Il mio ’68, nata nel 1951.

Le premesse
Anche nella mia esperienza personale al cosiddetto ’68 posso attribuire l’attributo di “lungo”, nel senso che vi rintraccio qualcosa che fu precedente non secondario, e un filo che permane cui mi sento in qualche modo fedele, pur nel salto importante di cui dirò. Nel “precedente non secondario” è compresa la fortuna di crescere dopo la guerra, in epoca di ascesa del nostro paese. Non per questo gli anni cinquanta e sessanta furono di per sé felici, il boom economico non cancellò di colpo povertà e insicurezze. Noi bambini figli di gente modesta, a metà tra il proletariato e la piccola borghesia, vedevamo la fatica negli occhi di nostro padre lavoratore prima dipendente autista in una ditta del suocero, poi disoccupato per il crollo della “ditta” nei primi anni sessanta tra le macerie del boom economico, infine agente di commercio sempre sulla strada; la fatica di nostra madre delegata a far quadrare i conti e a crescere senza bigottismi i figli, nel sottofondo ancora cattolicissimo del paese. Il “sacrificio” era all’ordine del giorno. Ma il mondo si apriva: entrava in casa un quotidiano nuovo, moderno (allora), Il Giorno, pieno di firme che giudicavo intelligenti, prima ancora della televisione, che arrivò solo nel ’64. In casa c’era antipatia per i padroni e simpatia non detta per il PCI, nata in mio padre dopo una breve esperienza nel dopoguerra di sciopero e licenziamento al “Fossati” e prima ancora dall’esperienza traumatica di El Alamein e di una troppo lunga prigionia. A scuola si oscillava tra una retorica ancora fascisteggiante e la sperimentazione nella nuova scuola elementare di via Bosatta grazie all’illuminato direttore Gianasso e a giovani maestri quali Giovanni Bianchini, Libero Della Briotta, Mauro Siro, che proponevano varie attività (orto, pittura, teatro, coro, giornalino, cooperativa di articoli scolastici) molte delle quali, ahimè, riservate solo ai maschi. Ma la mia maestra, molto professionale per chi riusciva a seguirla, i cui insegnamenti di grammatica ricordo ancora con chiarezza, mi fece percepire le differenze sociali dal modo in cui trattava senza pietà le bimbe dei rimpatriati dalla Francia o dal Belgio delle miniere, che stavano riempiendo il quartiere, facendomi provare vergogna, io scolara perfetta, e intravvedere cosa fosse l’ingiustizia sociale. Crescevano le case popolari e gli appartamentini da piccola borghesia, ma anch’io avevo conosciuto fino agli anni ’60 la corte oscura, la casa bassa e senza riscaldamento. Mi appassionò, attraverso un giornaletto – sponsorizzato dalla “Motta” e dall’Eni, – la decolonizzazione in corso dei Paesi Africani: l’Eni
di Mattei allungava le mani sull’Africa, attraverso una sponsorizzazione
che per me fu apertura ai problemi del “terzo mondo”. Così come, alle
medie, durissime, selettive, classiste, un paio di insegnanti mi fecero conoscere la distruzione delle culture indigene, le malefatte del fascismo, ma
non ancora lo sterminio degli Ebrei, scoperto leggendo “Il diario di Anna
Frank” appena uscito. Qualcosa sfuggiva all’ordinario, anche all’oratorio,
lo svago domenicale dei bambini di estrazione modesta, quando noi amiche
tredicenni trovammo con Miranda Piani una giovane educatrice aperta,
cosicché il nostro gruppetto rompiscatole ebbe spazio per canzonette,
calcio balilla, passeggiate anziché per il rituale di pallavolo e benedizione
in Chiesa. Tutte esperienze contraddittorie, dove filtrava tanto di nuovo e
di possibile, e l’adolescenza si apriva all’inimmaginabile a metà degli anni
’60: classi miste alle superiori, musica leggera con 45 giri che univa ragazzi e
ragazze in bugigattoli rimediati non si sa come; avvenimenti risonanti come
la presidenza Kennedy, la lotta contro la segregazione razziale, la guerra del
Vietnam, che mostrava una duplice faccia degli USA, forgiandoci in un certo
qual antiamericanismo, nonostante la modernità arrivasse da lì. A Sondrio
incontrai Gioventù Studentesca, gruppo nel solco di un cattolicesimo
che sapeva aprirsi al mondo, luogo di relazioni miste che generarono non
poche coppie più o meno solide, di allegre comitive con lunghe passeggiate
in montagna,– per me una novità, visto che non c’erano gite di sorta nella
mia famiglia –, di avvicinamento alla realtà svantaggiata dei nostri paesi attraverso iniziative ricreative e doposcuola a bambini e ragazzi, ma soprattutto di importanti scambi autocoscienziali che esercitavano alla riflessione.
