La battaglia delle predelle

 

Nel ’68 avevo 13 anni. Fu soltanto nell’anno scolastico 1969/70 che venni in contatto con qualcosa di nuovo. Ero iscritta all’Istituto Magistrale di Sondrio. Ero la prima generazione della mia famiglia che poteva permettersi di accedere agli studi superiori. Pare fosse stato venduto un vitello per pagare la retta del collegio. Soggiornavo dalle suore, con tanto di divisa, vestito blu con il colletto bianco, calzettoni bianchi e un mare di regole da rispettare. Proprio nel primo periodo dell’anno scolastico incappai in una sorta di “occupazione della scuola”: L’edificio scolastico era tappezzato di manifesti e volantini; vi erano discussioni e assemblee. I temi erano quelli del diritto allo studio per tutti, di una partecipazione democratica e diretta degli studenti, di attenzione alle tematiche sociali. Mi sembrarono da subito argomenti giusti e assolutamente condivisibili. Frequentavo il corso A, le quattro aule erano disposte lungo un solo corridoio e noi delle prime classi veneravamo gli studenti della quarta che tenevano le fila della protesta.

Direi che l’aria era impregnata di questo flusso di cambiamento e vi partecipai informandomi e infervorandomi per quanto permesso dalle mie condizioni. Ricordo l’episodio simbolico delle “predelle”.In ogni aula la cattedra del professore era appoggiata su una predella, cioè una pedana di legno che la rialzava rispetto al livello dei banchi degli studenti. Una delle prime azioni fu quella di togliere la predella e lasciare la cattedra sul pavimento, a significare la fine della supremazia e del potere della classe insegnante sugli studenti. Noi la toglievamo e il giorno dopo, rientrando, la ritrovavamo al suo posto e avanti così, una battaglia continua.

L’ anno scolastico poi proseguì più o meno normalmente per me … ma furono davvero molti i cambiamenti anche fuori dalla scuola. Nel corso di quell’anno furono ribaltate molte regole della vita collegiale. Passai dalla divisa “bon ton” e dai grembiuli scolastici ai jeans (rogers) acquistati al mercato e a maglioni extralarge maschili con scarpe da ginnastica, apparvero calze di nailon e minigonne. Inizialmente noi ragazze uscivamo dal collegio indossando ancora il grembiule sopra il nuovo look, e poi lo toglievamo. Presentammo alle suore richieste su richieste di permessi per uscire il pomeriggio e per poter andare a casa il fine settimana, dove qualche problema cominciò ad emergere.

Qualche inevitabile conflitto

In famiglia mia sorella ed io eravamo state educate a valori positivi come l’onestà, il rispetto, l’impegno, il valore della cultura. Avevamo avuto una formazione cattolica e partecipato alle attività parrocchiali. Quando poi siamo venute a contatto con altri modi di vivere e abbiamo espresso criticità sono sorti inevitabili conflitti. E, considerata la storia dei miei genitori, non poteva che essere così.

Mio padre, classe 1921, lavorava come Guardia Giurata al Distretto Militare di Sondrio, che aveva sede al Castel Masegra. Faceva dei turni costituiti da 24 ore di servizio e 48 ore di riposo. Durante questo “ riposo” si occupava delle incombenze del mondo contadino, bestie, orti, prati, boschi … A volte si lamentava per queste fatiche e dichiarava “per fortuna domani sarò a lavorare a Sondrio così mi riposo!” . Mia madre, invece, era casalinga, si dava da fare con lavoretti esterni part time (es. cuoca alla scuola materna, pulizie) e pagava dei contributi pensionistici volontari.

Mio padre aveva conseguito il diploma di V elementare . Ma, a quanto pare, aveva frequentato un corso efficiente e concentrato … scriveva perfettamente, sapeva un sacco di cose! Poi da autodidatta apprese nozioni di diritto, di stenografia, il tedesco, la musica … Mia madre, più giovane, avrebbe tanto voluto studiare ma dovette accontentarsi della terza “Avviamento professionale”, essendo, nella sua famiglia, la prima di sei figli e dovendo quindi essere d’aiuto in casa.

