Bere il calice fino in fondo

 

Parto da questa frase, così emblematica, per raccontare il ‘mio’ Sessantotto.

L’ho già fatto nel libro, intitolato Una sera dolcissima, uscito nel 2010.

Questa occasione mi permette di riprendere quel momento, quella esperienza, cercando di aggiungere qualche dettaglio, cosa non facile perché la sua sostanza resta fortemente attaccata a una vicenda molto personale, come il mio modo di raccontare.

La frase è di Elia Viganò, supplente di Storia dell’Arte nella mia classe, al liceo classico, durante l’anno ‘67-‘68.

Una vecchia cartella di cuoio, un informale golf di lana marrone, una naturalezza che sbaraglia definitivamente l’immagine rigida del professore convenzionale.

Così mi appare Elia, figlio di un operaio del Fossati (unica grande fabbrica valtellinese) e di una casalinga.

Si sta laureando in Architettura presso il Politecnico di Milano, ed è portatore di un fermento che ho già cominciato a percepire dentro di me, ma che non è solo mio, solo soggettivo.

Eppure non so ancora nulla delle lotte universitarie, degli scioperi operai.

Non sfoglio i quotidiani, non mi interesso di politica, però leggo moltissimo (letteratura russa, americana) per riempire la solitudine, soddisfare la sete di conoscenza, quella spinta inconscia a varcare i limiti del mio mondo, piccolo ma non disprezzabile.

Sono una privilegiata perché posso studiare e avere uno spazio per me, questo mi sembra normale, anche se mio padre, ogni tanto, rimprovera me e mia sorella per ‘la vita del Michelaccio’ che facciamo.

Lui viene dalla guerra, in Russia e in Albania, e sa cosa vuol dire vivere, soprattutto sopravvivere in una condizione estrema.

È un uomo umile, riservato, ma raffinato, nella cura della propria persona, nei modi coi quali esprime l’affetto, senza prevaricare, senza ostacolare, silenziosamente e rispettosamente.

Mi sento bene in casa, tranquilla, protetta, tuttavia ho bisogno di altro e l’altro diventerà, sarà Elia.

Iniziamo a frequentarci fuori della scuola, negli appuntamenti culturali organizzati da quello che si chiamerà, anche in valle, Movimento Studentesco.

Occasioni per incontrare tante persone, coetanei e non, che arrivano da ogni dove, come sorti dal nulla.

Quanto ero chiusa in casa, ritirata nella mia cella?

Finalmente posso uscire perché ho veramente qualcosa che mi attrae, che mi fa conoscere altri luoghi, alcuni improvvisati, altri meno.

Come la stanza a piano terra in via Lavizzari, nell’edificio delle suore di Mese, dove per la prima volta ascolto Elia che presenta il Movimento.

Dove al secondo piano c’è l’alloggio di don Abramo Levi, proprio quel ‘pretino’ dall’aria così modesta, che incontro nelle vie della mia cittadina.

Dalle diciotto in poi, intorno al suo tavolo, è un via vai continuo di persone, scopro la sua ricchezza umana e intellettuale, la vastità e la profondità della sua teologia filosofica.

Un altro luogo, verso cui mi dirigo nel freddo dell’inverno, indossando un caldo giaccone di lana a quadretti verdi e arancioni, è un appartamentino, poco sotto le carceri, in una zona già periferica di Sondrio, dove è stato aperto un doposcuola per ragazzini poco abbienti.

Si tengono anche riunioni serali sulla impostazione dei programmi scolastici, in particolare quelli di storia che non rispettano la verità di molti fatti

Luigi Fioravanti, detto Gigi, insegnante alle Magistrali, sa spiegare, convincere ed entusiasmare come Don Milani, di cui leggo avidamente L’obbedienza non è più una virtù e Lettera a una professoressa (che possiedo ancora).

Alcuni ‘relatori’ arrivano dalle Università, sono studenti che tornano in valle, portando notizie fresche delle lotte a Milano.

Lo scenario si allarga, si apre sul resto del mondo, quello grande, quello che inizia, per me, subito dopo Colico.

Non ho varcato che poche volte quel confine, ma adesso mi sento spinta fuori, già oltre, anche se non so esattamente come avverrà il passaggio concreto, non lo immagino certo in modo così traumatico come, purtroppo, accadrà di lì a poco.

