Un’americanata alla John Wayne

 

Ci trasferimmo a Sondrio dal lago per motivi di lavoro di mio padre che faceva il geometra in Svizzera e andammo ad abitare in via Maffei in un appartamento delle case popolari al di sotto della ferrovia. Tutta l’area era allora un prato unico con qualche casa qua e là. La Piastra, con le sue “avveniristiche” torri, era ancora di là da venire. Nel ’68 avevo 17 anni e le mie prime esperienze politiche risalgono a quell’anno. Giravo con alcuni amici del quartiere che cominciavano ad interessarsi a quello che filtrava da fuori e che faticosamente cominciava a muoversi anche a Sondrio, una città conservatrice e retrograda in un mondo allora in pieno movimento. Incontrai la sinistra forse anche per reazione all’ambiente famigliare. I miei genitori non erano iscritti a partiti, mia mamma sicuramente votava DC e, non essendoci dialogo, non ho mai conosciuto le posizioni di mio padre. Avevano comunque un atteggiamento assolutamente negativo nei confronti dei movimenti e delle lotte sociali di quegli anni e divorzio e aborto erano argomenti ancora tabù. Il modello educativo era indubbiamente autoritario, di conseguenza il conflitto notevole!

Nei primi mesi del ’69 cominciammo a frequentare una sede del movimento studentesco dalle parti di piazzetta Quadrivio, dove c’era un gruppo di universitari di qualche anno più grandi di noi che veicolavano tra noi giovani quanto succedeva nei loro atenei. Tra di loro ricordo Luigi Bordoni, detto Balena, studente di sociologia a Trento, e Elia Viganò laureando in architettura a Milano. Una delle figure di spicco dei “veci” era Giona, artefice della bellissima pantera che aveva dipinto su una parete in onore all’esperienza americana del Black Panther Party. L’anno prima avevo visto in TV lo storico saluto a pugno chiuso degli atleti afroamericani durante la cerimonia della premiazione alle Olimpiadi di Città del Messico. Le lotte degli afroamericani e il movimento contro la guerra del Vietnam erano allora conosciuti anche da noi. Sul Vietnam l’opinione pubblica era spaccata tra filo americani e anti americani, secondo le linee di divisione geopolitiche che avevano segnato tutto il dopoguerra. Ma il clima non era più quello della Guerra fredda e in prima fila nell’opposizione all’intervento c’erano i nuovi movimenti della contestazione giovanile, che non avevano nessuna simpatia per il modello sovietico. Fu così che partecipai anch’io alla protesta davanti al cinema Pedretti per la proiezione del film Berretti verdi, un’americanata di pura propaganda che era uscito l’anno prima. Direttore, produttore e protagonista era John Wayne, nella parte del colonnello Mike Kirby, che prima cura l’addestramento di due reparti di Berretti Verdi e poi li porta in guerra in Vietnam. Era una saga piena di errori grossolani e di falsi: era stato girato in Georgia e così lo scenario della guerra, anziché essere la lussureggiante giungla tropicale, era la pineta georgiana e così via. Ma il pubblico di allora non andava tanto per il sottile e del film non avrebbe avuto la stessa impressione che ne ebbe John Carpenter: E’ il mio film preferito, solo Chaplin faceva film comici migliori. John Wayne era allora sulla cresta dell’onda per via dei western e la sera della prima davanti al cinema Pedretti erano in molti a voler entrare, ma nel marciapiedi antistante l’ingresso si fronteggiavano due gruppi di una certa consistenza: da una parte i compagni, dall’altra i fasci e, in mezzo, qualche agente di polizia. Secondo i ricordi di qualcuno ci sarebbe stata una loro aggressione nei nostri confronti, ma io lo escludo: ci fu una contrapposizione a suon di slogan, che ci urlavamo in faccia, ma non si venne alle mani. Ad un certo punto mi sembra che fu anche bruciata una bandiera americana, ma su questo non metto la mano sul fuoco. L’episodio ha una certa rilevanza per due motivi. Per un verso, benché vi avessero partecipato anche militanti del PCI, era la prima iniziativa di piazza della sinistra extraparlamentare. L’altro elemento da rimarcare riguarda la destra neofascista: la sua presenza era stata di una certa consistenza a dimostrazione di un cuore nero della città che andava ben oltre la percentuale elettorale del MSI; si trattava inoltre di una presenza giovanile che non era organizzata direttamente dal partito neofascista, ma era legata a sigle e a posizioni politiche alternative, quasi che anche a destra fosse in corso di svolgimento una specie di ’68 generazionale. Era gente che ruotava attorno ad un gruppo che si firmava Occidente.

Dopo quel “battesimo del fuoco”, quell’estate aderii all’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti e ne fui militante per i pochi mesi in cui questa organizzazione ebbe una sede a Sondrio. Furono comunque esperienze formative soprattutto se si tiene conto del contesto sondriese alquanto squallido da un punto di vista culturale. Partecipai a volantinaggi nelle scuole e nelle fabbriche, a due manifestazioni dei degenti del sanatorio Morelli di Sondalo nel capoluogo della provincia; all’indomani di piazza Fontana partecipai ai funerali di Pinelli; nel gennaio ’70 fui alla grande manifestazione contro la “Strage di Stato” a Milano e poi nel ’72 ai funerali di Feltrinelli. Nel mio periodo milanese il mio impegno si sviluppò all’Università fino al servizio militare; in seguito, pur rimanendo interessato a questi temi, mi trovai coinvolto nella vita personale (lavoro, matrimonio, figli, ecc.) e ciò comportò una riduzione decisa dell’impegno.

Secondo me l’importanza del ’68 è stata soprattutto a livello culturale: la presa di coscienza dei problemi sociali e di conseguenza dell’importanza delle lotte, lo stravolgimento dei costumi dominanti che poi ha portato a veri cambiamenti nella società italiana. Nel giro dei miei amici c’è chi ha continuato nell’impegno e chi si è integrato nel sistema.