Un Sessantotto lungo 10 anni e più

 

1968 : l’anno delle scoperte e dei primi contatti.
Che anno “formidabile” fu per me quell’anno, a ripensarci. Prima ci fu la vicenda del terremoto in Sicilia. Era gennaio e, alla notizia del disastro, praticamente senza avvisare nessuno, con lo zaino in spalla partii in treno da Bergamo – dove studiavo, come altri valtellinesi – alla volta del Belice, aggregato a un gruppo misto di altri volontari.

Ci ritrovammo impegnati nell’allestimento di una tendopoli a Partanna, nelle vicinanze di Salaparuta, uno dei paesi più disastrati. I materiali e i mezzi ci venivano forniti dall’esercito e dai vigili del fuoco. Ho ancora il ricordo di un viaggio su un camion scoperto, di notte, sull’altopiano delle Madonìe, per andare a prendere un grosso carico di tende militari. Un freddo becco. Restammo una settimana, forse dieci giorni. Alla sera crollavamo di stanchezza. Ma che esperienza! Per me, fu una prima importante esperienza di “intervento nel sociale”. Che, ovviamente, mi tenne lontano dall’impegno scolastico per almeno una decina di giorni. E meno male che, al mio ritorno, la dirigenza della scuola si mostrò comprensiva e mi evitò sanzioni per quella “scappata”.

Poi ci fu “il maggio francese” e io mi ritrovai a partecipare – per la prima volta – alle iniziative di un movimento studentesco cittadino. Piuttosto sgangherato, aggiungerei. Qualche assemblea, qualche corteo, anche qualche breve scontro con la polizia (però qualcuno di noi una manganellata se l’è anche presa), in una grande mescolanza di temi che andava dall’anti-autoritarismo all’ anti-imperialismo, dalla ‘liberazione sessuale’ alla ‘emancipazione dei popoli del terzo-mondo’. Frequentavo in quei giorni un eterogeneo gruppetto di sinistra che – immagino – perseguiva intenti di discussione e di azione su temi ‘impegnati’. Nei fatti non si andò molto più in là dell’allestimento di una stanzetta in affitto da utilizzare come ‘sede’ e della partecipazione a varie occasioni locali di manifestazione.
Ricordo anche che, per un certo periodo, mi ritrovai ad affiancare un compagno – il leader del nostro gruppetto – partecipando a certi suoi incontri serali ‘di cellula’ in giro per la provincia, in un clima – a me pareva – di semi-clandestinità. Lui era certamente il più “preparato” di noi (e poi era uno ‘iscritto a Scienze Politiche, a Milano’ !).
A quegli incontri, che avvenivano con aderenti ad un movimento che si chiamava Falce-e-martello, portavamo pacchi di un giornale con lo stesso titolo. Io probabilmente capivo poco o niente di ciò che veniva dibattuto in quelle serate – perché di “basi” proprio non ne avevo – ma avevo l’impressione di avvicinarmi a cose importanti. Ed erano tante le cose che scoprivo in quel periodo e che mi interessava capire; cose di cui leggere, discutere; cose su cui valeva ‘impegnarsi’, per contribuire al raddrizzamento delle ingiustizie sociali. I temi di maggiore interesse e stimolo, per me, in quel periodo, erano:- Cuba e la sua rivoluzione, da difendere ed estendere (e poi c’era il Che, ucciso in Bolivia pochi mesi prima);- la guerra nel Vietnam, con Ho Chi Minh; una volta – ricordo – contribuii persino alla traduzione dal francese, per un nostro volantino, di un articolo che raccontava dell’ “offensiva del Tet”, come fu chiamato il grande attacco sferrato dai Viet Cong nel gennaio del ‘68;- la Repubblica Popolare Cinese, con la sua passata storia di soggezione all’imperialismo occidentale e con la Lunga Marcia;- i movimenti per i diritti civili dei neri, negli USA; con Martin Luther King, certamente, ma anche con le Black Panthers.

Poi c’era l’Africa, con i suoi movimenti di liberazione dal colonialismo portoghese (in Angola, Mozambico, …);  e c’era il Sud Africa, con l’Apartheid!