Intanto mi godo questo momento, una gioia che diventa totale quando io ed Elia ci mettiamo assieme, cioè ci innamoriamo in maniera ‘perfetta’, un po’ alla volta, passo dopo passo, senza forzare nulla.

Lui è più grande di me, ma non mi sento in difficoltà, l’energia, la grazia, direi, di quel periodo annulla non solo le convenzioni, le differenze di classe, ma anche l’età.

Ci fa sentire tutti uguali, tutti alla pari, quelli e quelle, almeno, che aderiscono al Movimento.

Succede al termine di un’assemblea che si è tenuta nella palestra del mio liceo.

– Ti devo parlare – dice Elia.

– Va bene – dico io.

Sospetto cosa mi dirà: miscuglio di emozioni, di trepidazioni, di gioventù e maturità che spavaldamente si fa avanti con tutto il fulgore di una nuova vita.

Cosa ci può essere di più bello, di più riuscito, se non il fuori che diventa dentro e viceversa?

Adesso il Sessantotto è davvero ‘mio’, è la nostra intimità, i pomeriggi passati a casa di Elia, nella stanza che divide con due fratelli.

Un tramezzo la taglia a metà, permettendoci di stare dietro, al riparo da sguardi indiscreti.

Per fortuna il fratello più grande è al lavoro, l’altro all’Università dove frequenta Giurisprudenza.

Una semplice famiglia operaia, con due figli che studiano e riempiono la casa di cultura.

A una certa ora usciamo per andare dall’Abramo, ritrovare gli amici e tanti discorsi, tante possibilità di confronto.

Nel frattempo Elia si laurea, col progetto di un alloggio per anziani, e ottiene una supplenza annuale di matematica, a Chiesa in Valmalenco.

Per raggiungere la scuola deve acquistare una macchina di seconda mano, una seicento color caffelatte.

Servirà anche, col pulmino del Balena (amico carissimo di Elia), per andare a qualche incontro che si tiene in valle.

Continuano, infatti, le iniziative di controinformazione, che assumono sempre più significato politico, anche se Elia si terrà sempre fuori da qualsiasi partito, benché frequenti un esponente del PCI, pure lui architetto.

Non vedo bene questa frequentazione, per la prima volta mi sento critica, un po’ lontana da Elia che, pur mantenendo la propria autonomia, fatta di rigore e libertà intellettuali, viene comunque coinvolto in progetti che richiedono una partecipazione non solo professionale.

Forse non sono pronta a un cambiamento che, prima o poi, dovrà arrivare.

Forse sono gelosa della nostra intimità che sento, improvvisamente, minacciata da troppe intrusioni.

La bomba di piazza Fontana scoppia, a darmi ragione di un pericolo, un sovvertimento che si sono creati non del tutto a mia insaputa.

Avrò, infatti, altre conferme della mia capacità di intuire il pericolo, rivolto a situazioni, persone care.

Quando viene dato l’annuncio sono a casa di Elia, e ricevo le prime immagini nel televisore che sua madre tiene spesso acceso.

Da lì in avanti è un susseguirsi di avvenimenti inquietanti, culminanti nella morte di Pinelli.

L’eco di questi fatti squarcia il velo, ormai residuo, con il quale cerco di salvare il ‘mio’ Sessantotto.

La sua gioiosità, la sua spontaneità, forse la sua ingenuità, anche se, proprio il Balena mi disse una volta che io “non potevo essere ingenua”.

Invece sì, se ingenuità vuol dire mantenere un animo sgombro, cercare di stare lontana il più possibile dall’oscurità, dalla malvagità, dalla disonestà: bella pretesa!

Elia comincia a frequentare dei nuovi compagni, persone che indagano sulla presenza, ancora attiva, di fascisti in valle.

Arriva perfino, da Milano, un giornalista: Piero Scaramucci. Sarà autore, anni dopo, di  ” Una storia quasi soltanto mia” racconto della vedova di Giuseppe Pinelli. Un testo commovente, intransigente, dove si trova anche una Cronologia della Strategia della Tensione, che ha cercato di distruggere ogni traccia positiva del Sessantotto, mistificarlo fino al punto di non farlo entrare nella Storia.

