«Non ne avevamo bisogno» I miei pensieri sullo scontro CEI-Governo –

di don Cristiano Mauri  Da www.labottegadelvasaio.net

Quattro premesse.

Primo. Ho apprezzato la posizione di responsabilità della CEI di queste settimane: rispettare le indicazioni pur facendo presente i disagi.

Secondo. Posso avere mille considerazioni personali sulle scelte del governo, ma non ho gli elementi né le competenze per valutarle tecnicamente. Se il CTS dice che vede pericoli mi fido, come mi fiderò quando dirà di non vederne più.

Terzo. La storiella del governo dalla gestione perfetta ed esemplare dell’emergenza, però, la lasciamo alla propaganda.

Quarto. Alla fine, comunicato CEI e replica a stretto giro del governo viene il sospetto siano concordate. Ma tant’è.

Queste le mie considerazioni.

Azione pastorale.

Nel testo della CEI si parla di «riprendere l’azione pastorale». È un’espressione fuorviante e non corrispondente alla realtà.

L’azione pastorale non si è mai interrotta, anzi, per certi versi si è perfino potenziata e molti, tra l’altro, si sono trovati a inventare modalità che difficilmente avrebbero considerato.

Libertà di culto.

Parlare di compromissione della libertà di culto è oggettivamente sproporzionato e, a mio parere, ingannevole.

A nessun italiano è proibito di manifestare pubblicamente la propria fede. Le proposte religiose si sono perfino moltiplicate in questi tempi, le messe sono state comunque celebrate e la visibilità mediatica potenziata.

Inoltre, le limitazioni poste dal governo sono temporanee e per nulla assimilabili a posizioni ideologiche; affermare, anche solo velatamente, che sono tali è scorretto.

Oltretutto, denunciare una aggressione alla libertà di culto è irrispettoso verso coloro che nel mondo realmente non ne godono.

Il vero culto.

Il culto cristiano, grazie a Dio, è ben più dell’Eucaristia e questo va detto con chiarezza, pur preservando l’importanza di quest’ultima.

La Messa non è l’unica risposta ai “bisogni spirituali” dei credenti. Chi lo sostiene dimostra una visione di Chiesa e di vita cristiana estremamente limitata e riduttiva.

Perché, altrimenti, tutti i discorsi che si fanno a chi non può ricevere l’Eucaristia, dove finiscono?

È vero che manca molto il poterci radunare a pregare insieme, ma si tratta di una situazione temporanea. In queste settimane credo si sia davvero visto che il culto cristiano non è solo l’Eucaristia e negarlo o comunque spazzarlo via con un comunicato così è disperdere un patrimonio.

Farsi servi.

Il servizio ai poveri per la Chiesa è una vocazione fondamentale e un “memoriale di Cristo”. Qui, purtroppo, viene strumentalmente usato come elemento per rafforzare una posizione. Si avverte perfino un sottile tono di minaccia veramente sgradevole.

Mi rammarica e mi ferisce. Davvero moltissimo. Usare il farsi servi per pretendere di avere un peso, in coscienza, lo trovo un significativo tradimento evangelico.

Sicurezza.

Ci si pone seriamente la questione della capacità effettiva delle comunità cristiane di garantire il rispetto dei protocolli di sicurezza eventuali?

Ci sono parrocchie che faticano a fare le pulizie settimanali della chiesa, che non hanno volontari per i servizi essenziali, che hanno parroci vecchi e soli. Chi controlla, chi garantisce, chi si prende la responsabilità?

Le proposte che i giorni scorsi ho letto anche nella mia diocesi su sanificazioni, distanze, prenotazioni, servizio d’ordine, areazione, numero celebrazioni, rilevatori di temperatura… Quante comunità sarebbero in grado di garantirle davvero? Chi verifica? Il parroco? Si prende lui la responsabilità di decidere se celebrare o meno?

Chi si appella al buon senso lo sta usando anche nel valutare le concrete e reali situazioni di tante parrocchie italiane? Dire «un qualche modo si trova» è un’affermazione responsabile?

Ci potrebbero essere ragioni per aprire e ce ne sono altrettante – almeno 26000, ma pare molte, molte di più… – per non farlo, ma chi vuole aprire è così sicuro di essere in grado di garantire la sicurezza?

Io, in tutta onestà, nel dubbio e in una condizione transitoria propendo per la salute delle persone.

Snaturare i gesti.

Parecchie delle misure che ho visto proporre per potere celebrare subito comportano, a mio parere, un reale snaturamento della celebrazione per la loro artificiosità, la banalizzazione conseguente del gesto liturgico, la contraddizione del senso.

Vale veramente la pena farlo per non saper aspettare altri 20 giorni?

Non era meglio spendere questi due mesi per sviluppare autorevolmente delle indicazioni per liturgie domestiche che avrebbero aperto spazi e percorsi nuovi di vita sacramentale ed ecclesiale?

