Le idee di rivolta non sono mai morte

 

Vengo da una famiglia operaia con mio padre che lavorava al cotonificio Fossati e mia madre casalinga. Scolarizzati negli anni ’30 del secolo scorso, in pieno regime fascista, i loro studi si fermarono alla quinta elementare.

A parte le questioni di fabbrica, essendo il padre un attivista della CGIL iscritto al PCI, non ho presente visioni o commenti particolari rispetto ai movimenti di allora se non l’idea paterna che i gruppi extraparlamentari potevano spaccare il Partito Comunista. Ricordo una forte speranza nell’aumento del reddito per un miglioramento del tenore di vita ed un maggiore accesso ai beni primari e secondari, con il boom economico, gli elettrodomestici ed un subdolo consumismo lanciato verso il futuro. Il fermento sociale e le lotte salariali erano ben viste non certo per una rivoluzione ma semplicemente per il desiderio molto materialista di migliorare le proprie condizioni di vita.

Rispetto alle questioni di divorzio e aborto prevaleva una mentalità piuttosto aperta e conciliante, priva di rigidità e dogmi religiosi.

A differenza di genitori apertamente cattolici non ero stressato per la scarsa religiosità ma il modello educativo era piuttosto tradizionale e fedele alla linea autoritaria. Con i primi capelli lunghi, il rock-blues e quel clima effervescente di cambiamento epocale in corso che si respirava ogni giorno… i conflitti con i genitori erano inevitabili.

Nel 1968 avevo 12 anni e frequentavo la seconda media nella rinomata scuola statale “Ligari”. Era il periodo d’oro del maoismo nelle sue varianti politiche ed era affascinante ammirare la vetrina di via Angelo Custode 9 a Sondrio, sede del PCd’I (marxista-leninista), con coloratissimi manifesti fotografici raffiguranti un sorridente Mao Tse-Tung, operai e contadini raggianti di felicità nei loro abiti verde oliva. Immagini che in parte richiamavano il paradiso terrestre tanto propagandato dai cattolici. Comunque la Cina in quel periodo era un mito, il vento soffiava da est e qualche manifesto maoista compariva anche sui muri di Sondrio.

Venivano invece da ambienti cattolici (Gioventù Studentesca) quegli studenti universitari che nel ’68-’69 facevano il doposcuola ai giovani proletari del quartiere sud-ovest, utilizzando come luogo didattico dei locali siti in via Parolo, quasi di fronte alla federazione del vecchio PCI. Ora quella palazzina è solo un ricordo, come tante piccole perle liquidate dalla speculazione edilizia nel corso dei decenni. Così come restano un ricordo quei commenti di alcune malelingue della via Maffei… “ma come?… vai anche tu alla scuola dei maoisti?”.

Nell’agosto 1968 fui molto colpito dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, dai volti affranti dei cittadini di Praga che circondavano pacificamente i carri armati, dallo studente Jan Palach che si era dato fuoco per protesta, dallo stupore degli stessi carristi russi consapevoli di non aver partecipato ad una semplice esercitazione del Patto di Varsavia. Mi bevevo tutte queste immagini in bianco e nero durante i telegiornali della sera, con l’eco del Vietnam, della Palestina e di mezzo mondo in agitazione permanente.

La strage di piazza Fontana del ’69 e la sospetta morte dell’anarchico Pinelli la interpretai invece come un pesante fatto di cronaca nera limitato alla realtà locale di Milano.

Con l’inizio degli anni ’70 iniziai a frequentare, ironia della sorte, il “Fossati” cioè l’Istituto Professionale per l’Industria e l’artigianato (IPIA) ed entrai in quel clima di subbuglio giovanile che aveva contagiato gli studenti medi con scioperi e cortei per le vie di Sondrio, tra le maledizioni degli automobilisti rallentati nel traffico della cittadella.

Ci fu qualche occupazione e mitici furono gli studenti dell’ITI che riuscirono (pernottandovi) a tenere l’istituto almeno un paio di giorni. Pur mancando la forza trainante di quarte e quinte, essendo una scuola triennale, si tentò anche all’IPIA, questo dopo che il preside Sidoli ci negò un’assemblea generale affermando con una punta di arroganza che dovevamo occupare l’istituto per fare la nostra assemblea. E occupazione fu, anche se di breve durata.

