Il racconto è stato scritto da Francesco Racchetti per ” Archivio Abramo Levi”  che ne ha .autorizzato la pubblicazione. 

“Non temete”. Dialogo con Abramo 

— Come vedi, Abramo, siamo disorientati e confusi…

 — Ah, confusi e disorientati, molto bene: è una condizione ottima. Stimolati alla ricerca ed al superamento delle certezze.

 — Sì, certo, ma siamo anche spaventati.

 — Spaventati… questo è male: la paura è sempre una pessima consigliera, una guida estremamente pericolosa. Più pericolosa e nociva la paura di ciò di cui si ha paura, qualsiasi cosa sia.

— Sì, detto così suona bene, è molto convincente; ma nel pratico…

 — Eh, il pratico, la pratica… Stiamo ancora un momento sulla teoria, meglio: sulla riflessione, che ne possono risultare indicazioni preziose. Anni fa, non so più quanti ma non ha importanza: il tempo… Anni fa, dicevo, ho scritto un articoletto proprio su questo tema della paura. Lo intitolai “Non temere”, se ricordo bene. Il ‘non temete’ che ricorre tante volte nella Bibbia.

 — Sì, l’ho presente: sempre stimolante come tutti i tuoi scritti, ma se l’ho capito bene (con te non si è mai sicuri) ti riferivi all’azione politica e sociale, al confronto con il potere, all’impegno nella lotta per la giustizia, i diritti e l’eguaglianza. Parli del mandato di Gesù ai discepoli spediti “come agnelli in mezzo ai lupi”. Citi il magnificat di Maria “con la sua denunzia dei potenti e dei ricchi”; le beatitudini “con la loro scelta di campo per gli umiliati e i prigionieri”… Certo, tutto questo è ancora estremamente attuale, forse ancora più grave ed urgente, ma non è riferibile all’attuale paura. Qui si tratta di altro: pandemia, contaminazione, morte e per giunta in tragica solitudine, isolamento, claustrofobia ed agorafobia paradossalmente congiunte, diffidenza reciproca, ostilità e rancore, moltiplicazione delle fobie, angosciose prospettive per un futuro che non si riesce a prefigurare e neanche ad intravedere… 

— Sì, quando l’ho scritto non pensavo ad un’epidemia: allora non se ne parlava, i problemi erano altri. Ma la paura è sempre paura, la realtà è sempre piena di contraddizioni (o, per lo meno, a noi sembrano tali), il mondo e la vita presentano continuamente pericoli che vanno affrontati, rischi che vanno corsi ed il ‘non temete’ è un consiglio validissimo per tutte le circostanze.

 — E quindi, nell’attuale?

— Cosa hai colto da quell’articolo, se davvero l’hai letto?

 — L’ho letto sì, e più volte, come faccio sempre con i tuoi scritti. E anche così… Comunque qualcosa mi sembra di avere colto.

— E dunque?

— Innanzi tutto mi ha colpito l’inizio. “«L’ho vista brutta!» si è soliti dire quando ci si è trovati in una situazione difficile e pericolosa, e se ne è poi usciti alla meglio”. Ecco: la prima parte fotografa esattamente la nostra condizione attuale: difficile e pericolosa; la stiamo vedendo proprio brutta! Quanto poi ad uscirne, sia pure alla meglio, questo è quanto ardentemente speriamo. Tu, però, più che spiegare come uscirne, dici piuttosto come bisognerebbe starci, con quale atteggiamento.

— Certo. Uscirne nel modo migliore sarà la conseguenza, il risultato di come riuscirete a starci, del modo e dell’atteggiamento, delle scelte (possiamo dire ‘dello spirito’?), con cui ora vivete questo presente così problematico ed inconsueto e dunque così potenzialmente fecondo.

— Ecco. Intanto è estremamente difficile vedere le cose in questo modo. Abbiamo perso ogni sicurezza; la nostra vita normale si è dissolta…

 — La vita normale… Mi pare di averne parlato in un’omelia. La prima Lettura era un passo di Geremia, il profeta, uno dei personaggi biblici cui mi sento più vicino, così umano… La sua vita era stata sconvolta da Jahvé, ma lui avrebbe tanto voluto tornare alla sua vita normale. E lo stesso avrebbe desiderato Pietro, spaventato (letteralmente ‘a morte’) dalla terribile prospettiva della Passione. E Gesù lo chiama ‘Satana’. Ecco: la ‘vita normale’ è un inganno del maligno (con la minuscola: hai letto l’altro mio scritto su “Male — Maligno”?). Bisogna stare attenti alla vita normale, dicevo in quell’omelia, finisce che non si può più fare quello che si vuole.

