L’Oms: «Nelle Rsa del mondo metà dei morti per Covid-19». E Kluge avverte: «Ci saranno altre ondate, cautela» 

Elisa Martini  IL MANIFESTO 24/04/2020

«È una tragedia umana inimmaginabile», quella che sta emergendo man mano che il quadro delle conseguenze planetarie della pandemia nelle ultime settimane si fa sempre più nitido: non solo in Italia ma in tutta Europa e nel mondo «fino alla metà delle morti per Covid-19 è avvenuta nelle residenze di assistenza per anziani o a lungo termine». Nel darne notizia durante una conferenza stampa virtuale Hans Kluge, il direttore regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’Europa, sembra sentire tutto il peso della portata storica di quanto ha appena comunicato.

I dati dell’Oms a livello globale, necessariamente parziali e sottodimensionati perché raccolgono solo i casi confermati da tampone, stimano in oltre 2,5 milioni le persone contagiate da Coronavirus in 213 Paesi, aree o territori, e quasi 176 mila le morti confermate. Dunque sarebbero oltre 80 mila i morti per Covid-19 nelle Rsa del mondo. Un «quadro profondamente preoccupante», aggiunge Kluge che tenta una spiegazione dei motivi di una tale tragedia: «L’età avanzata dei pazienti, le loro condizioni di salute di base, i problemi cognitivi nella comprensione e nel seguire i consigli di sanità e di igiene dovuti a disabilità intellettiva o a demenza, sono tutti fattori che mettono queste persone a maggior rischio. In più, a molti è impedito di ricevere visite da familiari e amici e a volte sono oggetto di minacce, abusi e abbandono. Ugualmente preoccupante – sottolinea però il direttore europeo dell’Oms – è il modo in cui operano tali strutture di cura, il modo in cui i pazienti ricevono assistenza, che sta fornendo percorsi per la diffusione del virus. È importante ricordare che anche le persone molto anziane e fragili, affette da molteplici malattie croniche hanno buone possibilità di guarigione se vengono ben curate». Riflette Kluge che «questa pandemia ha messo sotto i riflettori gli angoli più ignorati e sottovalutati della nostra società. In Europa le case di cura sono state spesso trascurate, ma non dovrebbe essere così». E che d’ora in poi «bisognerà chiaramente investire in sistemi di assistenza integrati, di lungo termine e centrati sulle persone in tutti i Paesi».

La fase della ripartenza però è alle porte, e Kluge cerca di spiegare che «il ritorno alla normalità dovrà essere graduale e dovrà tenere conto delle linee guida Oms presentate ai ministri della Salute venerdì scorso». «La compiacenza – dice rivolgendosi ai governi europei – potrebbe essere il nostro peggior nemico in questo momento. Non possiamo permetterci di credere di essere al sicuro e protetti: eventuali misure per allentare le regole di distanziamento sociale e fisico devono essere attentamente valutate e attuate gradualmente. Anche i cittadini devono comprendere i rischi intrinseci nel momento in cui i governi, comprensibilmente, cercano di abbassare la pressione che si sta accumulando nelle società per la preoccupazione per le nostre rispettive economie». Ma che sia chiaro, aggiunge: «Questa non è un’uscita dall’emergenza, non esiste una strada veloce per avere una nuova normalità. La domanda non è se ci sarà una seconda ondata, la domanda è se impareremo dalla lezione che abbiamo avuto finora, e cioè quella che bisogna lavorare tra un’ondata e l’altra per rafforzare la risposta dei sistemi pensando agli scenari peggiori».

È storia infatti che la seconda ondata di pandemie come la cosiddetta «Spagnola» siano state assai più letali della prima, mietendo vittime tra i giovani e gli adulti che fino ad allora erano stati poco colpiti. E l’Europa deve fare molta attenzione perché, come aveva già spiegato Kluge la settimana scorsa, «il 50% circa del peso globale rappresentato dal Covid-19 ricade su questa regione».

Particolare cautela va riservata nel «considerare i risultati forniti dai test sierologici o a usarli per determinare decisioni come l’ipotesi di una patente di immunità, che hanno implicazioni importanti», ha spiegato ancora il direttore dell’Oms Europa. «I test sierologici – ha precisato – possono dare un’indicazione su chi è stato infettato dal virus, in modo da poter calcolare il tasso complessivo di infezione a livello della comunità. Ma con questi esami non possiamo ottenere altre conclusioni, primo perché i test disponibili hanno un margine di variabilità, secondo perché abbiamo una comprensione incompleta, a oggi, dell’immunità che l’infezione fornisce».