Nel 2010 viene pubblicato negli Stati Uniti l’ultimo romanzo di Philip Roth, “Nemesis”, (nel 2011 in Italia, da Einaudi) che racconta il secondo, grave contagio di poliomielite che –dopo quello del 1916- colpisce la città di Newark nell’estate del 1944.
 
Ai grandi libri spesso ci avviciniamo spinti dalle nostre domande. E questo è ancor più vero oggi in quanto il virus ci impone interrogativi incessanti, estremi, radicali, che sappiamo essere non pienamente formulabili in risposte in qualche modo stabili e certe.
 
In “Nemesi”, una intensa short novel , il grande scrittore ebreo-americano (1933-2018) pone al centro della narrazione l’epidemia di polio che miete vittime tra i bambini e gli adolescenti della cittadina americana. Un morbo che colpisce con spietata efferatezza soprattutto gli innocenti, quei giovani per i quali la vita è un dono sconfinato, infinito, radioso come la tanto attesa estate, e per i quali la breve vita vissuta resta ancora e per sempre infinita e incompiuta anche dopo la morte ingiusta e precoce.
 
Newark è la città natale di Roth ed è il luogo dove egli ha ambientato “Pastorale americana” e (nelle vicinanze) “La macchia umana”. Era, negli anni quaranta-cinquanta, una cittadina di medie dimensioni, abitata da diverse comunità etniche tra cui una consistente presenza di ebrei trasferiti dall’Europa, ma anche da una folta comunità di italiani. Roth ne fa il luogo simbolico della concatenazione degli eventi che scandiscono l’esserci della vita nel contesto della urbanizzazione operante in quei decenni. Lo scrittore ha sempre espresso nelle sue opere un forte senso del dettaglio spaziale e geografico, una notevole capacità di ricreare un ambiente e una storia di comunità e di gruppi sociali.
 
E’ opportuno un chiarimento sul titolo “Nemesi”. La parola greca ha uno spettro semantico ampio ma coerente: vendetta, giustizia, punizione e giustizia divina ma anche collera e biasimo; nella lingua inglese ha l’accezione prevalente di “nemico”. La struttura della short novel si dispiega su tre capitoli: Newark Equatoriale, Indian Hill, Rimpatriata.
 
In apertura del primo capitolo si pone, per il lettore, la questione della “voce narrante”. Ecco l’incipit: “Il primo caso di polio quell’estate si verificò agli inizi di giugno, subito dopo il Memorial Day, in un quartiere italiano povero all’altro capo della città rispetto al nostro. Dall’angolo sudoccidentale di Newark, nella zona ebraica di Weequahie, noi non ne venimmo a conoscenza…” Chi racconta? Chi è quel “noi”? La voce si pone come esterna ma non è la voce di Roth che nei precedenti romanzi ha ideato un sostituto, una sua controfigura, Nathan Zuckerman. In questo romanzo Nathan non è presente e per scoprire l’identità del narratore onnisciente dobbiamo attendere il terzo capitolo. Roth ci ha abituati a identificare la voce narrante con molta lentezza. Anche questo fa parte dei suoi geniali artifici narrativi come la difficoltà di riconoscere la focalizzazione e come l’intreccio tra i tempi verbali che costringono il lettore a tornare più volte sulla pagina.
 
La prima parte del primo capitolo è dedicata alla presentazione del protagonista Eugene Cantor, detto Bucky, un giovane ventitreenne che da un anno insegna educazione fisica nella scuola di Chancellor Avenue di Newark e che affianca al lavoro di docente l’attività di preparatore sportivo dei bambini-ragazzi del quartiere di Weequaie abitato prevalentemente dalla comunità ebraica cui appartiene anche Bucky. La presentazione del preparatore sportivo è una pagina di grande bravura che conferma pienamente la forza della scrittura di Roth nella configurazione dei personaggi. Lo scrittore segue due piani diversi: prima l’aspetto fisico, poi il profilo del carattere e della personalità. Prima il corpo, poi l’anima. Roth inizia dal deficit fisico di Bucky: porta occhiali spessi per un rilevante problema di vista a causa del quale è stato dichiarato inabile al servizio militare al quale invece aspirava. Siamo immediatamente dopo Pearl Harbor : “era uno dei pochi giovani a non essere in guerra”. Ecco dunque una prima ferita del protagonista di cui tenere conto.
 
La descrizione fisica pare costruita da Roth tenendo sott’occhio uno dei grandi esemplari della statuaria della Grecia classica. Che so? Un kouros del VI secolo o il discobolo di Mirone. La struttura del corpo di Bucky è atletica, virile, poderosa: il corpo compatto, gli zigomi larghi e pronunciati, la mascella forte. E’ un costrutto che sottolinea il vigore fisico e nel quale il deficit della vista quasi sparisce.
 
Segue un episodio costruito apposta per dare risalto alle qualità morali di Cantor che si schiera prontamente e con coraggio a difesa dei suoi giovanissimi allievi da una brutale provocazione di un gruppo di teppisti proveniente dal lontano quartiere italiano. Bucky Cantor crede fermamente nel suo lavoro: insegnare ai suoi ragazzi il valore dell’impegno e il raggiungimento del risultato. E’, in un qualche modo, l’incarnazione della American Way of Life, intesa però in quel significato di “ascesa intramondana” che aveva indicato Max Weber e quindi come capacità personale di conquista che si trasforma in avanzamento complessivo della società.
 