E fu così che a metà estate, messo il diploma in valigia, partii da Sondrio per la mia avventura africana (proprio in Sud-Africa), indimenticabile concentrato di esperienze.

Fu quello per me un periodo importante non solo dal punto di vista formativo (esperienze di viaggio, di lavoro, di vita autonoma) ma anche sotto il profilo di una maggiore consapevolezza sociale e politica. L’aver visto e vissuto da vicino certe manifestazioni della cultura bianca razzista (l’Apartheid, certo, ma anche alcuni aspetti del vetero-colonialismo portoghese in Mozambico) contribuì non poco al consolidarsi di una mia visione “di sinistra” dei rapporti umani.

Un breve inciso: in quel periodo, ebbi anche modo di stupirmi della solerzia con cui taluni miei connazionali, dopo soli pochi giorni dal loro arrivo in Sud Africa, sposavano le tesi della “superiorità bianca” e di come, senza alcun imbarazzo, con slancio tiravano fuori buone dosi di puro razzismo.

‘69-‘72 : Trento-Sondrio-Milano, il movimento studentesco, il matrimonio, il servizio militare. Il mio soggiorno in Africa non durò più di una decina di mesi. Al mio ritorno, iniziai un’altra fase di vita piuttosto intensa. Indimenticabile per me, in quegli anni, fu l’esperienza di studio universitario, prima alla Facoltà di Sociologia di Trento (dove però andavo solo per dare gli esami, passando per l’Aprica e il Tonale, con la moto generosamente prestata da un caro amico) e poi alla Facoltà di Scienze Politiche, alla Statale di Milano. Se ben ricordo, sono di quel periodo anche gli incontri a cui partecipavo presso il Centro Rosselli di Sondrio. Si parlava di politica, si organizzavano iniziative. In particolare, ho memoria di una manifestazione a sostegno di una lotta del Sanatorio di Sondalo, con interventi oratori in Piazza Garibaldi e un partecipato corteo per le vie cittadine, con tanto di canti di lotta (“l’Internazionale, di Lenin !”) e slogan “rivoluzionari” (“Guevara! Che–Che–Che!”).

Nota di colore: capitò che in piazza tenni anche io un brevissimo intervento e – credo – fu proprio in quella occasione che un qualche questurino si appuntò il mio nome; cosa che ebbe per me alcuni pittoreschi effetti a seguire, durante il mio periodo di servizio militare (ne accennerò più avanti). Nel frattempo, a Milano, c’erano le “lotte studentesche”, le assemblee alla Statale, le manifestazioni (con in tasca il famoso limone anti-lacrimogeni). Per me, quello fu anche il periodo dell’avvicinamento ad Avanguardia Operaia, almeno in termini di riferimento politico, nelle mie letture e nelle manifestazioni.

Frequentavo poco le lezioni in facoltà, però studiavo abbastanza e davo qualche esame, con discreto profitto. Lavoravo anche un po’. Erano per lo più soltanto lavoretti, che non mi piacevano ma coi quali riuscii a finanziarmi una spedizione a Londra dove – avevo deciso – avrei potuto consolidare quel poco di inglese che avevo imparato in Africa.

Era il luglio del ‘71. Di Londra – ma i ricordi sono vaghi – ho memoria di un incontro con giovani esponenti di un gruppo politico: “laburisti di sinistra”? Trotzkisty?; chissà come era avvenuto quel contatto. Li ricordo particolarmente interessati all’esperienza italiana dei Comitati Unitari di Base (i famosi CUB), di cui però io allora sapevo ancora assai poco. Mi invitarono una sera ad una loro riunione-conferenza, al piano superiore di un vecchio pub; una riunione per me abbastanza noiosa, ma il locale era assai suggestivo. Altrettanto vaghi sono i miei ricordi londinesi per quanto riguarda certe esplorazioni sul lato musicale che – ricordo – mi portarono più volte ad ascoltare musica dal vivo in uno strano locale dalle parti di Kensington. Locale fumosissimo (!). D’altra parte, quelli erano ancora gli anni della “Swinging London”. Ma Londra fu per me soprattutto la città dell’incontro con la mia futura moglie.

Svolta esistenziale.