 — Quindi vuoi dire che la vita normale, quella vita normale che ora tutti tanto nostalgicamente vagheggiamo, non è che un impedimento alla libertà? Ma questo è proprio il contrario di quello che tutti stiamo pensando: la vita normale vuol dire poter uscire, passeggiare, vedere gli amici, coltivare le relazioni; ma anche dedicarsi alle proprie attività, seguire i propri progetti. In una parola: vivere, e con piena pienezza, se mi consenti il bisticcio verbale.

— Il problema non è il bisticcio verbale, quello mi piace anche. Il fatto è che la vita normale, in realtà, è un intrico di costrizioni, tanto più pericolose quanto meno ce ne rendiamo conto. È appunto qui l’inghippo, il maligno se vogliamo, la cui azione consiste appunto nel mascherare le cose, presentarle sotto una luce falsa, artificiale, farci scambiare la parte per il tutto, la vita normale per la vita in pienezza.

 — E quindi?

—Quindi, la prima cosa è che non bisogna augurarsi di tornare alla vita normale, ma piuttosto chiedersi cosa questa situazione che con tanto disagio, tanta inquietudine e tanto spavento state affrontando (o forse, piuttosto, subendo?) mette in discussione, cosa toglie e sovverte nella vostra esistenza e cosa, invece, vi introduce, e voi ne fareste molto volentieri a meno. 

— Si potrebbe fare un elenco dettagliato e un po’ ne ho accennato prima ma, detto in una parola, è venuta meno la sicurezza e si è generata una totale insicurezza. Uscire non è sicuro, incontrare un amico non è sicuro; abbracciarsi e baciarsi è pericolosissimo, folle, suicida. Entrare in un negozio, camminare sul marciapiede sono gesti, situazioni potenzialmente mortali. Ogni persona, anche la più cara, a cui ci si avvicini può essere un veicolo di contagio. E quindi ci si rinchiude, e si viene rinchiusi, in casa. Guai ad uscire: si rischia di ammalarsi e diffondere il contagio. E se, nonostante tutto, uno si azzarda ad uscire, viene guardato male, con diffidenza e sospetto: è un incosciente, peggio un delinquente, un criminale. Tanto che le autorità incoraggiano ed elogiano la delazione: segnalate se vedete qualcuno…

— Hai proprio toccato il punto: la sicurezza, l’ossessione della sicurezza. È uno dei miti contemporanei, un’illusione, una pericolosa illusione che ci fa costruire mura e prigioni dentro cui cerchiamo di rinserrare tutti quelli (e tutto quello) che ci fanno paura e dentro cui rinserriamo noi stessi nell’erronea e vana speranza, appunto, di proteggerci. E ci convinciamo che questa serie di barriere difensive di cui ci circondiamo e che ci limitano e condizionano tutelino e garantiscano la nostra libertà, che ci consentano di vivere con pienezza. Anche sulla sicurezza mi pare di avere detto qualcosa. In un’omelia per la Domenica del Buon Pastore, parlando del passaggio dall’immagine del pastore, propria dell’Antico Testamento, a quella del Pescatore, che in certo modo esprime lo spirito del Nuovo, ho sottolineato che, a differenza del primo che è ben sicuro del solido sostegno della terra, il secondo deve affidarsi all’acqua ed imparare a nuotare.

 — Sì, ricordo; l’ho ben presente: era la IV di Pasqua dell’anno B nel 2006. È il ciclo che pubblicheremo tra poco, sempre che ce ne sia la possibilità. Ci sto proprio lavorando in questi giorni, anche per dare un senso alla clausura ed esorcizzare rabbia e preoccupazione. Posso fare una citazione precisa: “È questione di certezza, non di sicurezza: non si mettono i piedi in terra, ma si è certi che l’acqua ci sosterrà, se non abbiamo paura. Mentre camminando sulla terra tutto sta fermo ed è la nostra azione che modifica, nel nuotare avviene il contrario: c’è l’ acqua, ondeggiante, mobilissima, senza consistenza; sono i movimenti che devono essere precisi, matematici, lenti e costanti… Questa è la novità del passaggio dal pastore al pescatore / nuotatore: qui è essenziale l’azione, il movimento. Il mondo è come l’acqua del mare: il problema è imparare a nuotarci dentro. Allora non sarà più una minaccia”.

 — Benissimo, hai fatto bene i compiti e studiato con diligenza la lezione. Ora applicala

Cioè?

— Cioè liberati dalla ricerca ossessiva di rassicurazioni, dalla speranza fallace e regressiva della ‘vita normale’, del ritorno alla ‘vita di prima’ che non era certamente la ‘vita verace’, la ‘vita in pienezza’. E impara a nuotare.

 — A parte che so nuotare abbastanza bene, non mi sembra questo il punto.

 — E quale sarebbe?

