Tutto è iniziato con le ferie forzate, con più tempo passato a casa in un’atmosfera sospesa, segnata dallo scambio di video scherzosi, perché siamo italiani e più che alla bandiera ci affidiamo all’ironia.

In quei giorni mi sono chiesto più volte cosa sarebbe cambiato, quale ribaltamento avrebbero subito le certezze su cui abbiamo costruito il servizio sociale in questi ultimi anni. Negli uffici sembrava prevalere l’invito alla prudenza, qualche correttivo qua e là e tutto sarebbe passato, ma in pochi giorni la violenza del virus, con le sue paure e i primi morti accertati, avrebbe travolto tutto è stravolto le nostre priorità riproponendo questioni che credevo superate.

Mi chiamano un sabato mattina dall’ospedale e mi chiedono di contattare una signora in difficoltà nell’accudire il marito. La contatto e mi racconta che non riesce a lavare e cambiare il marito non autosufficiente, mi dice che è rimasta sola perché la donna che l’aiutava non se la sente di uscire di casa. Sa che il marito è messo male ma non vuole ricoverarlo perché vorrebbe stargli vicino fino all’ultimo giorno. Come mi accade spesso quando ascolto qualcuno perdo un po’ il filo e immagino questa donna come una persona orgogliosa, tenera e disperatamente sola. Mi attacco al telefono e chiamo i colleghi, la guardia medica e di nuovo l’ospedale. La richiamo un paio di volte ma non si muove nulla, rimarrà sola fino a lunedì.  Il caso non è abbastanza grave, forse entrambi sono positivi al covid-19, forse qualcuno è intervenuto martedì.  Mi vergogno e mi sento impotente.  Solo dopo qualche giorno capisco: non potremo più fingere ed accettare che la sanità territoriale e le cure assistenziali siano cose distinte. La priorità sarà quella di riannodare i fili di un’assistenza alle persone fragili, quell’assistenza fatta di pratiche semplici, come quelle che in questi giorni un esercito di donne invisibili (ausiliarie, badanti, governanti e mogli) continuano a svolgere, e di pratiche complesse come quelle degli infermieri, dei medici e degli psicologi, delle assistenti sociali. Dovranno dialogare tra loro, collaborare e muoversi insieme, come è accaduto quando mia madre ha avuto bisogno delle cure palliative ricevendo un aiuto competente da un gruppo di professionisti attenti a tutte le dimensioni di cui quella madre morente e i suoi figli avevano bisogno. Una squadra composta da un medico, un infermiere, uno psicologo, una ausiliaria che si è mossa all’unisono, fino alla fine. Un modello forse a cui ispirarci in futuro. Dovremmo superare gli steccati che dividono SAD, ADI, UDP, ASST e ATS, sigle di organizzazioni e servizi che abbiamo specializzato riducendone la capacità di interazione.

Qualche giorno dopo sono al centralino dell’ufficio e ricevo una telefonata. È una signora che conosciamo bene da anni, una vita sfortunata, disgraziata, che ha creato a lei, ai suoi figli, ai parenti e agli operatori tutti un sacco di grattacapi. Mi chiede di un assistente sociale ma in questi giorni, siamo ormai ai primi di marzo, siamo a ranghi ridotti.  Le dico che mi spiace ma che se lo desidera la faccio richiamare da un’altra collega. Lei mi dice che non importa, che voleva solo sapere se la sua assistente sociale stava bene. Riattacco e mi coglie un’ondata di commozione. Ultima tra gli ultimi, indegna agli occhi di molti, questa donna vuole solo accertarsi che la sua assistente sociale non sia malata. Guardo le colleghe che in questi giorni si muovono con le mascherine, i guanti, che sorridono e rispondono alle tante chiamate e penso che gli ultimi saranno i più riconoscenti.

Poi arrivano i soldi per l’emergenza alimentare e si scatena l’inferno.

Chi decide chi si merita un aiuto? come arginare l’esercito dei furbi e dei parassiti dell’assistenza?

Si ripropone un film che ho già visto tante volte e circolano domande che credevo superate e che l’emergenza ripropone nella sua triste è inutile volgarità. Il cinismo non ha limiti e il dibattito si sviluppa intorno a questioni come queste: chi stabilisce se hai veramente bisogno? gli amministratori si possono fidare de giudizio dei tecnici? chi si è impoverito è privo di colpe o ci ha messo del suo per ritrovarsi tra gli ultimi? 

Per fortuna abbiamo una buona dose di anticorpi che abbiamo accumulato grazie ad anni di lavoro sulla povertà e la vulnerabilità, perché abbiamo lavorato su questo tema insieme, operatori pubblici e operatori privati, volontari e benefattori. Così tutto parte in fretta e mentre altri discutono si organizzano le prime risposte. I comuni, le associazioni, i cittadini iniziano a distribuire gli aiuti: pacchi viveri, spese sospese, buoni spesa, contributi straordinari, pasti caldi offerti da volontari che riaprono la mensa. Più veloci delle discussioni, più efficaci delle idee buone, cattive o stereotipate. In un caleidoscopio di soluzioni ci muoviamo veloci, forse un po’ pasticcioni ma generosi e soprattutto uniti, perché nel nostro territorio abbiamo superato da tempo l’idea che la povertà possa essere risolta solo dagli enti pubblici o solo dalle organizzazioni più caritatevoli o solo con i soldi di filantropi di buon cuore. Grazie a questa rete, che non ha bisogno di ripartire perché è stata gettata da tempo, tutto si muove in modo semplice, silenzioso e gli ultimi ringraziano.

Pochi giorni fa sento un sindaco, ancora una volta una donna, che mi dice di essere preoccupata perché in paese aumenta l’intolleranza, perché la segregazione, i limiti imposti negli spostamenti, stanno generando rabbia e proteste…” contro la vecchia che gira senza mascherina, il matto che urla o il fannullone che gironzola senza vergogna”. Anche in questo caso mi ritrovo a pensare alle tante volte che, come questo sindaco, sono stato investito dalla rabbia di chi pretende che gli operatori dei servizi pubblici siano responsabili di tutto, investiti, quando serve, del magico potere di ripulire la società da queste escrescenze, dai pazzi, dai dementi, dagli alcolisti o dagli stranieri. Ed è così che di lì a poco discuto al telefono con una ricercatrice di una fondazione bancaria che mi ha contattato per chiedere un parere sulle priorità su cui far convergere le risorse future.

Mi ritrovo a parlare di comunità, di coesione sociale, di relazioni di prossimità, di un tessuto sociale di cui dovremo tornare a prenderci cura, di democrazia partecipativa e mentre ne parlo mi emoziono forse perché non ci credo fino in fondo o perché sono stanco e preoccupato.

Forse, penso, sono solo rassicuranti paradigmi professionali a cui mi aggrappo per superare lo sconforto o forse sono le prime tracce di una visione, l’unica che ci può salvare quando non possiamo fare previsioni.

Luca Verri