Nel corso della mattina il preside, la vice-preside Meneghini (altra dirigente “caina”) e tutto il loro apparato di segreteria telefonarono o avvisarono per vie traverse e con toni allarmistici i nostri genitori, invitandoli a venire a recuperarci poiché avevamo occupato la scuola e la stavamo distruggendo. Non ricordo alcun danno all’istituto e a parte qualche ridicola barricata con banchi e sedie, costruita alla meno peggio contro eventuali irruzioni della polizia, sicuramente tra le bestemmie di qualche bidello, non ci furono grossi sconvolgimenti se non nello stato emotivo di qualche genitore.

Comparivano nel frattempo i primi striscioni dei gruppi extraparlamentari, cioè “Avanguardia Operaia” e “Movimento Studentesco” di cui non coglievo le diversità politiche e le sfumature ideologiche ma piuttosto un momento di rottura con le vecchie generazioni e il mondo stantio in cui volevano confinarci. Una rottura che passava dalla musica di Beatles, Rolling Stone, Who, Nomadi, Led Zeppelin, Equipe 84, Deep Purple, Pink Floyd… tanto per non fare nomi, al look: jeans, scarpe da tennis, camicie militari o scozzesi e maglioni andanti, verdi eskimo autunno/inverno o rustici giacconi; baffi, barbe e capelli in libera crescita per i ragazzi, mentre, abbandonate le gonne, le ragazze in aderenti jeans e magliette mostravano apertamente le loro forme. Era con queste modalità estetiche che si esprimeva ai tempi la voglia esistenziale di essere contro.

Il fenomeno musicale fu un arcipelago vulcanico fatto di mille isole in continua eruzione, con novelli cantautori come Fabrizio De André e Lucio Battisti che ascoltavo volentieri, così come emerse in seuito la grande passione per il Blues. Fu il funerale della cravatta e del vestito della festa stirato dalla mamma e una continua lotta per un’autonomia dell’abbigliamento, oltre che del pensiero.

L’11 settembre 1973, con il golpe cileno di Pinochet, fu per me una data storica. Il governo democraticamente eletto del socialista Salvador Allende fu rovesciato dai vertici militari con il subdolo appoggio del governo statunitense e lo stesso Allende preferì il suicidio all’umiliazione dell’arresto. Quella manifestazione contro chi aveva assassinato il Cile democratico fu quindi la mia prima uscita apertamente politica da giovane studente idealista, orientato al generico comunismo di una società fondata su libertà, giustizia e uguaglianza.

Partenza del corteo in piazza della Stazione con qualche scazzo tra “AO” e “MS” per il primato della testa del corteo. Ricordo al mio fianco Ermanno, lucido e sensibile, studente medio di buona cultura non ancora reduce dall’Università Cattolica di Milano e dal collegio dei preti che per un semplice esaurimento nervoso lo fecero poi ricoverare con trattamenti psichiatrici a base di elettroshock. Di fatto l’Ermanno che rividi pochi anni dopo non era più la stessa persona che incontrai in quel corteo di settembre.

Verso la fine del ’73 da studente IPIA ormai all’ultimo anno di studio e officina mi iscrissi alla Federazione Giovanile Comunista (FGCI) sull’onda del grande Partito che, in costante crescita elettorale, tallonava sia pur a distanza la Democrazia Cristiana ormai al potere fin dal dopoguerra.

Il ’68 e i primi anni Settanta sicuramente avevano portato nuove energie, linfa vitale e nuovi voti al più consistente Partito Comunista dell’Europa occidentale, ma restava certo una forte anima stalinista nel vedere, ad esempio, i gruppi extraparlamentari come fumo negli occhi. Chiamati con disprezzo “gruppuscoli” erano considerati gli eretici del comunismo ortodosso, nemici di sinistra che oggettivamente portavano acqua ai mulini della destra. All’interno della Federazione le critiche non si sprecavano e mentre AO e MS coagulavano il dissenso studentesco e giovanile, nella FGCI eravamo quattro gatti fedeli alla linea di Berlinguer e con un Massimo D’Alema, se non sbaglio, segretario nazionale della Federazione Giovanile.

All’IPIA ricordo le grandi discussioni con Cipo di AO e con Bubu del MS. Nessuno di noi tre era difficilmente in accordo con gli altri due e si polemizzava senza esitazione, mantenendo comunque un rispetto personale di fondo.

