Katafik antifascista

 

Nel ’68 ci trasferimmo a Sondrio, dove mia madre lavorava presso una famiglia. Mio padre era morto giovanissimo, a 42 anni, stroncato dalla silicosi. Come tanti della sua generazione era diventato antifascista nel vivo delle guerre fasciste, nel suo caso la guerra d’Albania, quando l’Italietta del Duce aveva provato a “spezzare le reni” alla Grecia. Tornato a casa aveva messo su famiglia e aveva lavorato in galleria in varie parti della penisola. Rimasto orfano a due anni, finii le elementari a S. Giacomo di Teglio e poi fui mandato in collegio, prima dai Salesiani a Sondrio, poi a Brescia per frequentare un corso di radiotecnico. Odiavo il collegio e cominciai a detestare anche i preti, alcuni dei quali imponevano una ferrea disciplina con il gusto sadico dell’aguzzino. Se avevo qualche dubbio sul clero, l’esperienza del collegio me lo tolse: una categoria di repressi, molti dei quali inclini alla pedofilia. Uno dei pochi che salvo è il direttore del collegio di Brescia con il quale, invece, ebbi stranamente buoni rapporti.

Arrivato a Sondrio dopo il collegio, assaporai la libertà della città e mi misi subito in “banda” con un gruppo di miei coetanei figli del popolo come me, eravamo tutti piuttosto ribelli nei confronti delle rigide gerarchie sociali del tempo e critici degli schemi ancora bigotti e benpensanti della società di allora. Avevamo come base il Tourist, un bar ancora esistente, ma che oggi ha una clientela meno agitata di quanto non eravamo noi allora. Non che fossimo una banda di “delinquenti”, però una certa propensione alla trasgressione delle regole l’avevamo. Alcuni lavoravano regolarmente, altri si diedero al contrabbando, quando questa attività cubava una quota consistente del PIL provinciale. Ciò consentiva di avere una certa disponibilità di soldi da bruciare in quelli che erano allora gli oggetti di consumo più ambiti: le moto, la mitica Giulia per i più intraprendenti, la frequentazione di bar e balere e, all’occasione, qualche puntata alla Rupe. Dal contrabbando qualcuno passò, poi, ad attività fuorilegge più complesse, ma tutti, dopo qualche intemperanza giovanile, rientrammo nei ranghi. Il giro al quale partecipavo aveva già un suo definito orientamento a sinistra, qualcuno era anche iscritto alla FGCI. Il ’68 impresse al tutto uno spostamento su posizioni più radicali. Il Che era stato assassinato nel ’67 e, quando nel ’68 uscì il Diario, lo lessi avidamente insieme ad altri suoi scritti pubblicati dalla Feltrinelli. Per me era il massimo del rivoluzionario con il suo impegno in prima persona fino al sacrificio della vita, la sua dedizione alla causa della liberazione degli oppressi, il rifiuto dei compromessi, l’essere fuori dalla logica del tornaconto personale, anche se nella forma del potere politico. C’era poi il Vietnam e, nello scontro planetario tra imperialismo e rivoluzione, passavano in secondo piano eventi come la Primavera di Praga e l’intervento sovietico nell’agosto del ’68: se l’URSS era intervenuta qualche buona ragione doveva pur averla. Con queste idee in testa, mi avvicinai nell’estate del ’69 all’Unione, che si stava allora costituendo anche a Sondrio, unico gruppo organizzato della nuova sinistra allora operante in città. C’era, a dire il vero, anche il PC d’I (m-l), anche loro filocinesi e marxisti-leninisti, ma si trattava di una conventicola di attempati stalinisti, dediti più alla vigilanza rivoluzionaria che al lavoro politico vero e proprio. Cominciai a lavorare con l’Unione: attrezzammo la sede, discutevamo, ci davamo di ciclostile e facevamo i nostri bravi volantinaggi. Ben presto, però, entrai in conflitto, non tanto con gli autoctoni, con i quali c’erano già precedenti rapporti di amicizia e non c’erano problemi particolari. Le grane nascevano con i dirigentini burocrati che ogni tanto piombavano in provincia per lanciare questa o quella campagna di rettifica a suon di critica e autocritica o per i soliti pistolotti sulla “grande e giusta Unione” infarciti di citazioni dal libretto rosso del Presidente o di riferimenti al Mao italiano, il compagno Aldo Brandirali. Ricordo un cretino di Bergamo, tale Minetti, che ebbe un giorno a criticare il fatto che accanto al Giallone nei locali di via Lavizzari ci fosse anche un manifesto del Che e pretendeva che fosse rimosso, cosa inconcepibile per un guevariano della prima ora come il sottoscritto. Tacciare il Che di “romanticismo piccolo-borghese” era un affronto che non tollerai. Un’altra volta lui, o un altro della stessa pasta, voleva censurare le canzoni anarchiche. La goccia che fece traboccare il vaso avvenne poi a Milano in occasione di un congresso: quando dai delegati si alzò possente lo slogan Stalin-Mao-Brandirali capii che il gruppo necessitava di cure psichiatriche. Abbandonai il congresso e l’Unione e di lì a poco anche la sede di Sondrio chiuse.