A gennaio dell’anno successivo – sposato – ero già a Roma per iniziare il mio periodo di servizio militare (avendo ovviamente rinunciato a ogni ulteriore “rinvio per motivi di studio”).

Nota di colore: tra i ricordi di quel primo periodo in divisa ho quello del Servizio di guardia al Quirinale, che feci per due o tre volte ma dal quale mi trovai poi improvvisamente e inaspettatamente escluso. Nessuna spiegazione. Tuttavia mi si mormorò di “una segnalazione pervenuta al comando di battaglione” …; forse c’entrava qualcosa quell’appunto del questurino di Sondrio, preso in occasione della manifestazione dei “portantini” di Sondalo? Il mio servizio militare durò comunque meno del dovuto. “Grazie” ad una sopravvenuta ulcera duodenale, venni congedato alcuni mesi prima del previsto. Fu un congedo così improvviso da crearmi un problema non di poco conto: non avevo infatti avuto il tempo ne’ il modo di fare alcuna ricerca di lavoro e mi trovavo di punto in bianco senza uno straccio di stipendio. E per di più, ero sposato. Cercai e trovai delle cose da fare; ma erano solo lavoretti “di rappresentanza”, e io non sono mai stato un venditore; in sostanza: “non battevo chiodo”.

‘73 : un figlio, un primo lavoro vero, A.O. e il sindacato. Poi, nel ‘73, di seguito uno all’altro, ecco due eventi che furono proprio “di svolta”: la nascita di un figlio; l’assunzione in una azienda del Gruppo Montedison, a Milano, per un lavoro nel ramo informatico. Per me, finalmente, fu l’inizio di un lavoro “vero” e che trovavo molto interessante. Peccato che, dopo soli pochi mesi dal termine del mio periodo di prova, l’azienda fu messa in crisi dal piano di ristrutturazione (il “taglio dei rami secchi”) varato da Cefis, nuovo presidente dell’allora Gruppo Montedison.Assemblee di fabbrica, picchetti, cortei e blocchi stradali (morbidi; si cercava la comprensione della gente); ricordo anche – sarà stato dicembre – un lungo e infreddolito presidio in Foro Bonaparte, sotto una tenda, davanti alla sede della società capogruppo Montedison. Non ci fu niente da fare; la nostra azienda – che riuniva diversi settori di ricerca, considerati “improduttivi” – venne sostanzialmente smantellata; chiuso in particolare il settore informatico in cui lavoravo io. D’altra parte – sentivo dire allora dai nostri rappresentanti – anche il sindacato era in quegli anni del tutto sprovvisto di un piano nazionale per quanto riguardava il settore informatico. I dipendenti che non avevano trovato da sé una ricollocazione vennero comunque riassorbiti dalle altre aziende del gruppo. Io mi ritrovai a proseguire il mio apprendistato all’interno di una delle grandi sedi divisionali di Milano. Durante quel periodo – ricordo – ebbi modo di riallacciare il mio rapporto con Avanguardia Operaia. Partecipavo a certe riunioni di cellula all’Ortica (in un piccolo locale con saracinesca, sulla strada) e – episodicamente – anche alla vendita de “Il quotidiano dei lavoratori” (come un vero “strillone”, di mattina presto, nel mezzanino della Metropolitana, alla Stazione Garibaldi). Si trattava di una cellula di zona e una buona parte delle iniziative avevano a che fare con le agitazioni sindacali nelle piccole-medie fabbriche intorno a Lambrate, impegnate a fronteggiare l’ondata di ristrutturazioni e chiusure di quel periodo.

Nota di colore: ricordo che, secondo il lessico padronale di allora, il personale non veniva ‘licenziato’; ah no; veniva ‘messo in libertà’.