Animavano il gruppo di Sondrio con indubbia generosità i due maggiori
fratelli Benetti. Controllo quasi nullo, molta responsabilizzazione, noi eravamo
felici sperimentando convivenze comunitarie e un fiorire di scambi
tra studenti, fino ad allora divisi da potenti barriere sociali e scolastiche,
tanto che all’avvio del ’68 quasi tutti i “presidenti di assemblea” e animatori
della contestazione delle scuole superiori di Sondrio erano provenienti da
Gioventù Studentesca, rimasto per me luogo di scambio fino a che intorno
al 1969 non si trasformò in Comunione e Liberazione. Ne resta documentazione nei numeri del periodico studentesco “Il Mallero”, autonomamente scritto, impaginato, finanziato dalla pubblicità che raccoglievamo e dalla nostra diffusione nelle scuole superiori, uscito credo dal 1966 fino a tutto il 1969, dove si trovavano questioni mai trattate a scuola, riflessioni di attualità politica e sociale, anche religiosa, non proprio convenzionali. Forse non si studiava tanto, ma si ribolliva felicemente, costruendo i primi conflitti con i genitori: il fratello maschio per le letture – Pasolini, Maupassant, Balzac – proibite agli adolescenti dalla bibliotecaria di Sondrio in persona, che ne avvisava i genitori, noi figlie per le richieste di uscite serali, controllate non tanto dalla mamma quanto dal padre. La scuola veniva giudicata con molta ironia e certi insegnanti con sufficienza, ma si studiava.
Dentro il movimento
E la scuola fu il terreno inaugurale del movimento. Il primo sciopero
credo nel 1967 fu …per avere la piscina a Sondrio, importante esperienza di
discesa in piazza né di destra né di sinistra. Quando nel ’69 arrivò il vento
da Milano e dal maggio francese, al Classico la terza e ultima classe del liceo
si lanciò in contestazioni ai professori, sit in nei corridoi, pagati con un
punitivo esame di maturità. Ai Periti e alle Magistrali si svolgevano assemblee
autonome, senza professori e preside, conquista ottenuta con trattative
estenuanti, con passaparola da una scuola all’altra, con azioni intrepide, mai
illegali, tra l’opposizione di molti docenti e lo sconcerto di quasi tutti quelli
cosiddetti di sinistra, che non capivano proprio, cosa comune, per quel
che sentivo, ai quadri del PCI. La destra giovanile fascista (Pini in testa a
Sondrio) si trovò isolata e generò qualche scaramuccia in città. Intanto era
nata la scuola per lavoratori, future 150 ore, luogo per sognare una scuola
diversa e una società più giusta, per iniziativa di cattolici del dissenso (Fioravanti) che si riunivano presso don Abramo Levi e portavano l’esperienza
di Trento. Molti furono gli incroci, i passaggi da un luogo all’altro, compresa
Gioventù Studentesca. Per me un altro salto di maturazione culturale
e politica fu l’organizzazione dei gruppi di studio a scuola, di pomeriggio,
senza professori, solo in qualche caso invitati per le loro competenze e disponibilitàall’ascolto: si leggeva Brecht, l’”Opera da tre soldi”, si ascoltavano
i più grandi, ci si rafforzava nella convinzione che la scuola poteva essere
diversa tramite la nostra presa di parola. L’autoritarismo dell’istituzione
veniva gradualmente collegato con l’autoritarismo dell’apparato statale, nei
rapporti familiari soprattutto con i padri, e la parola speranza ci avvicinava
sempre più alla parola rivoluzione. Fu la scoperta di poter usare il proprio
giudizio anche nello studio, nella famiglia, nelle relazioni amicali, di potere
anche non obbedire, che dava respiro. Gli schieramenti politici con i loro
partiti tradizionali erano lontani.
Il circolo Rosselli, tramite alcuni suoi giovani gestori, divenne il luogo in
cui convergevano i vari rivoli studenteschi, con la parola d’ordine “controinformazione”; ci si incontrava-scontrava con la sinistra ufficiale, attraverso dibattiti vivaci con interlocutori locali e no.