Per non dire dell’occasione buona per cominciare a porsi domande serie sul sacerdozio ministeriale…

I toni.

I toni e le espressioni usati non sono affatto pacati come ho sentito invece dire da alcuni.

Il testo è oggettivamente aggressivo e attraversato dalla volontà di recupero e/o affermazione di una posizione di forza, da un intento di riequilibrio di poteri più che da un’intenzione di difesa di diritti.

Le proposte quali erano? Chi le aveva elaborate? Perché non sono rese pubbliche?

Si tratta di uno scontro forte ed evidentemente di potere. Con le tensioni sociali che già abbiamo ritengo fosse l’ultima cosa da fare.

Ma poi: difendere o riaffermare un potere usando i sacramenti e soprattutto giocando sulla pelle della gente? Sul serio?

Se davvero è la preoccupazione per la “sorte del popolo” a muovere le proposte, nei due mesi passati non sarebbe stato enormemente profetico invece vedere tutti i pastori rinunciare a celebrare l’Eucaristia, soffrendo le stesse pene del loro gregge, anziché celebrare ostinatamente in solitaria, salvo affermare però di farlo “per la gente”?

Le comunità cristiane ora sono ancora più disorientate e spaccate. Non ne avevamo bisogno.

E un pensiero, infine, alle altre confessioni cristiane e alle altre religioni non ci stava proprio?

Per queste ragioni non posso che esprimere il mio rispettoso ma convinto dissenso per un comunicato che considero improvvido nei modi, nei contenuti, negli intenti.

Lo faccio con estrema sofferenza e con il sincero auspicio che si possa porre rimedio al più presto alla situazione.

È certo che un percorso di ritorno alla normalità vada trovato, ma farci sopra la guerra di religione (di potere?) è la scelta a mio parere peggiore.

Nota a margine 1.

In queste settimane, di occasioni per alzare vigorosamente la voce per la difesa del bene comune ce ne sono state e, volendo, ce ne sono ancora numerosissime.

Le reali condizioni di lavoro dei medici, il caso delle RSA, le discriminazioni nei tamponi, i malati abbandonati a se stessi, la scuola a distanza che crea disparità, i lavoratori costretti a operare senza presidi di sicurezza, i bisogni dei bambini, dei disabili e molto altro ancora.

Nessuna presa di posizione ufficiale se non per le Messe?

Nota a margine 2.

Chi esulta dicendo «finalmente noi cristiani usiamo la forza» si rende conto di dire una delle frasi più anti-evangeliche che ci siano, vero?

Nota a margine 3.

Da quando sono sospese le celebrazioni col popolo non ho più celebrato, eccetto durante Settimana Santa quando l’ho fatto più per un dovere di comunione con i confratelli che per convinzione (e poi fa bene un po’ relativizzare…).

Ne soffro, molto. Non faccio l’eroe, solo penso che la Messa sine populo non si giustifichi. Attendo e cerco di essere cristiano e prete come mi è dato di poter fare.

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 Fare messe – fare chiesa

Antonio Autiero  professore emerito di teologia morale all’università di Münster (Germania)

Sconcertano le 261 parole – tante sono, compresa la data – del comunicato stampa della Segreteria generale della Conferenza episcopale italiana, la sera dello scorso 26 aprile, a pochi minuti di distanza dalla conferenza stampa del premier Giuseppe Conte, sulle misure di approccio alla fase 2, per la gestione della crisi da Covid-19.

Chi scrive quelle parole rivela non certo il meglio di sé, sul piano delle intenzioni che le agitano e dei contenuti che vogliono trasportare.

Il tono rivendicativo di diritti – fosse anche quello sacrosanto della libertà di culto – non viene messo nella sua giusta correlazione con il linguaggio dei doveri, a tutela di beni fondamentali minacciati, come quello della salute pubblica e del contenimento dell’epidemia da Covid-19. Questa lezione è scadente, soprattutto quando viene data in un contesto di crisi diffusa, come quella attuale. Sganciare l’universo dei diritti da quello dei doveri è diseducativo e genera lacerazioni ben più profonde, sia nella consapevolezza delle singole persone che nella coscienza di collettività.

Sconcertante è soprattutto il contenuto della comunicazione fatta dalla CEI. C’è un’imbarazzante confusione di piani che rivela il peggio del profilo teologico sotteso. Si dice che “la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale” che sarebbe impedita a motivo del fatto che il provvedimento del governo “esclude arbitrariamente la possibilità di celebrare la Messa con il popolo”. Questa confusione tra i due livelli, quello pastorale e quello liturgico è preoccupante. Ancor più poi, quando liturgia viene identificato con il marcatore unico della celebrazione della messa. Tutta qui la liturgia?