‘74 e successivi anni settanta : l’impegno nel sindacato. I miei anni in Montedison furono anche quelli di più intenso impegno sindacale. Erano gli anni del “Sindacato unitario”; io fui iscritto, prima alla federazione dei metalmeccanici (FLM/Fiom), poi a quella dei lavoratori chimici (Filcea/CGIL). Fui anche rappresentante sindacale (delegato eletto in assemblee di reparto) e membro del direttivo e dell’esecutivo del Consiglio di Sede. Così si chiamava allora l’organismo che raccoglieva i delegati sindacali di tutte le sedi Montedison. Se non ricordo male, a quell’epoca, l’insieme delle varie sedi del Gruppo, a Milano, assommava più di 10.000 impiegati; il Consiglio di Sede si componeva di circa 300 delegati; le sue riunioni plenarie si tenevano in Foro Bonaparte, nella grande sala destinata alle riunioni degli “azionisti”(!). Quanti scioperi, in quegli anni! E quante levatacce per i picchetti! Alcuni anche piuttosto duri, per fronteggiare i tentativi di sfondamento dei “crumiri”.

Un paio di altre note di colore: – ricordo un’occasione in cui mi ritrovai a fronteggiare, petto contro petto, proprio il mio dirigente di allora che, a testa bassa, si era improvvisamente lanciato in avanti per sfondare il cordone; – in un’altra occasione, mentre “difendevo”, isolato, il portone di un edificio laterale, mi capitò di sostenere un incontro “piuttosto ravvicinato” con una tale che – seppi dopo – era il numero uno della Sicurezza dell’intero Gruppo (un ex colonnello “dei Servizi”, mi dissero poi); un personaggio aitante e assai deciso; ricordo che i bottoni del mio loden, grazie alla sua strattonata improvvisa, schizzarono a raffica in ogni direzione; posso però aggiungere che, in compenso, i suoi Ray-Ban fecero una brutta fine (lui però, da signore, “l’ha fa gnanca un plissé”).

E quante manifestazioni! C’erano le lotte contro le ristrutturazioni aziendali, quelle per la difesa dello statuto dei lavoratori, i diritti sindacali, la “contingenza”; c’erano le vertenze (innumerevoli) per i rinnovi contrattuali; ci fu la vicenda Icmesa (diossina); c’erano i grandi temi sociali (il divorzio, la depenalizzazione dell’aborto, …); c’erano le risposte alla “strategia della tensione”, da una parte, e agli attacchi dei movimenti terroristici, dall’altra.

Erano gli “anni di piombo”, del “rapimento Moro”, dell’uccisione di Mino Pecorelli e di Walter Tobagi, delle stragi, … E quanti “dazebao”, e “striscioni”, e “volantinaggi”!

Per i volantini aziendali – che producevamo col ciclostile – si andava alla Camera del Lavoro. Alcuni episodi memorabili delle nostre lotte aziendali in quel periodo:- l’occupazione del centro di calcolo Datamont;- la lotta della Fargas (azienda metalmeccanica del gruppo), con lo sfondamento del grande portone principale e successiva ”invasione” della sede di Foro Bonaparte; e con la coda del mio processo in tribunale a seguito di una falsissima accusa montata della direzione nei miei confronti; venni prosciolto – tra l’entusiasmo degli operai della Fargas, massicciamente presenti al processo – però mi portai dietro per un bel pezzo, in azienda, il peso della vicenda.

‘80 : il mio “riflusso”. Per me quel periodo si concluse alla fine del ‘79 quando, dimessomi da Montedison, volli “mettermi in gioco” con altre esperienze di lavoro. Mi ritrovai allora a lavorare in realtà aziendali assai diverse (per numero di addetti, per tessuto culturale), del tutto estranee all’iniziativa sindacale e dove il mio “essere di sinistra” o “non contava una cippa” (es. società cooperativa “di sinistra”) oppure, se l’avessi espressamente palesato, mi sarei azzerato ogni margine di sopravvivenza aziendale (es. multinazionale americana, prima; azienda padronale italiana, poi). Fu questo il mio “riflusso”, verso il quale fui forse anche spinto da una certa mia stanchezza nei confronti del sindacato e dei suoi modi operativi. Nell’ultimo periodo avevo infatti maturato crescenti riserve su vari aspetti, tra cui la sostanziale e stucchevole invariabilità delle forme di lotta e certi comportamenti interni che giudicavo troppo “manovrieri”. Poi avvertivo che qualche cosa era cambiato anche nello spirito. D’altra parte, si andava verso la fine dell’unità sindacale.