E L’ITALIA SARÀ UN BEL GIARDINO FIORITO

 

Non ricordo quali circostanze mi portarono ad incrociare l’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), per gli estimatori “Servire il popolo” dal nome del loro giornale, ma per i denigratori, che erano tanti, “Servire il pollo”. L’incontro avvenne nell’estate o nell’autunno del ’69, anno in cui mi diplomai alle Magistrale di Sondrio, istituto che avevo frequentato per quattro anni, pendolare su e giù da Tirano, dove vivevo con la famiglia. Il papà lavorava come rilegatore a Coira, la mamma, una tedescona del Baden-Wuerttemberg era casalinga. Si erano conosciuti in Germania, lui prigioniero di guerra distaccato durante il giorno alle Poste di Stoccarda, poi la notte nel lager, e lei residente in un paese vicino. Si erano innamorati e poi sposati con successivo rientro in Italia, quando la guerra era ormai finita da due anni. Crebbi in un ambiente tollerante e aperto con un orientamento vagamente socialista, forse per empatia con un zio che era tesserato PSI. Dei miei genitori, uno non era credente, l’altra era protestante e resistette alle pressioni che la volevano cattolica, mantenendosi fedele alla chiesa riformata, baluardo nella terra del controriformistico Sacro Macello dell’eresia luterana.

Tornando all’Unione, si trattò per me di un’esperienza breve, così come effimera fu del resto in Valtellina l’attività di questa organizzazione, che “illuminò” i cieli della politica provinciale a partire dall’estate di quell’anno, per poi estinguersi già all’inizio del 1970. Mi ricordo la sede situata nel centro storico di Sondrio, in via Lavizzari, in un paio di locali polverosi e decrepiti, messi agli ultimi piani di un caratteristico edificio secentesco oggi restaurato e riportato agli antichi splendori di dimora patrizia. L’ambiente aveva un suo fascino carbonaro e il Sancta sanctorum era il “Giallone”, un enorme drappo rosso che riempiva un’intera parete. Al centro campeggiava l’effigie del Grande Timoniere, dalla quale si dipartivano tanti raggi gialli a simboleggiare la saggezza che promanava dal Maotsetungpensiero.

Dell’Unione ricordo soprattutto la manifestazione che organizzammo in occasione dello sciopero generale per la casa proclamato dalle organizzazioni sindacali per il 19 novembre. Già in mattinata ero arrivata a Sondrio, era una bella giornata novembrina. La città viveva lo sciopero generale in uno stato di evidente tensione, quasi in attesa di un qualche evento traumatico. Giravano le voci più strampalate, tra le quali quella dell’imminente arrivo in città di camion di braccianti ferraresi con il compito di bloccare completamente le attività produttive. Si trattava di una evidente bufala, che ci era stata riportata dalla nostra (dell’Unione) padrona di casa, ma la diceva lunga sul clima di paura che si era creato. Non c’era stato bisogno dei “ferraresi” per svuotare fabbriche e uffici e per chiudere le serrande di negozi e bar! Mai, dopo di allora, uno sciopero generale sarebbe stato in grado di fermare la città in maniera così totale come invece avvenne quel 19 novembre.

Bene, nel primo pomeriggio, in pieno sole, ci ritrovammo in zona Stazione: eravamo un gruppo sparuto e ci bardammo per il corteo con fazzoletti rossi e bandiere, intanto da una Cinquecento provvista di trombe il dirigente locale dell’Unione, Giorgio De Giorgi detto Giona, declamava, con qualche inciampo nella lettura, la sintesi del programma del governo rivoluzionario e prometteva agli astanti questo idilliaco paesaggio sociale: ” Le città di estenderanno armoniosamente integrandosi alle campagne; i monti e le rive del mare saranno abitate dai vecchi riuniti in centri sociali, dai bambini e dai lavoratori per i riposi ricreativi. Il vino e i buoni cibi del nostro paese saranno prodotti per tutti, ogni regione darà alle altre le sue cose migliori. Le più belle usanze del popolo risorgeranno nella vita collettiva. E l’Italia sarà un giardino fiorito”. Intanto, intorno a noi, si stava radunando un folto gruppo di curiosi, che, quando finalmente il corteo si mosse in direzione di piazza Campello, seguì sui marciapiedi il lento nostro incedere su per i giardinetti di piazzale Bertacchi e la via XXV Aprile passando davanti alla Questura. Quando muovemmo i primi passi, il sole stava già tramontando e la manifestazione si svolse in una specie di crepuscolo che contribuì ad accentuarne gli aspetti tragicomici. Alla fine del corteo furono contabilizzati 27 eroici partecipanti, ma l’ampiezza della partecipazione di popolo ai lati del corteo dava l’idea di un clima sociale che anche in provincia di Sondrio si stava scaldando. Certo, non si trattava di simpatizzanti dell’Unione, ma non era solo curiosità da provincialotti quella che aveva determinato quel concorso di popolo: dietro ad una quota consistente delle persone là convenute pulsava una nuova sensibilità per le questioni sociali, che sarebbe emersa nelle lotte degli anni successivi. Qui andò così, ma altrove la tensione che avevamo avvertito anche a Sondrio esplose in scontri e disordini, soprattutto a Milano, dove morì in circostanze non chiarite dalle successive indagini l’agente Annarumma.

Per due anni fui poi a Milano dove mi dedicai soprattutto allo studio. Abitavo con compagni e compagne e l’interesse per la politica ce l’avevo per così dire in casa. Frequentando l’università partecipai a qualche iniziativa, ma non fui mai militante o attivista. La mia fu la storia, credo, della maggioranza dei giovani sessantottini che ho conosciuto: partecipi sì, ma solo fino ad un certo punto. Forse quella breve esperienza nell’Unione mi aveva insegnato a diffidare di un stile di militanza troppo totalizzante. Più tardi altri accadimenti mi allontanarono ancora di più: tra studio,lavoro e famiglia non avrei certo trovato il tempo per fare altro.