delle famiglie gemelle, attraverso la quale le famiglie più abbienti “adottano” le famiglie meno abbienti per aiutarle a superare le difficoltà.  

Dobbiamo saper andare tutti verso l’altro per diventare, come direbbe Eugenio Borgna, una comunità di destino.

Cecco Bellosi

13 aprile 2020