Fermenti sociali e fertilità culturale furono l’essenza di quegli anni con un incredibile sviluppo dell’editoria, da quella solidamente commerciale a quella più militante e precaria, con il proliferare di una miriade di piccole case editrici. Si stampò di tutto e di più e la mia crescente passione per la lettura fu un effetto collaterale di quel clima.

Chi però in quel contesto meriterebbe un monumento alla memoria è il vecchio buon ciclostile. Si stamparono artigianalmente e in tempi ristretti migliaia e migliaia di volantini imparando in proprio la rudimentale tecnica tipografica che la semplicità d’uso dello strumento permetteva. Nell’arco di un paio d’ore era possibile elaborare un testo, batterlo a macchina sull’apposita matrice, collocarla sul telaio ben inchiostrato e ogni giro di manovella corrispondeva a un volantino pronto per la distribuzione. Oltre che semplice molto economico.

Oltre ad apprendere l’uso del ciclostile e la linea politica imparai a vincere molte mie timidezze con qualche intervento alle riunioni, i volantinaggi fuori dalle scuole, la diffusione domenicale del quotidiano “L’Unità” con le feste estive in suo sostegno, le chilometriche discussioni, i cortei sotto l’ala protettiva del Partito e della CGIL.

Pur non avendo l’età per il voto partecipai attivamente e con entusiasmo alla campagna referendaria per difendere il diritto al divorzio, contro le forze più reazionarie e retrive impegnate a mantenere l’egemonia politico-culturale e il moralismo autoritario in una società comunque in evoluzione. Per la Chiesa Cattolica l’inaspettata vittoria dei divorzisti fu il duro colpo degli anni Settanta.

Nel 1975 durante il grande sciopero generale per il Fossati, contro il rischio di chiusura della maggior fabbrica di Sondrio e dintorni, già lavoravo in una officina di pulitura metalli con otto ore al giorno di lima forzata. Fu il mio primo sciopero e il padroncino della microazienda il giorno dopo non esternò alcuna critica fingendo indifferenza.

Con migliaia di manifestanti fu il corteo più numeroso che vidi a Sondrio, colorato da una marea di striscioni e bandiere rosse e slogan a ripetizione. Quello ripetuto da alcuni lavoratori del PCI di Sondalo “…governo Moro vaffanculo…” considerato fuori linea non suscitò l’entusiasmo dei dirigenti della Federazione. Era infatti il periodo del compromesso storico nell’ipotesi di una alleanza di governo con la DC e nella base del Partito esistevano malumori e scetticismo, con i dirigenti e i militanti fedeli alla linea di Berlinguer tesi e impegnati a far digerire questa operazione politica.

E, a parte la spinosa questione del compromesso storico, era da tempo che sentivo delle note stonate tra il mio desiderio di comunismo e l’apparato di Partito. Il segretario Pavese, ad esempio, con i suoi occhiali dalla montatura pesante e il look anni ’50 era il classico burocrate che teneva le redini della Federazione, la vecchia guardia più legata a Longo che a Berlinguer. Di sicuro non ascoltava i Pink Floyd e neppure i Deep Purple.

Più che una negazione del capitalismo il PCI mi sembrava sempre più una sua variante di sinistra, non mancando certe le incoerenze come quella di non fare la dovuta opposizione al progetto di un futuro ipermercato a Castione. L’apparato era efficiente, ma non mi sembrava orientato verso i cambiamenti sostanziali di cui la società aveva urgente bisogno.

Il Partito più che valorizzare il comunismo tendeva ad appiattirlo, cercando di inglobare e gestire strumentalmente tutto quanto si muoveva a sinistra. Nella mia crescente insofferenza non volevo sentirmi una macchina politica funzionale ad un progetto in cui faticavo a riconoscermi, lievitando la consapevolezza che anche il Partito apparteneva al vecchio mondo da mettere in discussione, e ci voleva ben altro che un cambio elettorale per promuovere una nuova umanità.

E fu il settimanale “Umanità Nova” la prima pubblicazione anarchica che mi capitò tra le mani, seguita poi dal mensile “A”. Molto incuriosito e prevenuto iniziai a leggere i vari articoli pensando a quell’estrema marginalità degli anarchici che li rendeva quasi invisibili, se non nelle cronache degli attentati. Lo stile antiautoritario dei vari interventi ne rispecchiava comunque le buone qualità.

