TEMPI DI PESSIMISMO DELLA RAGIONE E OTTIMISMO DELLA VOLONTA’

Ennio Galanga, docente e scrittore,   si interroga sul composito lascito del ’68 e si chiede se era sbagliato il presupposto ontologico di allora.

Più volte, indipendentemente dalle ricorrenze, mi è capitato di riflettere sul composito lascito storico del Sessantotto e sulle mie scelte. Cosa resta oggi? Certamente una società più liberale, più libertaria e più laica; importanti diritti, almeno sulla carta (della legge) e/o per una parte dei lavoratori; la partecipazione di studenti e genitori ad alcuni aspetti dell’organizzazione scolastica; un più forte ruolo sociale delle donne, autonomamente capaci di proporsi come portatrici di valori e di progetti (lungo un percorso, non proprio compiuto, che le ha viste superare l’emarginazione casalinga di “angeli del focolare” e, nel nostro piccolo, la temporanea subordinazione di “angeli del ciclostile”).

Di sicuro non abbiamo visto realizzarsi la giustizia sociale e gli ideali egualitari. O, meglio, dopo risultati non secondari degli anni Settanta, le vicende hanno preso un’altra piega. Sono emersi ceti piuttosto spregiudicati nelle professioni e nel lavoro autonomo, questi ultimi favoriti anche dall’aumento della paga oraria ottenuto dalle lotte operaie. Molti diplomati e laureati, forse col vento in poppa a motivo della maggior facilità nell’accesso al titolo di studio, hanno cercato e trovato scorciatoie lungo la via del successo economico. Intanto, mentre la manodopera industriale veniva ridotta dalle innovazioni tecnologiche, la borghesia imprenditoriale italiana, nostalgicamente abituata a lucrare sui bassi salari, cominciava a “delocalizzare” la produzione. Il tutto nell’entusiasmo del più antico partito della sinistra, impegnato a “bersi Milano” e a vuotare, con altri soci delle istituzioni (il Craxi-Andreotti-Forlani), ogni possibile bicchiere, compreso il più capace e il più tragico per il futuro, quello delle risorse dello Stato: in un quindicennio, il debito statale è incredibilmente passato dal 54,6% (sul PIL) del 1980 al 117,3% del 1994. Politica scellerata che stiamo ancora pagando, e tutto per tenere i comunisti (italiani!) all’opposizione… quando ormai le prospettive della socializzazione dei mezzi di produzione erano morte e sepolte!

Negli stessi anni, in effetti, si concludeva ingloriosamente, benché (quasi) pacificamente, la parabola della Rivoluzione d’ottobre. La caduta dell’osceno Muro di Berlino e lo scioglimento dell’URSS erano – si può dire – certificazioni postume. Anche la “nostra” Cina stava abbandonando l’idea secondo cui “lo Sato produce tutto” a favore di un sistema economico misto pubblico/privato (e oggi si è arrivati al paradosso che il funzionario comunista fa carriera in quanto favorisce lo sviluppo della iniziativa privata!).

Di più: un’altra rivoluzione, nel frattempo, induceva e ben presto cancellava altre rosee illusioni.

Nel mondo occidentale, l’adesione convinta alla Rivoluzione Informatica poggiava (anche) sulla previsione che, grazie all’aumento straordinario della produttività, si sarebbe, in un futuro vicinissimo, lavorato di meno e guadagnato di più. Invece è successo il contrario!

«Ma allora» – mi son detto quando ero all’incirca «nel mezzo del cammin di nostra vita» – «era la premessa ontologico-antropologica ad essere sbagliata?» Mi spiego. Socrate sosteneva che nessuno compie il male volontariamente e cioè che chiunque conosca il bene non può non fare il bene, poiché perseguendo il bene persegue la sua felicità. Ciò in quanto ogni essere umano è buono per natura (seguace del Bene e a lui indirizzato). Marx e Engels, come è noto, insistevano sul socialismo «scientifico» per sottolineare che le loro proposte non venivano da un generico, seppur nobile, umanitarismo. Eppure a fondamento delle loro tesi c’era un presupposto etico: il proletariato – scrivevano – è la vera classe universale perché solo attraverso la classe in cui l’essenza umana è andata perduta quell’essenza può essere riconquistata. E cioè: l’essenza “umanità” consiste nei valori della socialità e della solidarietà (che, oltre tutto, sono i soli che garantiscono lo sviluppo ideale della personalità di ogni essere umano. Il che equivale alla nostra formulazione «Sii te stesso», che completa il socratico «Conosci te stesso»).

Fino ai 30-35 anni non ho avuto dubbi su una tale visione dell’umanità. Nel 1980, quando ho collaborato come operatore di patronato ai soccorsi pro-terremotati dell’Irpinia, ho visto operai di una grande fabbrica del Nord, coordinati dal consiglio di fabbrica, allestire in pochissimo tempo un campo di accoglienza e dotarlo di tutti i servizi necessari. E moltissimi avevano chiesto le ferie per essere lì a lavorare. Per cui mi son detto: «Ecco la “prova dal vero” dell’Italia del futuro: capace, attiva, solidale. Ecco la prova che dalla valorizzazione della classe operaia provengono risorse umane insospettate. Ecco perché il cambiamento è davvero possibile!»

Ripeto perciò la domanda che mi sono posto varie volte: era sbagliato il presupposto ontologico?

Oggi devo rispondere: «sì, era sbagliato». Ho detto prima del mutamento di prospettiva in Italia e dell’esito sorprendente dell’esperienza cinese. Ma è (tutta?) la storia dei socialismi reali a fornire la verifica. I Paesi che hanno praticato l’esperienza collettivistica sono numerosissimi, e molti hanno cercato una via nazionale, originale. Né hanno tralasciato gli sforzi, repressioni comprese, anche terribili. Eppure tutti hanno fallito. Il caso dell’URSS è certamente emblematico: le generazioni dell’Ottobre, della guerra civile e della Seconda Guerra Mondiale sono state eroiche, hanno sconfitto nemici molto più potenti perché alla forza delle armi hanno opposto la forza delle idee (grazie a cui hanno trovato le armi). Ma le generazioni successive che, nascendo nel Paese socialista, dovevano “naturalmente” accogliere ed esaltare i valori comunitari, hanno via via perso interesse al bene comune e alla collaborazione solidale. Prima che un fallimento economico-politico, è stato un fallimento antropologico: la maggior parte delle persone lavora e fatica per il proprio guadagno, altrimenti fa il meno possibile.

[Capisco che qualcuno potrebbe dire: «Non l’aveva già spiegato Adam Smith?» In parte sì, ma Adam Smith richiamava anche due aspetti che poi sono venuti meno: la concorrenza (messa all’angolo da oligopòli e monopòli) e l’investimento “vicino” e dunque controllabile (il contrario della globalizzazione).]

Dicevo, a proposito della risposta a me stesso, «oggi». Perché il futuro non lo conosce nessuno.

Anche gli ideali della Rivoluzione francese hanno impiegato molti decenni a convincere gli Occidentali. E tanti, nel mondo, li ignorano ancora.

E allora? Mah. Come parecchi altri nella Storia, son tempi, questi, da pessimismo della ragione e ottimismo della volontà.