Da sempre le migrazioni interrogano le comunità locali su ciò che veramente le tiene insieme. La forza della comunità si misura nella sua capacità di fare inclusione, la sua debolezza si rintraccia nei vari gradi di esclusione e di distanziamento sociale che pone in atto. E’ una debolezza che può diventare distruttiva, che può essere usata come una clava, ma è pur sempre un’espressione di fragilità, di spaesamento e di anomia che come tale va in primo luogo assunta e accompagnata. In tempi di “distanziamento sociale” quale dispositivo di prevenzione e limitazione del contagio da virus biologico può allora essere utile riflettere, e forse imparare, da chi fa del distanziamento sociale in senso proprio una costante che partecipa, più o meno pesantemente, a determinare le relazioni sociali della vita quotidiana, là dove assume centralità la gestione di virus sociali generati dall’essere “stranieri”. I virus sociali agiscono all’interno di relazioni buone o cattive, forti o deboli, etc., tra soggetti diversi, con un principio di trasmissione per certi versi opposto a quello di in virus biologico poiché prosperano e si moltiplicano nell’assenza o nella penuria di relazioni, in un vuoto che fa poi da bussola impazzita nel “labirinto delle paure”, per riprendere il titolo del libro di Aldo Bonomi e Pierfrancesco Majorino di qualche tempo fa.

Ed è un po’ ciò che pare di comprendere raccogliendo storie di vita degli stranieri residenti in valle nel loro raccontare lo spettro di relazioni sociali che hanno costruito nel corso di un tempo di permanenza relativamente esteso. Stiamo parlando, in particolare, degli stranieri residenti in Valchiavenna, dove negli ultimi mesi abbiamo portato avanti un piccolo percorso di ricerca basato appunto sull’ascolto in profondità di un campione di 30 soggetti rappresentativi dei circa mille stranieri residenti nei diversi comuni della valle. L’iniziativa, nata in seno a all’associazione Restiamo Umani, è stata poi portata avanti un piccolo gruppo di lavoro volontario formato dal sottoscritto, da Anna Cerfoglia, Natalia Rogantini e Monica Trussoni. Come gruppo ci siamo posti l’obiettivo di provare ad evidenziare i cambiamenti socieconomici e lo stato di salute delle relazioni comunitari dal peculiare punto di vista dei residenti stranieri di medio e lungo periodo. Nulla a che fare, se non marginalmente, con la questione dell’accoglienza profughi e il noto quanto discutibile armamentario istituzionale di regolazione. Ci sembrava importante raccogliere le storie di vita di questa parte peculiare della composizione sociale locale per rendere pienamente visibile un fenomeno epocale e cercare di dare voce a soggetti per lo più socializzati a non raccontarsi, a non prendere parola, a non darsi un’identità sociale (tanto meno una soggettività politica), a comportarsi da “paria” o, alternativamente, da “parvenu” sociali per riprendere categorie di Hannah Arendt, all’interno di un sofisticato agire mimetico che sembra permanere anche dopo 10 o 20 anni di vita in Italia e in valle. Ci sembrava altresì di un qualche interesse ricercare i meccanismi personali e i dispositivi sociali di inclusione/esclusione comunitaria, lavorativa, scolastica, etc., in rapporto alla cultura di provenienza, al genere, all’età, etc, e alle trasformazioni del quadro delle aspettative a partire dal progetto migratorio personale/famigliare, passando dalle forme di adattamento, di negoziazione identitaria e di elaborazione all’interno dei microcontesti di riferimento costruiti dagli stranieri residenti.