Entusiasmante la lettura delle odissee biografiche dei vecchi compagni recentemente scomparsi, delle loro vite contro la Storia ufficiale, nelle lotte operaie e contadine dei primi del Novecento, nella rivoluzione spagnola del ’36, nella resistenza contro il fascismo… un antico passato che si intrecciava alla nuova generazione ribelle figlia diretta del ’68.

Riemersero Valpreda e Pinelli, Sacco e Vanzetti, Bresci e Serantini e la contemporanea vicenda di Giovanni Marini che a Salerno, aggredito da una squadraccia fascista, nel difendersi aveva ucciso uno dei fasci ed era stato condannato a 9 anni, con la sintesi filosofica… “se scampi ai fascisti ci pensa lo Stato”.

Dei gruppi extraparlamentari che sotto il cartello di “Democrazia Proletaria” si presentavano alle elezioni la critica del PCI era basata su dispersione di voti e concorrenza sleale visto che il Partito non tollerava la rottura del monopolio comunista parlamentare. La critica degli anarchici si basava invece sull’incoerenza rivoluzionaria nell’entrare nella logica del sistema per accaparrarsi un posticino a fianco di chi si pretendeva di combattere, paragonando la scelta dei gruppi extraparlamentari di oggi a quella dei socialisti riformisti del secolo scorso.

Trovai interessante questo confronto critico e mi fece molto riflettere così come mi fece riflettere l’approvazione della legge Reale, cioè la licenza di uccidere per le forze dell’ordine e questo anche grazie al voto del PCI.

Incontrai comunque le persone e le letture giuste al momento giusto e nello slogan “né Dio né Stato, né servi né padroni” iniziai a riconoscermi più nell’aspetto esistenziale che ideologico. Lo stacco fu naturale e deciso, abbandonando la comoda autostrada del Partito nell’iniziare a percorrere gli aspri e tortuosi sentieri dell’anarchismo.

Tanto per cominciare diedi il mio contributo alla diffusione di “A – rivista anarchica” fuori dalle scuole e, nottetempo, all’attacchinaggio di qualche manifesto. Continuava infatti la campagna per la liberazione di Marini e la solidarietà con gli anarco-sindacalisti spagnoli duramente repressi dal morente regime franchista.

Mi documentai con molto interesse sulle vicende della Spagna del ’36 – ’39 rendendomi conto delle mistificazioni storiche del PCI e, Togliatti in testa, della controrivoluzione stalinista che contribuì ad affossare l’ultima esperienza rivoluzionaria e popolare del Novecento. Anche se voci all’interno del PCI avevano profetizzato una mia crisi temporanea “…tra qualche mese torna nel Partito…” più il tempo fluiva e maggiormente mi convincevo della giusta scelta libertaria dell’estate ’75.

Aumentarono i conflitti in famiglia, insofferenze sul posto di lavoro e partecipai a interminabili discussioni con molto entusiasmo e un pizzico di fanatismo nel mettere in campo un’idea antiautoritaria dell’anarchia ai suoi primi passi e ancora tutta da elaborare.

Nella cittadella di Sondrio ci si conosceva un po’ tutti e prima del controllo poliziesco esisteva comunque quello sociale. Sicuramente con il dopo ’68 si erano rotti degli schemi bacchettoni e perbenisti e faceva piacere vedere in giro dissidenti di ogni genere. Circolava però già troppa eroina, qualche abbozzo di misticismo orientale e gli extraparlamentari di un tempo avevano preso una brutta piega legalitaria.

Non mancò la partecipazione a qualche iniziativa fuori dalla ristretta Valle: un corteo a Milano diretto al consolato spagnolo e un’assemblea a Bologna organizzata dal Comitato Spagna Libertaria con l’idea di far rinascere “Solidaridad Obrera”, pubblicazione della centrale anarco-sindacalista CNT, che nel ’36 era un diffuso quotidiano quando la CNT contava più di un milione di iscritti. La frequentazione di qualche sede e redazione a Milano e la conoscenza personale di anarchici di mezza Italia fu linfa vitale che importai in Valtellina.