La chiesa è sì “chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana”, ma sa farlo solo con l’atto fisico della celebrazione di messe? O si domanda sul come educare al senso di lode del suo Signore e di servizio ai fratelli, soprattutto ai più bisognosi? Corti circuiti desolanti si muovono qui e vanno riconosciuti. Questi richiedono un esame serio della propria consapevolezza di chiesa, prima di indurre a scrivere parole forti, rivolto a chi va gestendo un’emergenza senza pari.

E la chiusura del comunicato, con la sua piega sul rapporto tra servizio ai poveri e vita sacramentale cos’è, una minaccia? Se avremo meno messe, potremo fare meno servizio ai poveri? Cioè, nel linguaggio del Giovedì Santo: voi impedite la santa cena e noi riduciamo la lavanda dei piedi?

È triste pensare all’immensa povertà di cultura teologica e di senso civico, alla mancanza di cura per la salute pubblica e di responsabilità per la convivenza con cui la CEI si esprime, allineandosi con chi non rappresenta certo il meglio del paese. E della chiesa.

Probabilmente, anche per quella misura di convenienza di ridurre i già non pochi attriti, il governo rinegozierà la manovra e magari si avrà qualche messa in più.

Ma ci sarà davvero più chiesa?

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Libertà di culto e diritto alla salute

Mail inviata da CHRISTIAN PRISTIPINO 

All’attenzione di mons. Giovanni D’Ercole Vescovo cattolico di Ascoli Piceno

Eccellenza,
da cittadino, medico ospedaliero impegnato nella lotta al COVID, ricercatore scientifico, fondatore e membro di società scientifiche nazionali e internazionali e credente cattolico, tengo a farle pervenire il senso del mio più profondo sdegno per le dichiarazioni da Lei pronunciate in merito all’ultimo decreto del Governo Italiano concernente le misure di argine alla pandemia che sta flagellando anche l’Italia.

Uno sdegno suscitato dal contenuto, incivile nel senso letterale del termine, e dallo stile del Suo intervento video diffuso sui Social.

Al di sopra di tutto, un prelato, di qualsiasi ordine e grado, in quanto tale, non ha alcun titolo per contestare delle forti ed acclarate evidenze di scienza. 
La Chiesa non è superiore alla scienza per dire ciò che fa bene o fa male alla salute dell’uomo. Sappiamo i danni che i chierici hanno fatto all’umanità e ai singoli quando si sono dimenticati di questo. 
Non faccio insulto alla sua intelligenza nello spiegarle che la Sua rispettabile esperienza di Pastore non le consente di tirare alcuna conclusione attendibile su quello che sia o non sia sicuro fare dal punto di vista medico, epidemiologico e di salute pubblica. Il pretendere di farlo, arrogandosi saperi di igiene che non si hanno, vista la sua posizione influente, non fa che rendere più vulnerabili quelli che vedono il Lei un punto di riferimento, specialmente i più fragili tra di loro. La stessa posizione ufficiale della CEI risulta totalmente sconcertante e fonte di scandalo a questo riguardo. 
La liturgia cattolica, come quella di qualunque altra attività umana, non è immune dai meccanismi universali di trasmissione delle malattie, come sanno i morti causati dalle processioni contro la peste del ‘700 [leggasi: XVII sec.] .
Il solo pensiero che un vescovo possa deliberatamente essere all’origine di un danno alla salute dei suoi fedeli, per qualunque motivo lo faccia, è semplicemente ripugnante oltre a essere un insulto per chi come noi medici, lotta ogni giorno a rischio della propria vita per curare i danni causati da interventi inopportuni come il Suo.

In questa chiave non stupisce lo stile autoreferenziale, enfatico ed arrogante, strumentale al ricoprire le motivazioni inconsistenti su cui ha basato il Suo argomentare.
Da credente mi limito a interrogarmi se questo stile, associato alla pretesa di diritti inesistenti (quelli di far contagiare il prossimo?), sia coerente con il messaggio che la Chiesa è tenuta a proclamare e incarnare. 
Questo stile molto più vicino agli avvertimenti mafiosi con cui cui vien fatto schioccare il tacco del potere, scandalizza i piccoli e i poveri del dono della fede. Anche questo non ricorda  quello che un credente, e ancor meno un Pastore è chiamato a fare. Non sta certo a me ricordarle il passo evangelico dove questo scandalo viene stigmatizzato.

Eccellenza, abbiamo bisogno di Pastori che proteggano e custodiscano le persone loro affidategli, in primis essendo coscienti del loro ambito di competenza. 
Conforta in questo senso che ci siano dei pastori che comunicano il senso di camminare accanto al proprio popolo, proteggendolo, e non di marciarci militarmente sopra. La rimando per questo all’illuminante intervento sull’argomento di S.E.R. Beniamino De Palma, suo confratello nell’ordine episcopale a Nola. Sono sicuro ne sia a conoscenza.

Con osservanza,

Dr. Christian Pristipino
Cardiologo, Roma
Board della Società Europea di Systems Medicine, European Association of Systems Medicine (EASYM)