Nella seconda parte del primo capitolo entriamo nel gorgo della pandemia. Ci sono i primi ricoveri anche tra gli allievi di Cantor e ci sono i primi morti. Il professore-istruttore parla ai suoi allievi, cerca di arginare il panico, visita le famiglie dei contagiati, partecipa ai primi funerali. E incomincia a porsi delle domande che investono gli uomini e che chiamano in causa Dio. E proprio al termine della cerimonia di sepoltura nel cimitero ebraico di un suo allievo, Alan Michaels, Cantor formula il suo giudizio sulla malvagità di un Dio che lascia morire le sue creature più innocenti: “Non sottomettersi all’Essere Supremo. Meglio diventare adepti di una religione solare”. Il professore (ri)scopre il paganesimo. Il dilagare del contagio apre quotidianamente nuovi fronti che Bucky fatica ad arginare. Particolarmente teso il rapporto con alcuni genitori che lo invitano a desistere dalle attività sportive fatte con gli allievi. In questo clima di grande sofferenza ed incertezza Cantor, anche su pressione della sua fidanzata Marcia -che è istruttrice di atletica in un campo giovanile lontano da Newark, situato in un ambiente alpino-  medita se abbandonare il clima infuocato della città. E alla fine decide di trasferirsi nel campo di Indian Hill.
 
Il secondo capitolo, meno riuscito del precedente e del successivo sul piano della resa letteraria, ha tuttavia la funzione di portare a compimento le drammatiche premesse disposte prima del dubbioso e difficile trasferimento del protagonista nella splendida oasi naturale dove ritrova Marcia e dove si rimette al lavoro con i nuovi allievi. Ma la natura non rasserena, neppure questa volta. E’ una delle tante illusioni dell’uomo moderno che Roth demolisce. E’ proprio qui, in questa apparente mondo incontaminato, verde e bagnato dalle acque limpide di un lago, che la tragedia irrompe nuovamente e il protagonista, che si scopre a sua volta contagiato, è travolto da un invincibile senso di colpa: il vero colpevole del contagio, che è arrivato anche a Indian Hill, sono io: ecco la drammatica conclusione di Cantor. Una incondizionata assunzione di responsabilità che egli è disposto a condividere solo con Dio, il suo Dio, quello che è responsabile della morte e della sofferenza umana. A nulla valgono le argomentazioni di Marcia e l’epilogo è il ricovero dell’istruttore in ospedale e l’inizio di un lunghissimo calvario. La tragedia si compie ed il cerchio del male si chiude definitivamente.
 
Il terzo capitolo, forse il più bello, opera uno stacco netto dalle due parti precedenti. Un breve ragguaglio sul lungo e penoso travaglio ospedaliero di Cantor, fortemente menomato e ridotto su una sedia a rotelle e poi il capitolo salta ai primi anni settanta e all’incontro, dapprima occasionale ma poi consolidato in una abitudine tra Cantor e Arnold Mesnikoff che era stato un suo allievo nella torrida estate del ’44 nel campo giochi della Chancellor, colpito come altri allievi dalla polio e che solo dopo una prolungata terapia era riuscito a rimettersi in qualche modo in piedi. Si era poi laureato in architettura e aveva avviato un solido studio professionale. Arnold è la voce narrante e racconta tutto ciò che è rimasto depositato nella sua memoria e tutto ciò che Cantor gli racconta nel corso dei loro incontri dopo trent’anni. La conversazione tra i due uomini che, pur nella rilevante differenza di età, hanno in comune la condizione di invalidità causata dalla poliomielite e la condivisione di una breve ma importante esperienza di vita, è di notevole levatura. Ed è proprio nel corso di questo loro conversare, ricordare, riflettere e rivivere che il profilo umano di Cantor si chiarisce drammaticamente. Egli racconta infatti all’ex allievo che la sua certezza di essere stato la causa della diffusione del virus sia tra gli allievi del campo giochi di Newark che del campo indiano lo ha convinto a rinunciare per sempre all’affetto di Marcia e di vivere la sua penosa condizione in completa solitudine. Ecco la nemesi, ecco la punizione. Ma c’è qualcosa di ulteriore in questa dura sanzione che il protagonista si impone. Cantor è vittima di una sua sottile forma di hybris, di una presunzione, di una tracotanza: “Doveva trasformare la tragedia in colpa – riflette silenziosamente Arnold nel corso del terzo capitolo- Doveva trovare una necessità a quanto accaduto. C’è una epidemia e lui ha bisogno di trovarne la ragione. Deve chiedere perché. Perché? Perché? Che si tratti di qualcosa di insensato, contingente, incongruo e tragico non lo soddisfa. Cerca invece disperatamente una causa più profonda, questo martire, questo maniaco del perché e trova il perché in Dio oppure in se stesso”.
 
“Nemesi” si chiude con una pagina splendida, pagina che noi lettori possiamo liberamente intitolare “il lanciatore del giavellotto”. E’ una pagina tutta costruita sulla memoria di Arnold, pagina che chiude questo terzo capitolo di confronto- scontro con il suo antico istruttore. Arnold ricorda al lettore che si appresta a terminare la lettura del romanzo un episodio di bellezza e di perfezione sportiva: il lancio preciso, esattamente calibrato ed eseguito del giavellotto da parte dell’istruttore Bucky Cantor alla presenza dei suoi allievi incantati. E’ una pagina di “risarcimento” dovuto a chi ha combattuto un’altra guerra, da cui è stato pesantemente ferito. E’ una pagina in cui, a nostro modo di vedere, Roth ha voluto consegnarci un significato simbolico: il giavellotto, strumento arcaico di potenza guerriera, diventa, nel corpo teso e pronto al lancio di Bucky, il simbolo dello sforzo di una nazione impegnata in un doppio fronte per l’affermazione della sua esistenza e dei suoi valori,

 

Michele Del Vecchio