Nel giugno ’76 con un altro compagno calai invece a Milano al Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro. Non avevo mai visto così tanti alternativi e dissidenti tutti insieme e si parlò di oltre 100 mila presenze. Fu un mix distillato di quanto si muoveva nel mondo giovanile di quegli anni caldi: beat generation, femministe, radicali, omosessuali, cani sciolti, gruppettari in crisi da Lotta Continua in poi, qualche arcaico emme-elle, l’Autonomia Operaia e gli anarchici che scherzosamente si confrontavano a slogan: “è ora è ora potere a chi lavora!” da una parte, “lotta di tutti, potere a nessuno!” dall’altra..

Quanta confusione sotto quel cielo di Milano che buttò pure un po’ di pioggia prima del tramonto. Esuberanza, malesseri, malintesi, tensioni, polemiche, qualche gratuita violenza. Chi si improvvisò nudista, chi uscì in gruppo per espropri proletari, chi rovesciò il banchetto dei gay, chi cantò dal palco 1 “siamo tutti prigionieri politici”, chi assaltò il camion frigo per l’insegna della Motta, chi si interessò (pochi) agli aspetti più politici e alla miriade di presenze editoriali. A tarda ora srotolai il sacco a pelo vicino al caos musicale del palco 2 e mi addormentai come un sasso, frastornato ed esausto dopo mille emozioni concentrate in una sola giornata.

E dal proletariato giovanile passai al proletariato in divisa dopo essermi licenziato dal cantiere edile appena ricevuta la cartolina militare. Un licenziamento che aggravò il già difficile rapporto con i genitori, non troppo contenti delle mie scelte politiche. Andai via sbattendo la porta di casa dopo l’ennesima lite.

Anno di grande sofferenza vissuta a Bolzano nelle trasmissioni alpine in una caserma ad alta densità di extraparlamentari e gente di sinistra tra la truppa. Aleggiava ancora l’eco del “fascisti golpisti per voi non c’è domani, siamo soldati saremo partigiani!”. In cortile incontrai uno di Sondrio: era il Micio ormai congedante mentre durante una licenza scambiai due chiacchiere con Mariano, mio coetaneo, così insofferente alla vita di caserma nell’alto Sud-Tirolo da rimanerne pesantemente segnato.

Si riuscì comunque a mettere in campo qualche contestazione senza finire a Peschiera: i minuti di silenzio in mensa ad ogni notizia di suicidio o i volantini contro l’esercito e la sua cultura autoritaria appiccicati clandestinamente nei bagni, usando come collante il dentifricio militare.

Arrivai alla fine dei dodici mesi sul filo del deperimento organico ben cosciente che aver accettato l’obbligo del servizio militare era, da anarchico, la mia prima grande sconfitta.

Sull’onda del ’77 tornai alla vita civile trovando una casa collettiva con amici e compagni dopo tanta precarietà abitativa. Ci si ritrovò in cinque in un grande appartamento di ringhiera nella piazza della Stazione che diventò subito luogo di socialità diffusa, quasi troppa. In quel periodo era in circolazione una fauna di strani personaggi mistico orientali e guru dipendenti o suonati di varie tendenze che era meglio perdere che trovare. Errate e superficiali voci sulla “comune anarchica” infatti oltre ad una perquisizione poliziesca ci procurarono alcune di queste visite fastidiose.

La casa di ringhiera fu comunque un punto di incontro importante per mettere insieme un dissenso politico mentre in ambienti pubblici il bar Mokino, la pasticceria Milanese e il vecchio bar Corso (oggi Natella calzature) costituivano il “triangolo delle Bermude” dove si cercava di vivere una convivialità intensa e sovversiva.

Mentre i grossi centri urbani d’Italia erano in subbuglio nella cittadella di Sondrio la cultura del riflusso e la crisi dei gruppi avevano creato, a partire dalle scuole, un vuoto che segnava la fine delle contestazioni dei primi anni Settanta. E fu dalle scuole che si volle ripartire per contrastare le pratiche repressive, iniziando dalla preside dell’IPIA Meneghini con un volantino firmato Coordinamento Studentesco Autonomo datato 22 novembre ’77. In un altro volantino dell’8 dicembre ’77 nel quale venivano denunciate le crescenti aggressioni fasciste a livello nazionale, l’assassinio in Germania dei militanti rivoluzionari della Baader-Meinhof e la repressione in generale, tra cui i processi per il blocco dei trasporti a Sondalo, si aderiva alla giornata nazionale di lotta con uno sciopero per il 10 dicembre.