I miei, fondamentalmente, erano dei tradizionalisti ed erano perplessi nei confronti del sommovimento sociale in corso di svolgimento in quel periodo. Del resto nel dopoguerra avevano visto modificarsi progressivamente in meglio la loro condizione socioeconomica e questi miglioramenti li attribuivano alla Democrazia Cristiana, partito al quale erano iscritti e che votavano con convinzione. Inoltre erano influenzati dall’orientamento cattolico, anche se non erano bigotti, tanto che – credo- si espressero favorevolmente sul divorzio, non così sull’aborto.

Il Collettivo operai-studenti

L’ anno successivo rifiutai il collegio e iniziai a viaggiare (un’ora e mezzo di viaggio). Trascorsi purtroppo buona parte di quell’anno a casa malata ma l’anno successivo presi dimora a Sondrio presso una famiglia ed ebbi così l’opportunità di avvicinarmi e frequentare gruppi costituiti. Negli anni seguenti tornai a viaggiare e quindi la mia partecipazione si spostò a Chiavenna, dove venne fondato il Collettivo Operai – Studenti che vedeva ben rappresentate le due categorie. Affittammo una sede dove ci si riuniva spesso. Qui si faceva molta teoria su temi che spaziavano dalla condizione operaia fino alla politica nazionale e internazionale. Il quadro era quello della lotta di classe e dell’emancipazione delle classi subalterne, della militanza antifascista e antimperialista. Pensandoci ora, mi pare un miracolo che si riuscisse a tenere insieme un tessuto composto da studenti universitari nutriti a pane e teorie, studenti delle superiori e giovani operaie e operai delle fabbriche della valle. Sicuramente vi era molto idealismo e ci motivava la prospettiva di un cambiamento che pensavamo ineluttabile: credevamo in una diversa distribuzione della ricchezza, in una maggiore giustizia, al riscatto delle classi subalterne, nell’opposizione ai regimi dittatoriali, alla realizzazione di un comunismo diverso dai modelli esistenti.

Ricordo la partecipazione ai picchetti nelle occasioni di sciopero davanti alle fabbriche o i volantinaggi la mattina presto all’entrata degli operai, nonché mostre in piazza (controinformazione). Personalmente ammiravo le ragazze operaie (circa mie coetanee), mi sembravano fulgidi esempi di presa di coscienza e di coraggio.

A Sondrio ricordo pittoresche manifestazioni studentesche, colorate ed agguerrite, sonoramente espresse con slogans e canzoni. I contenuti vertevano su rivendicazioni scolastiche ma riguardavano anche prese di posizione nette su temi politici e di politica internazionale. Ho un vago ricordo anche di una manifestazione antifascista avvenuta a Chiavenna, con una pesante presenza di forze di polizia. Come in parte già detto, vi fu in quegli anni un cambiamento radicale del modo di vivere.

Dapprima si cercò di modificare qualcosa all’interno della Chiesa, facendo riferimento alla “Teologia della Liberazione”, ai preti operai, alla testimonianza dei valori evangelici che erano andati smarriti … Con queste idee in testa venne fondata la Comune “La Palù” dove si leggevano il Vangelo e la Bibbia. Poi gli aspetti sociali e politici presero il sopravvento. La Palù era ubicata a Prata in Valchiavenna, accanto al cosiddetto “Campanile Nero”; era abitata stabilmente da alcune persone ma divenne ben presto “casa di tutti”. Lì si passavano serate e domeniche, si leggeva, si mangiava insieme, si accoglievano compagni da Milano. Si era sempre immersi nella musica. Lì nascevano e si scioglievano amori, lì si parlava all’infinito. Erano sovvertite le regole e i riti “borghesi”. La casa era un vecchio e rustico edificio nel bosco, appena fuori dal mio paese. Aveva un indubbio fascino e creava un legame con il passato e la vita povera. Non contavano i beni materiali ma lo spirito comunitario che vi aleggiava.

