Guardo da casa la Grigna, il Lago, la strada Regina.
 
Il Grignone non è mai stato così vicino, nel cielo terso. Le montagne e i paesi si riflettono nell’acqua a disegnare un grande quadro impressionista. Il Lago, senza barche, motoscafi e battelli è diventato patrimonio comune di anatre, cigni e gabbiani.
 
Soprattutto gabbiani.
 
I tuffi delle anatre, l’incedere regale dei cigni, il volo radente dei gabbiani respirano libertà.
 
La strada Regina non è più l’inferno di un traffico nervoso che ci obbligava a ingorghi e code quotidiane fino a ieri.
 
Vuota, come quando ero bambino e nell’intervallo a scuola tra il mattino e il pomeriggio giocavamo a pallone sulla strada con un accenno di porte che toglievamo infastiditi al passaggio delle rare macchine.
 
Ogni quarto d’ora. 
 
Tutto questo ha il suo rovescio.
 
Il silenzio viene rotto dall’urlo lancinante delle sirene, che sembra diffondere solo due parole: corona virus.
 
Le campane delle chiese rintoccano le ore, mai così piene all’ascolto; ma scandiscono anche le morti, mai così lontane.
 
Nell’impossibilità di trovarsi vicini.
 
E la vecchia Regina era vuota di automobili, ma sciamava di popolo che si incontrava aggrumandosi in una socialità naturale.
 
Oggi invece recandomi al lavoro attraverso i paesi vuoti, in cui i rari passanti camminano solitari e circospetti, agghindati con improbabili maschere che spesso pensano protettive.
 
Per loro, non per gli altri.
 
La paura del contagio non può diventare il contagio della paura.
 
Sarebbe un ritorno a ieri, quando rancori e paure rinchiudevano l’io in una fortezza vuota.
 
Come dice Nicola, un ragazzo di sedici anni, parlando dei suoi coetanei: «Gli adolescenti lo sanno: cambiare prima e accorgersene dopo è un conto, ma cambiare accorgendosene è un altro».
 
Viviamo l’intensità di un silenzio pieno che ci ricorda “Inverno” di Fabrizio De André: «Sale la nebbia tra i prati bianchi, come un cipresso nei camposanti. Un campanile che non sembra vero segna il confine tra la terra e il cielo».
 
Il Covid-19 può colpire tutti, ma non colpisce tutti nello stesso modo.
 
Non fa lo stesso abitare appartamenti minuscoli, fatiscenti e sovraffollati o ville con parchi e giardini. Non fa lo stesso vivere redditi asciugati fino alla fame o continuare a navigare in un insopportabile superfluo. Non fa lo stesso non avere nessuno e nulla per imparare o poter apprendere a distanza.
 
Le diseguaglianze, già intollerabili, sono implose.
 
Dilagano i drammi dirompenti indotti dal virus.
 
Che allo stesso tempo si sta rivelando, come dice un mio vecchio amico filosofo della vita, anche ecologico e  un po’ comunista.
 
Scrive Gianni Tamino: «Il Covid -19 è una reazione allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta e quindi, per prevenire nuovi eventi simili, dobbiamo ridurre le alterazioni dell’ambiente, favorendo processi produttivi basati sull’economia circolare, sostenibili, con ricorso a fonti energetiche rinnovabili.»
 
Sull’altro versante, non è mai stato così attuale parlare di reddito universale: il problema è farlo, non basta più continuare ad aspettarlo come Godot.
 
Ci sono esperienze estreme che possono diventare risvegli.
 
In campo, come sempre ma in maniera diversa da sempre, ci sono, l’io, il tu, il noi, il contesto. L’io con le sue paure, il tu da tenere a distanza, il noi che sembra sullo sfondo, il contesto che oscilla tra il silenzio e il bisogno di comunicare. 
 
Ma l’io e il tu sono la stessa cosa, perché il virus lo può avere l’io e non solo il tu, così come chi cura e non solo chi è curato. E la dedizione di chi cura e la speranza di chi è curato diventano un noi più saldo e vicino, in grado di superare le distanze.
 
Così come il contesto che oscilla tra inquietudine e solidarietà diffusa.
 
A partire dalla condivisione delle fragilità, che può diventare forza.
 
Alla fine di questa storia o ci aspetta un altro disastro epocale dell’uomo succube e complice della voracità del capitale o, già dentro questa storia, riusciamo a costruire tracce concrete di una comunità di destino, come direbbe Eugenio Borgna, o del Comune, come sostiene Toni Negri.  
 
Scrive Miguel Benasayag: «L’esistenza è ciò che è sempre minacciato. Noi non possiamo domandare la fine della minaccia per esistere. Dunque, in questo senso noi dobbiamo reintegrarci a questa fragilità complessa, ed essere in amicizia con questo ecosistema che oggi stiamo massacrando. Un’amicizia interspecie, con la vita. Per vedere che non l’uomo fa la storia, ma che cosa può fare l’uomo dentro la storia, una volta che ritorni dall’esilio cui si è sottomesso».
 
E, per favore, alla fine non più crimini banali come i SUV che scaricano bambini firmati sui marciapiedi delle scuole.
 
CECCO BELLOSI