Quella mattina il corteo invase il Centro Rosselli dove era in corso un’assemblea organizzata dal PCI e tra i vari slogan sullo stile “compagno Berlinguer l’hai fatta grossa, ti sei pulito il culo con la bandiera rossa” si contestò il segretario Giovanni Bettini e il Partito nel suo insieme. Era ancora fresca la memoria della cacciata di Lama dall’università La Sapienza di Roma, che in totale accordo con Andreotti chiedeva sacrifici a chi già aveva dato, o delle dure prese di posizione del sindaco di Bologna Zangheri contro il movimento del ’77.

A fine autunno maturò l’esigenza di un punto di riferimento politico e fisico per coprire il vuoto degli ultimi anni e rilanciare il dissenso su basi sovversive. Nel gennaio ’78 si aprì una sede in via Angelo Custode 9, nello stesso luogo che dieci anni prima aveva ospitato i maoisti. Appendemmo alla vetrina il cartello “Circolo Rivoluzionario di Controcultura” e recuperammo un vecchio ciclostile, nuove pubblicazioni di movimento. Il locale era frequentato da anarchici, autonomi, indiani metropolitani, studenti medi di Sondrio, dell’Alta Valle, di Berbenno… e purtroppo non mancò la frequentazione di suonati vari, sia locali che di importazione.

Ognuno aveva il suo ’77 da esprimere, andando nella stessa direzione anti-sistema in ordine molto sparso, con i miti delle realtà metropolitane (Bologna, Roma, Milano) nei limiti di una provincia ai confini dell’impero. Mentre a livello nazionale le situazioni di movimento erano oggetto di ripetute ondate repressive e il fenomeno della lotta armata continuava il suo percorso parallelo, nel circolo si discuteva di lotte sociali sul territorio, antipsichiatria, femminismo, autocoscienza, agricoltura biologica, antinucleare, questioni esistenziali…

Il primo volantino diffuso come circolo, datato 7 febbraio ’78, denunciò la politica collaborazionista di PCI e sindacati nella repressione in atto, con la segnalazione agli sbirri di migliaia di compagni appositamente schedati dalle strutture territoriali del Partito, il divieto di manifestare e le continua cariche poliziesche ad ogni corteo, con azioni repressive e gratuite che a Roma portarono all’uccisione di Giorgiana Masi da parte di agenti travestiti da autonomi. In conclusione il nostro messaggio fu un invito a “sviluppare in ogni situazione la lotta rivoluzionaria contro Stato e padroni” perché lo scontro tra movimento e PCI era frontale, essendosi il Partito fatto Stato (filo-democristiano) e gestendo da mafia rossa Regioni, Provincie, Comuni, Enti locali e cooperative varie.

Il 16 marzo le BR rapirono Moro, il 18 i fascisti assassinarono a Milano Fausto e Jaio che stavano indagando su loschi traffici di eroina nel loro quartiere.

Il 21 si uscì con un nuovo volantino di controinformazione sul loro omicidio e denunciando la lunga lista di compagni e proletari assassinati a partire dal dopoguerra, “dalle stragi di Reggio Emilia, Avola, Battipaglia, alla strage di Stato di piazza Fontana, a quelle fasciste di Brescia e dell’Italicus”. Nel testo si parlava anche di Palmina, una giovane ragazza recentemente seviziata e uccisa nella nostra provincia.

Con la primavera si iniziò l’esperimento di un orto biodinamico alla periferia di Sondrio mentre nei locali del circolo si lanciò l’idea di un laboratorio di libero scambio dove ognuno poteva portare oggetti, libri, vestiti superflui a completa disposizione di chi ne avesse avuto bisogno, superando lo stesso concetto di baratto.

Non si riuscì comunque a coagulare interventi di ampio respiro sociale, mancando certo la presenza e il confronto con compagni di più vaste esperienze. La convivialità nel circolo era comunque troppo ghettizzata tra infinite e spesso sterili discussioni, vino rosso, qualche canna, alcune buone letture e molta esuberanza giovanile, fermo restando la nostra netta opposizione all’eroina che stava sempre più dilagando.