Avanguardia operaia

Oltre al gruppo Operai – Studenti di Chiavenna, mi ero avvicinata al gruppo extraparlamentare denominato “Avanguardia Operaia” nel periodo in cui abitavo a Sondrio. Ricordo riunioni impegnate e dense, nella sede di salita Ligari, dove avevano un ruolo preminente gli studenti universitari che rappresentavano il trait d’union con il movimento milanese. Altri, tra cui anch’io, cercavano di tenere il passo per lo meno cercando di comprendere e apprendere. Più d’una volta ho portato a casa del “materiale” che andava “studiato”, magari al posto delle materie scolastiche. Ricordo che una volta mia madre trovò nella mia camera alcuni di questi opuscoli e bruciò il tutto, sostenendo di non voler vedere falci e martelli a casa sua, l’avevano già fatta soffrire abbastanza. Con queste parole si riferiva al nonno sul quale è giusto aprire una parentesi. Il nonno era una figura carismatica e specchiata, era iscritto e militante del PCI e praticava un rispettoso ateismo (“non posso dimostrarti che Dio non esista ma tu non mi puoi dimostrare che esista”). La nonna invece era credente e devota, punto di riferimento per la numerosa famiglia di sei figli, sempre in lotta contro la povertà, almeno fino agli anni ’60.

Nell’ambiente di AO non nascondo d’aver provato a volte del disagio, nel senso che ci si aspettava che ognuno di noi fosse, nel proprio ambiente, un testimone e un agitatore di parole d’ordine molto astratte e schematiche. Credo inoltre d’aver avuto più d’una perplessità rispetto a slogan che comunque circolavano ad esempio “uccidere i fascisti non è reato” oppure “lo stato borghese si abbatte e non si cambia” oppure “fascisti, borghesi avete pochi mesi”! In qualche caso forse l’esigenza della rima aveva fatto prendere la mano … ma la violenza mi faceva paura e in realtà sappiamo che, un po’ di anni dopo, vi fu una deriva in senso violento da parte di frange del movimento.

Un’altra cosa che mi turbava era quella certa intolleranza nei confronti di tutti, compresi altri gruppi dell’area, es. Movimento Studentesco, Lotta Continua, ecc. Funzionava così: ognuno era il depositario della verità e gli altri erano assolutamente fuori linea. Non so se questa cosa la vedo solo ora ma mi sembra d’averla in parte percepita anche allora … vi era una criticità esasperata che, a volte, si trasmetteva anche nella vita personale e sociale di ognuno di noi. Si era portati a classificare le persone in base a cosa pensavano e alla loro appartenenza politica. In effetti si finiva per frequentare esclusivamente il proprio ambiente e a trascurare o lasciare rapporti e amicizie precedenti.

Un anno a Milano

Dopo le scuole superiori vissi un anno a Milano per lavorare e insieme frequentare l’Università. Questo periodo, 1974/75, fu davvero denso di esperienze, anche se vissute meno in prima persona e più come facente parte di una collettività. Ricordo la folla all’Università Statale, i momenti intensi e quasi commoventi, l’essere insieme agli operai delle fabbriche in piazza, le canzoni, l’atmosfera di potere e di speranza, gli entusiasmi nelle grandi manifestazioni di piazza.

