Certificata origine proletaria e garantita

 

Mi considero un comunista irriducibile, nel senso che ritengo ancora valida l’idea di comunismo nel senso marxiano di “movimento che abolisce lo stato di cose presente”, anche se, quanto a vivacità del movimento, viviamo oggi un periodo di magra eccezionale. A ottant’anni compiuti, non ricordo un’assenza delle lotte e della sinistra come quella che stiamo vivendo oggi. Sono però un inguaribile ottimista e penso che prima o poi qualcosa dovrà succedere e il conflitto di classe, magari in forme inedite, dovrà tornare a dire la sua. Del resto la crisi del sistema è tale che non vedo alternative possibili se non in questa direzione.

Quando il ’68 arrivò a Tirano, ero già sulla trentina e politicamente ero già schierato a sinistra con qualche anno di militanza nella sezione comunista di Tirano. Ero arrivato al comunismo attraverso un percorso abbastanza particolare. Mio padre era morto in Russia ed io ero stato cresciuto con l’idea che l’Unione Sovietica e i comunisti fossero i responsabili del fatto che fossi orfano e rimasi con questa convinzione fino al servizio militare, che feci intorno al ’60. Prima di servire la patria, avevo già lavorato parecchio, avevo cominciato a fare il panettiere a 11 anni e mezzo, dopo la 1° avviamento, e poi avevo svolto altri mestieri, anche in Svizzera, paese che con i suoi alti salari costituiva per noi tiranesi una specie di Eden lavorativo. Avevo vissuto l’istituzione scolastica con un certo fastidio, ma avevo passione per la lettura e divenni un gran divoratore di libri gialli, mi prendeva il loro intreccio narrativo, che mi sembrava di gran lunga più interessante rispetto al classico romanzo d’avventura alla Salgari che veniva allora consigliato a noi giovani. Fu, però, il militare a rappresentare per me uno spartiacque. In caserma feci amicizia con un veneto figlio di partigiani che mi aprì gli occhi sulla campagna di Russia: chi se non il fascismo era responsabile per quella guerra di aggressione imperialista che aveva portato alla morte di mio padre nelle gelide steppe di quel lontano paese? Grazie ad una sua “raccomandazione” divenni bibliotecario e in questo ruolo ebbi modo di dedicarmi, quasi a tempo pieno, alla lettura: divorai decine di romanzi, soprattutto quelli di autori russi dell’Ottocento, ma non solo: ci furono anche quelli americani con Jack London e il suo Martin Eden. Ebbi modo di leggere anche la Bibbia, libro che mi lasciò sconcertato per la narrazione favolistica e per la crudezza delle vicende raccontate, cosa che paradossalmente mi portò all’ ateismo. Ero ormai diventato un convinto comunista, diedi una mano a ricostruire la sezione del PCI a Tirano, partecipavo alla diffusione de L’Unità e fui anche per qualche mese in federazione in occasione di una delle campagne elettorali degli anni ’60. Ero un militante un po’ sui generis, perché leggevo qualche libro degli Editori Riuniti come “L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza”, un testo scritto da Engels con un chiaro intento divulgativo. “Guarda che vai a finire male”, mi aveva ammonito il segretario della federazione Pavesi, quando ero diventato critico nei confronti del partito. Il male, nel mio caso, era l’avvicinamento alle idee della contestazione, che intorno al ’68 cominciarono a metter radici anche in una cittadina come Tirano. Partecipai alla costituzione del gruppo di piazzale Trombini, un gruppo informale di giovani tiranesi, che si riuniva a discutere in una sede situata nell’omonima piazza e che fu promotore nei primi anni ’70 di diverse iniziative, tra cui una scuola serale per lavoratori da preparare all’esame per la licenza di scuola media. Anche in questa esperienza nel gruppo portai con me quella passione da autodidatta per la teoria di cui dicevo prima. Fu in quella sede che ciclostilai una trentina di copie di una riduzione del Che Fare? di Lenin nella quale avevo riportato quelli che mi sembravano i passaggi più significativi dell’opera. Ero mosso dall’entusiasmo, forse non mi rendevo conto della complessità del libro, difficile da inquadrare anche per la specificità delle diatribe all’interno della socialdemocrazia russa di inizio Novecento. Pensavo che ciò potesse servire a costruire su basi più solide la nostra azione politica. Partecipai anche a incontri con insegnanti della sinistra di Sondrio con i quali c’era un buon rapporto, anche perché, probabilmente, loro vedevano in me l’operaio autodidatta che avrebbe potuto diventare un quadro dirigente di “certificata origine proletaria” ed io ritenevo importante per la mia formazione la frequentazione di quei “salotti” intellettuali nei quali c’era il gusto per l’approfondimento teorico e la citazione dotta dei “maestri”. D’altra parte erano gli anni della Rivoluzione culturale ed uno dei messaggi più affascinanti che arrivava dall’Oriente era proprio quello del superamento della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.

La mia partecipazione alla politica era, però, alquanto saltuaria, perché per tutti gli anni ’70 non potei fare affidamento su una continuità lavorativa che mi consentisse di coniugare al meglio lavoro, famiglia e impegno. Con il temperamento che mi ritrovavo e con il corredo ideologico che mi accompagnava i rapporti con i datori di lavoro erano a volte burrascosi e, in linea di massima, preferivo licenziarmi piuttosto che sottostare al comando di padroni, padroncini et similia, quando esso diventava arbitrario. Il mio libretto di lavoro stava diventando una bandiera americana: fui operaio in Svizzera più volte e fu durante uno di questi impieghi che mi amputai alcune dita di una mano, fui al Cotonificio Fossati di Sondrio dove per qualche tempo feci l’esperienza della grande fabbrica, fui per 5 anni alla SAMAS prima che lo stabilimento chiudesse per trasferire le lavorazioni in Polonia, fui anche spallone, ma la lista sarebbe più lunga. Nonostante queste vicissitudini ebbi comunque modo di essere presente ad alcuni momenti topici del ’68 lungo valtellinese: la contestazione del film Berretti verdi, il presidio-manifestazione in occasione del comizio di Almirante a Sondrio, la contestazione a Maganetti durante la celebrazione di un 25 aprile a Tirano e tante altre iniziative. Nella seconda metà degli anni ’70 fui vicino ad Autonomia Operaia, ma poco dopo iniziò il riflusso e il piacere del trovarsi insieme divenne un ricordo del passato.

Infine entrai nel Pubblico impiego per l’ultima tranche della mia vita lavorativa e alla fine degli anni ’80 maturai il periodo contributivo per la pensione. Intanto, oltre alla lettura, mi ero iniziato a nuovi interessi: la pittura e, poi, dopo l’alluvione del 1987 che aveva lasciato nell’alveo dei nostri torrenti grandi quantità di tronchi e radici, la scultura del legno, attività che mi diede grandi soddisfazioni perché mi consentiva di tenere insieme creatività, manualità, socialità in occasione delle mostre e anche politica, nel senso che le forme e i contorcimenti del legno diventavano nelle mie opere altrettante metafore della società e delle sue contraddizioni.

Per problemi sopraggiunti in questi ultimi anni, ho dovuto lasciar perdere questa attività che richiedeva anche un certo impiego di energie fisiche ed ora, abbandonati anche i libri, ho trovato rifugio nella musica, recuperando un interesse che avevo già da giovane: allora strimpellavo rock su una Gibson, adesso mi accontento di ascoltare jazz ed è un bel modo di passare il tempo.