Dopo l’uccisione di Moro il clima nel Paese era molto cambiato e l’allora ministro degli interni Kossiga con la scusa di combattere il “terrorismo” era intenzionato a far piazza pulita di ogni movimento impartendo delle precise direttive per intimidire chi insisteva a voler rompere i coglioni al regime demokratico. Una sera in compagnia di tre amici (un anarchico e due autonomi) uscendo da un bar di periferia e appena risaliti sulla nostra Fiat 500 fummo bloccati da un gorilla esagitato che, pistola alla mano, gridando, minacciò di spararci se non fossimo usciti subito e in silenzio dall’auto. Più che la paura prevalse lo stupore, quasi fossimo finiti per sbaglio nel set di un film sulla malavita. Solo in seguito i malavitosi si qualificarono come carabinieri e si finì la serata in caserma.

La magia del ’77 era però svanita da tempo e si sentiva sempre più l’aria pesante della restaurazione dei soliti poteri forti. Solitamente nella provincia i fermenti positivi arrivano con estrema lentezza mentre la cultura del riflusso ha effetti immediati. E così fu: venne a mancare il magnetismo dei primi tempi, non ci furono nuovi arrivi e qualcuno iniziò a defilarsi con la complicità dell’estate. Ci si rinchiuse in noi stessi ed emersero diversità di vedute, attriti personali, divergenze ideologiche mentre l’orto biodinamico fu un disastro e il laboratorio di uso libero non partì mai seriamente.

Esaurita la sua funzione di stimolo e il senso del collettivo che lo aveva animato il circolo si sfaldò, si arrivò alla chiusura e ognuno andò per la sua strada. Con tutti i limiti e le contraddizioni sarebbe stato però grave se un’esperienza simile non fosse mai esistita poiché nel clima asettico e asociale di Sondrio innumerevoli persone assai diverse tra loro riuscirono a relazionarsi nell’ultimo fermento sovversivo degli anni Settanta.

Verso la fine del ’78 iniziai a collaborare con la rivista “Senzapatria” nel sostenere la scelta dei pochi obiettori totali, cioè di coloro che rifiutando il servizio militare e civile finivano in galera (Peschiera, Gaeta…). Era una lotta di libertà contro gli obblighi militari e civili nei confronti di uno Stato-padrone che dall’unità (1860) in poi, considerava ogni cittadino un semplice suddito. Il signornò all’esercito significava anche una critica generalizzata contro ogni forma di militarismo per lo sviluppo, appunto, di una cultura antiautoritaria.

Il ciclostile fece scintille in quel periodo e si arrivò alla fine degli anni Settanta con una discreta produzione editoriale purtroppo sequestrata durante una perquisizione del terzo millennio. Si stampò tra l’altro un documento di critica all’Urss e ai Paesi del socialismo reale, tre numeri di un foglio volante (Provoc/Azione) e qualche volantino. Non mancò il divertimento nell’attacchinaggio di manifesti e lo spray in occasionali scritte murali.

Dell’attivismo militante post-sessantottesco nel 1980 si esprimevano pubblicamente Democrazia Proletaria e gli anarchici ma, restando in ambito locale e uscendo dai binari dell’operaismo, il Collettivo “Sole e vita” di Sondalo il 1° aprile diffuse un volantino antinucleare dal titolo “Oh che bello c’è l’uranio in Val Vedello!”. E’ invece del 20 ottobre un volantino del Coordinamento donne di Sondrio contro la cultura della rassegnazione e del silenzio in merito agli stupri e alle violenze quotidianamente esercitate contro l’altra metà del cielo.

Antimilitarismo, ecologismo e femminismo furono quindi le tematiche di riferimento critico, purtroppo sempre più marginalizzate da un clima sociale fondato sul disimpegno e l’indifferenza. Il forte vento della normalizzazione stava di fatto cancellando i valori degli anni Settanta e, quanto si muoveva a livello nazionale, aveva pessime ricadute nelle realtà della provincia e la forte diffusione dell’eroina ne fu un chiaro esempio.

La vertenza Fiat con la marcia dei 40 mila quadri a sostegno dell’azienda segnarono la pesante sconfitta operaia del 1980 ed era finita l’epoca in cui l’essere proletari era vissuto con orgoglio.