Ma, accanto a tutto questo, ricordo anche il clima di violenza che spesso si respirava in quel periodo. Infatti era esplicito il conflitto tra i gruppi extraparlamentari di sinistra e le organizzazioni neofasciste. Come tutti sanno vi furono pestaggi, aggressioni e purtroppo anche omicidi. Ricordo in particolare di aver partecipato a una grande e sentita manifestazione antifascista che fu organizzata dopo l’uccisione di un giovane ragazzo di sinistra, Claudio Varalli, da parte di un membro di Avanguardia Nazionale. Cercavo, come molti, di partecipare alla parte “sana” del corteo, al suo centro, evitando i margini e la coda… non ricordo come fu ma ricordo il clima di paura … durante lo smembramento del corteo mi trovai nella zona di Corso XXII Marzo … una camionetta dei carabinieri salì su un marciapiede, investì e uccise il giovane Zibecchi. Le forze dell’ordine erano una presenza inquietante nel paesaggio di quel periodo, costante nel presidiare gli assembramenti, disperdere le persone con l’uso di candelotti lacrimogeni, nell’organizzare cordoni per tener separate le fazioni avversarie; si creavano con estrema facilità tensioni altissime tra i “servizi d’ordine” delle manifestazioni, la parte avversaria,e la polizia stessa.

La delusione del ’76

Nell’estate del 1975 tornai a Chiavenna, e mi inserii di nuovo nel Collettivo Operai Studenti. Ricordo il fervore della campagna elettorale per le elezioni del 20 giugno 1976. Nel frattempo si era infatti costituito il gruppo di Democrazia Proletaria con l’intento di partecipare alle elezioni e di portare all’interno delle istituzioni il vento del cambiamento e del rinnovamento attraverso il “governo delle sinistre”. Ricordo che, personalmente, la prima grossa delusione fu l’esito delle elezioni del 20 giugno 1976. Il “governo delle sinistre” non ne fu l’esito, la DC aveva mantenuto la sua supremazia. I gruppi a sinistra del P.C.I. si erano riuniti a formare Democrazia Proletaria che ebbe sufficienti voti per avere 6 rappresentanti in Parlamento. Sentii che qualcosa era finito, che la nostra voglia di cambiare “tutto e subito” si era rivelata un’illusione e che il cambiamento andava perseguito “dentro il sistema”. Nel frattempo ero entrata nel mondo del lavoro (insegnamento); la mia partecipazione diventò più mediata e matura. Mi iscrissi al sindacato, presi contatto con le problematiche scolastiche dall’interno, frequentai persone impegnate che non appartenevano all’ambiente precedente.

Il distacco dalla politica

Ciò che determinò maggiormente il mio distacco dall’impegno” politico, fu, oltre a quanto già detto, il nascere di una coscienza “femminista”. Diventò chiaro e palese che le donne avevano subìto storicamente uno sfruttamento e una subordinazione che attraversavano in qualche modo le classi sociali. Da questa consapevolezza nacquero un grande senso di orgoglio e desiderio di rivalsa, una nuova identità personale, una maturità non esente da conflitti con il genere maschile. Ci si riuniva con altre donne in gruppi di “autocoscienza”, liberi, spontanei e molto partecipati, dove si esploravano temi riguardanti il sesso e la condizione femminile. Si preparavano mostre, si “lottava” per temi concreti e importanti quali l’asilo-nido e i Consultori. Si “portava avanti” la dignità dell’essere donna e il diritto a una partecipazione piena alla vita sociale.

Sempre più lontano da me fu il succedersi degli eventi del ’77 e tanto più del terrorismo armato che consideravo una tragica degenerazione di una idealità ormai svaporata.

Anche nell’ambiente vi fu un ripiegarsi su percorsi personali di studio, di lavoro o di partecipazione politica più strutturata.

A conclusione di questo breve affresco di ricordi, vorrei…

Come vorrei che Mauro fosse ancora qui e potesse raccontare il suo, di ricordo. Invece se n’è andato, era il 2 giugno del 1985, nel sole delle montagne della Valle Spluga. Abbiamo condiviso quegli anni e posso dire che la sua partecipazione fu intensa e appassionata. (Mauro Triaca, 1953-1985)

Ora tutto è così lontano ma so che tutto ha contribuito a formarci, noi che restiamo.