Tutto ciò con l’obiettivo più ampio di raccogliere elementi utili a ricostruire il cambiamento delle culture comunitarie, del lavoro, delle forme di partecipazione, etc. dell’intera società locale alle prese con un difficile processo di modernizzazione vissuto, come spesso nella sua storia, in posizione di minorità. Naturalmente tra gli scopi del lavoro c’era, e c’è, la volontà di favorire lo scambio intorno alle buone pratiche di inclusione sociale e culturale e con ciò contribuire a coniugare senso di appartenenza, multiculturalità, dialogo e contaminazione. Aspetti, quest’ultimi, che attendono di essere sperimentati quando la pandemia lo permetterà, posto naturalmente che il materiale raccolto trovi un qualche interesse pubblico. Cosa che riteniamo tutt’altro che scontata dal momento che ci costringe al coraggio di uscire dagli stereotipi di un dibattito politico sul rapporto italiani/stranieri quasi sempre informato da manicheismi, da pregiudizi culturali negativi o positivi, da posizioni che ruotano intorno alle retoriche (maggioritarie) del “prima gli italiani” o (minoritarie) del “nessuno è straniero”. Certo anche per noi in linea di principio nessuno è straniero, ma è evidente che la realtà delle cose e i cosiddetti processi reali fanno emergere tante zone grigie che rivelano la complessità delle relazioni in divenire sotto la coriacea retorica monocolore populista, dalla quale spesso rimaniamo tutti incantati. Ed è qui che torna il tema del distanziamento sociale sotto altre spoglie. Prendiamo, tra gli altri, uno degli argomenti ampiamente condivisi dai nostri intervistati rispetto a ciò che apprezzano del luogo in cui vivono e lavorano, ovvero il fatto di vivere in un luogo tranquillo, stabile, prevedibile, pacifico, abitato da gente prudente, avversa al rischio, con solide istituzioni (scuola e sanità in primis), con un mercato del lavoro persino generoso. Insomma un insieme di argomenti ampiamente condivisibili dalla stragrande maggioranza degli autoctoni, che fanno sorgere la domanda agli intervistati sul perché “noi stranieri” siamo considerati un elemento di disturbo, di instabilità e di minaccia visto che vogliamo le stesse cose dei valligiani e che non vorremmo mai tornare nei luoghi turbolenti e instabili dai quali proveniamo in Africa, in Sudamerica, in Asia o in certe zone dell’Est Europa. A fronte di questo interrogativo gli stranieri hanno imparato a non farsi troppe domande considerate oziose, percependone la connotazione politica, ma concentrarsi piuttosto sul come evitare di attirare l’attenzione sociale, come evitare di prendere parola nello spazio pubblico, meno che mai manifestare tracce di cittadinanza attiva. Queste corrispondenze, questa complementarietà gerarchica di posizioni nella relazione valligiano italiano-straniero, vivono di un rimosso politico che meriterebbe più attenzione da parte di tutti noi. E un nodo a nostro modo di vedere rilevante, perché rischia di trasformarsi in nodo scorsoio all’occorrenza degli imprenditori politici della paura e dunque innesco per rinforzare il distanziamento sociale preventivo. Tale occorrenza, che si regge su un meccanismo di ricerca del capro espiatorio piuttosto ben collaudato, può essere facilmente rinvenuta nelle più che probabili conseguenze sociali del blocco economico causato da Covid. E qui andiamo sul terreno dell’integrazione economica e lavorativa degli immigrati, che anche in valle occupano per lo più segmenti del mercato del lavoro dequalificati (non sempre) ad alta flessibilità (sempre), quelli delle 3D (dirty, dangerous, difficult) che da noi significano turismo, agricoltura, edilizia, parti pesanti o sporche della manifattura. A questi si affiancano i servizi di cura, a monopolio femminile, che per inciso hanno trovato ampio spazio nella nostra indagine proprio perché possono dire molto su come sono cambiate le famiglie, le relazioni di prossimità e di comunità. Al di là delle tante considerazioni che si potrebbero fare sullo sbriciolamento del mercato del lavoro e della relativa rappresentanza, preme qui evidenziare che adottando il punto di vista degli immigrati si ha l’immagine di un mercato del lavoro balcanizzato che si regge su relazioni informali a tutto campo, per altro non così disprezzate dagli intervistati, nelle quali il “prima gli italiani” è un fatto non un slogan, laddove l’offerta di lavoro vede concorrere italiani e stranieri. E’ questo un paesaggio che non promette bene nelle more di una Fase II e III destinata a produrre disoccupazione e aumento della precarietà anche in valle (turismo su tutti) e dunque ad accendere scontri tra ultimi e penultimi in una scala gerarchica a sfondo etnico-nazionale che in generale poco ha a che fare con competenze e attitudini, tanto meno con i diritti. Lo sanno bene gli operai provenienti dall’Africa nera occupati nella filiera agroalimentare, così come i magrebini occupati nell’edilizia, i rumeni in agricoltura, e tutti insieme i lavoratori della filiera turistica, delle pulizie, della logistica, che con disperata razionalità dicono “basta stranieri”. Ma il fenomeno di precarizzazione e di depressione salariale riguarderà anche il vasto mondo dell’assistenza domiciliare, ancorché in questo specifico segmento la concorrenza delle italiane dovrebbe farsi sentire meno, tale è il gap a favore delle iperadattive badanti ucraine o peruviane, le cui quotazioni dipendono dalla capacità di ri-produrre empatia e intimità famigliare.

Il lavoro, caso appunto tipico le badanti, definisce molta dell’identità sociale degli intervistati. Abbiamo incontrato invisibili (al lavoro e fuori, come i neri), mimetici (al lavoro ma forse meno fuori), adattivi, acquisitivi, segregati, etc., quasi sempre privi di micro comunità nazionali di riferimento (diverso forse il discorso in Valtellina) quale dispositivo di salvataggio in caso di necessità o di promozione nel mercato del lavoro. Sono persone che non hanno mai dimenticato la via della mobilità (al di là del fattore nostalgia) quale soluzione estrema in caso di necessità e di peggioramento delle condizioni di vita sul territorio, perciò il loro radicamento e il loro senso di appartenenza è precario anche dopo 15-20 anni di permanenza in loco, così, come già evidenziato, scarsa è la loro cultura dei diritti sociali e politici. Sicuramente il discorso è parzialmente diverso per le seconde generazioni, anche per l’indubbio contributo delle bistrattate istituzioni scolastiche, tuttavia il fatto che gran parte degli stranieri pare avere maturato poco anche dopo una lunga permanenza, che in qualche caso li ha formalmente promossi a cittadini, fa sorgere qualche interrogativo sul valore sostanziale della cittadinanza nella nostra epoca e sull’esito della comunanza senza comunità tra italiani e stranieri in valle. Tocca a “noi” questa fatica di Sisifo?

 

Albino Gusmeroli, ricercatore sociale AASTER