— Continui a spostare la questione. Qui non si tratta dei generici ‘pericoli del mondo’, dell’opposizione ad una struttura ingiusta. Questi sono avversari umani, per quanto smisuratamente potenti, ed in quanto tali affrontabili. Qui, invece…

 — Vedi, che non vedi? Concentri l’attenzione unicamente sull’oggetto. Certo, si tratta di ambiti totalmente diversi e solo in senso analogico raffrontabili. Quello che ti sfugge è, però, che l’oggetto, qualunque oggetto, non esisterebbe se non vi fosse lo sguardo che lo costituisce. E qui le distinzioni cadono, o per lo meno si attenuano fino a diventare irrilevanti.

 — Vuoi dire che sarebbe il nostro sguardo, mi sembra di capire secondo te difettoso, a generare il virus?

 — No, certo che no. Non sono un filosofo idealista. Il virus è ben reale; fa pienamente parte della realtà , del mondo, appunto. Il problema non è la sua effettiva consistenza, ma la relazione che si instaura tra lui (o esso) e voi.

— Certo: il problema è esattamente questo. E si tratta di una relazione pericolosissima, esiziale, mortale…

 — Che quindi va assunta, non rimossa o esorcizzata. Qui sta il nocciolo della questione. Si tratta, come sempre, di effettuare una scelta di campo. Torno al mio articoletto “Non temere”. Dicevo, se ben ricordo, qualcosa del genere “Si tratta di decidere se stare davanti alla realtà (la realtà, appunto, che include il male, le malattie, il virus, la morte…) in atteggiamento contemplativo (e sai che io non sottovaluto affatto la contemplazione, a patto che non sia ‘addomesticata’: hai in mente il volumettino Parola e contemplazione?), rivolgendo via lo sguardo dalle bruttezze per assommare in una sorta di antologia di passi scelti le cose migliori, come avviene nei romanzi a lieto fine…”.

— Oppure?

— Oppure compiere, consapevolmente e liberamente, un’altra, contrapposta scelta di campo; la sola in grado di farci, di farvi uscire dalla paura. La scelta di guardare (è in questo che si gioca, e non uso questo termine a caso, tutto) il mondo nella sua plenarietà ed immergervisi, sfidando il rischio e rinunciando alle eccessive e maniacali precauzioni (che non possono che risolversi in una moltiplicazione delle paura, come state sperimentando).

 — Quindi esporsi senza alcun riguardo alla pandemia, mettersi consapevolmente nelle situazioni di contagio?

— No, certo che no. Il rischio va corso, ma il pericolo va evitato. Mi pare di aver detto qualcosa del genere in qualche occasione. Il problema non è il pericolo, non è di questo che stavamo parlando. Non bisogna confondere le cose. Anche questa è opera del maligno (sempre con la minuscola, così non gli si dà più importanza del necessario). Un conto è il pericolo ed un altro, totalmente diverso, la paura. E di questa si tratta.

— Sì, capisco la distinzione sul piano verbale, ma in concreto…

— È qui, appunto, il problema e, se mi consenti, l’errore. Se si fa della paura la conseguenza necessaria del pericolo, se la si considera una risposta inevitabile, non si può che esserne prigionieri, con tutte le conseguenze del caso. Che sono poi quelle di ogni situazione di prigionia. Credo che tu ne sappia qualcosa.

 — Quindi, in definitiva?

— In definitiva, diciamo che occorre distinguere tra pericolo, che va ragionevolmente evitato ma non esorcizzato, e paura, che va sempre superata.

— Anche la paura della malattia e della morte?

— Soprattutto questa. Nei momenti di grande pericolo occorre sottrarsi al contagio della demoralizzazione. Parlavamo di libertà, no? Occorre rimanere fermi nei propri propositi, non rinunciare ai propri progetti, se sono stati ben ponderati e fondati su valide prospettive. Soprattutto non bisogna abdicare al proprio essere, depotenziarlo, sminuire la pienezza di vita. Magari ci vorranno delle correzioni, sarà opportuno rivedere metodi, tempi, modalità. E non è detto che questo sia un male, che comporti un danno. Potrebbe al contrario, rivelarsi un progresso. L’importante è non abbandonarsi allo sconforto, al degrado.

— Sicuramente suona bene: è stimolante ed incoraggiante. Ma dove trovare la forza, le risorse?

— Certo, questo comporta un affidarsi. E richiede una certa leggerezza. Affidarsi, io posso dire alla provvidenza, ma non è necessario introdurre questo elemento. Basta la fiducia che nella vita (che è più forte del virus, che non ne è se non una particolare, certo particolarissima, espressione, non la assoluta negazione) tutto possa comporsi con un senso, magari anche grazie all’azione della nostra libera volontà. Si tratta di esercitare una sorta di operazione di recupero: indovinare la direzione, trarre (estrarre) dalle situazioni di sofferenza (che definiamo negative) stimoli e strumenti per realizzare qualcosa di nuovo, di migliore. Se vogliamo usare un’immagine biblica, potremmo dire ‘estrarre il miele dalla bocca del leone’. 

Francesco Racchetti

Sondrio, 25 aprile 2020