Finita l’esperienza gruppettara, fui cane sciolto e partecipai ancora a qualche iniziativa, soprattutto nel campo dell’antifascismo, ma mi tenni alla larga dalla partecipazione ad altre aggregazioni militanti. Nel febbraio ’70 c’era la mostra SO70 coordinata da Bettini e Fassin e ad un certo punto ci fu una provocazione di un gruppo di fascisti di Occidente che affissero su un tabellone la foto dell’agente Annarumma, morto nel novembre dell’anno prima a Milano. Ecco come Ferruccio Scala, giornalista del Lavoratore Valtellinese, racconta l’episodio: “Il servizio d’ordine della mostra toglie quella foto dalla bacheca improvvisata. Un breve battibecco tra galletti, poi un galletto del servizio d’ordine, tale Enrico detto il “Che”, tira quel che si dice in dialetto Katafic e il fico cade sotto forma di vetrini rotti. Il milite fascista raccoglie i cocci e se ne va.” L’anno dopo andai militare e anche lì ebbi qualche problema a piegarmi ai regolamenti. In compenso mi cavai anche qualche soddisfazione, come quando durante il CAR a S. Giorgio a Cremano insieme ad altri compagni naioni lucidammo le parole “LOTTA CONTINUA”, che era parte di una iscrizione più lunga dedicata ad un qualche patrio eroe cui la caserma era stata dedicata. Chiunque entrava in caserma si trovava davanti quelle due parole in bell’evidenza sulle altre che il tempo aveva opacizzato e ciò fece andare in bestia l’intero comando: un’inchiesta fu aperta, ma senza che i responsabili venissero individuati.

Quando tornai da militare, era tempo che cominciassi a lavorare seriamente, essendo il tempo della giovinezza ormai scaduto. In seguito allo shock petrolifero, si erano aperte nuove occasioni di lavoro nei paesi mediorientali e altrove e, come tanti giovani valtellinesi , fui in giro per il mondo a montare prefabbricati per nuovi insediamenti industriali. Fui in Iran, in Algeria e anche in Russia. La politica la seguivo da lontano e, nel periodo delle prime azioni di Curcio e compagni, nutrii qualche simpatia per forme di lotta che tanto mi ricordavano la teoria e la pratica del foco guerrillero della rivoluzione latinoamericana. Poi negli anni ’80 e ’90 fui addetto agli impianti elettrici in vari cantieri in Italia e in Svizzera. Intanto mi ero sposato ed erano nati due figli. Dopo un ventennio in una fabbrica metalmeccanica vicina a casa, ho concluso quest’anno il mio percorso nel mondo del lavoro. Quando ripenso a quegli anni, penso che avevamo visto giusto a diffidare di personaggi come Brandirali, poi confluito in Comunione e Liberazione e in Forza Italia, erano mestieranti della politica e non rivoluzionari col cuore. Per fortuna il ’68 non fu solo questo e con le sue lotte e le sue conquiste fu un fatto di grande progresso. Ciò non si può negare.