Elia mi tiene fuori da questi incontri, ‘spedizioni’ che vorrebbero riprendere contatti con alcuni ex partigiani.

Anche su questo non sono d’accordo, fiuto un pericolo molto grave, ma non posso impedire a Elia di seguire la propria ‘vocazione’.

Mentre sta andando a Tresivio con altri, a incontrare un compagno, Elia precipita dalla strada, con la sua macchina, in una vigna sottostante.

Si frattura alcune vertebre e resta paralizzato.

Non ricorda nulla dell’incidente, solo : – Chi mi ha abbagliato? –

Ricoverato a Sondrio e, successivamente, a Milano, muore di embolia polmonare presso l’Ospedale Niguarda il 15 luglio 1971.

(Ho già raccontato cosa è accaduto quella notte e dopo, in un testo intitolato Fotogrammi, contenuto in Una sera dolcissima: l’iter ospedaliero, le omissioni che lo hanno complicato, nonché tutte le ipotesi tenebrose – sollevate da esponenti di Lotta Continua – che hanno circondato l’incidente, rendendolo ancor più drammatico. Mi ci sono voluti anni per liberare le parole, scioglierle dai pesi morti che le trattenevano sul fondo della memoria.)

Dopo la sua morte lascio la mia casa, la mia valle e mi trasferisco a Milano.

Da questo abbandono, da questa lacerante separazione che mi allontana non solo dai miei ma anche dai nostri amici (esclusi Francesco e Maria Racchetti) nasceranno, col tempo, altre possibilità, davvero una ‘seconda vita’.

Prima, però, vengo contattata da un procuratore di Milano che indaga sui fascisti in valle e vuole avere notizie dell’incidente di Elia, sapere cosa stava facendo quella notte, se voglio rilasciare una testimonianza sulla ‘spedizione’.

Io non so nulla di particolare, però mi rendo disponibile, nella speranza di venire a conoscere qualcosa che possa fugare un po’ l’oscurità che mi procura altro dolore nel dolore.

Invece, nessuno mi cerca più.

Probabilmente non c’era nulla da scoprire, da dire e, anche se ci fosse stato qualcosa, si è mai giunti a una conclusione pubblica, definitiva sulla strage di Piazza Fontana e il resto?

Tornando alla frase iniziale: mi è stata confidata da Maria Racchetti che ha conosciuto e frequentato Elia prima di me, quando lui faceva parte di Gioventù Studentesca.

È una frase che mi ha colpito, non meravigliato, poiché sottolinea esattamente ciò che Elia voleva fare di sé.

Una fermezza, una convinzione che non avrebbe mai tradito per nessuno, nemmeno per me, anche se, come ha detto ancora Maria, mi amava moltissimo.

Era in attesa di una risposta, per andare a fare l’architetto in una oasi dell’Algeria.

Perché proprio lì?

Non solo per lavoro credo, ma non c’è stato tempo di parlarne.

La risposta, affermativa, è giunta dopo la sua morte.

Io ero completamente estranea a qualsiasi formazione giovanile, religiosa, politica prima di incontrarlo.

Cosa lo ha attirato in me?

Una volta mi disse che mi ammirava … forse perché, come lui, possedevo una ‘fedeltà a me stessa’ che non ho mai rinnegato, anche se non mi rendeva così speciale politicamente.

Ho sempre privilegiato la sfera privata, i sentimenti, la soggettività, che il femminismo mi ha aiutato a capire meglio, approfondire e difendere più consapevolmente.

Era stato Elia a dirmi che dovevo interessarmi di ciò che stavano facendo le donne.

Intendeva certe amiche che frequentavano Sociologia a Trento e che avevano fondato uno dei primi gruppi femministi italiani: il Cerchio Spezzato.

Questo suo desiderio l’ho sicuramente portato avanti e sono certa che ne sarebbe contento.

Qual è stato dunque il ‘mio’ Sessantotto?

Il ‘nostro’, che era e rimane luminoso.

Ho sempre amato immaginare il momento che segue immediatamente la morte come quello in cui per un istante, un’ora, un secolo, ci si ritrova in perfetta pienezza tra coloro che si è amati, prima di altre partenze e altri ritorni di eternità… Che strette di mano ci daremo, quel giorno.

Marguerite Yourcenar