Se per noi studenti delle superiori erano importanti i racconti di proteste
e occupazioni che giungevano da chi già frequentava l’università sia cattolica
che statale, cruciali furono le notizie che ci giunsero immediatamente
quel 12 dicembre 1969 della strage di Piazza Fontana. Era un freddo e già
cupo pomeriggio di dicembre quando la nostra compagna di classe Maria,
fidanzata a un giovane anarchico del circolo della Ghisolfa di Milano,
andò alla lavagna e ci spiegò con foga perché non poteva essere l’anarchico
Pinelli autore della strage. Un gesto che non mi fece avere dubbi né sulla
defenestrazione di Pinelli, né sull’innocenza di Valpreda. I fatti successivi,
le proteste a Milano, la grande manifestazione antifascista e la violenza della
polizia accentuavano la convinzione di avere a che fare con importanti
rigurgiti fascisti. Le provocazioni della polizia continuarono per almeno
un anno, ogni volta che era annunciata una manifestazione degli studenti,
come in quel 22 gennaio 1970, di cui mi giunse un racconto in diretta.
Da lì a poco lo slogan“la strage è di stato” ci portò nel cuore del conflitto
politico che per molti di noi fu dirimente: il rifiuto della teoria degli
opposti estremismi come teoria per una normalizzazione e giustificazione
dello statu quo, ma, ancor peggio, come il tranello in cui cadde la sinistra
ufficiale per anni, mossa vincente di tanto stragismo. Per questo non potevo,
non potevamo riconoscerci nei partiti, quello di governo prima di
tutto, ma neanche nel PCI. Allo stesso modo non potemmo confermare
indirettamente tale teoria appoggiando il terrorismo, un giudizio maturato
in quegli anni. Così l’onda lunga del ’68 avrebbe portato me e altri, durante
il caso Moro, su quella posizione riassumibile nella formula “né con lo
stato, né con le BR”, con la rabbia di non essere capiti dal maggioritario
partito della sinistra. Alla fine del 1969 i sessantottini, giusto per parlare di
presunta inconcludenza, avevano ottenuto una riforma dell’università, cosiddetta miniriforma, che apriva tutte le facoltà universitarie, anche quelle
riservate finora ai liceali, ai maturati delle scuole superiori, istituti tecnici
compresi. Se nell’autunno del 1970 all’università statale mi capitò di essere
in prima fila senza esitazione a fronteggiare la polizia che presidiava la
piazza, impedendo agli studenti di entrare, l’esperienza in università andò
caratterizzandosi per i distinguo che cominciavano a dividere il movimento.
Si partecipava alle manifestazioni e ai dibattiti, ma ad alcuni di noi non
piaceva il gruppo Capanna, assolutamente egemone, di cui criticavamo la
prassi, giudicata stalinista, e la formula di “scientificità degli studi” per noi
studenti di filosofia rozzo materialismo. Simpatizzavamo per il neonato
“gruppo Gramsci”, libertario e antiautoritario. Discutevamo della condizione
dei lavoratori e della necessaria unità lavoratori-studenti, leggevamo
preferibilmente il giovane Marx. I segni di sfaldamento del “movimento”
si notavano nelle contrapposizioni ideologiche e nelle diverse pratiche. Se
qualche volta la disobbedienza sessantottina fu la scusa per qualche ignorante, in certi esami di gruppo, per accodarsi agli studiosi, erano comunque eccezioni! Ma ci facevano arrabbiare quegli assistenti che, provenienti dal Movimento Studentesco cercavano di fregarti agli esami con il nozionismo, noi che volevamo studiare in modo diverso, impegnandoci con passione sui temi del marxismo. Il movimento si trasformava, l’università si normalizzava anche a causa, ci pareva, di una maggiore presenza della Federazione giovanile comunista (FGCI) e dei legami (veri o presunti, c’è qualcuno che può dirlo?) del Movimento Studentesco con il PSI. Non giudicai positiva questa “partiticizzazione” che non faceva i conti con l’ambigua posizione della sinistra verso i movimenti internazionali, quali la primavera di Praga, né chiarezza sulla politica dell’URSS verso i paesi dell’Est, che una scorribanda in moto nell’estate del 1969 ci aveva mostrato poveri, e di un grigiore dovuto a una mancanza di libertà e di speranze comuniste – oggi penso ai rigurgiti di destra di questi stessi paesi come triste risultato di una politica economica e sociale fallimentare, in continuità con metodi e figure del passato nazista. Così la defenestrazione del gruppo del “Manifesto” mi fece
seguire con entusiasmo la nascita del giornale e a loro diedi il mio primo
voto nelle politiche del 1972, dove presero intorno allo 0,80%.
Venne voglia di impegnarsi fuori dall’università, tornare in valle per dare
un nostro contributo all’apertura dei sui ristretti orizzonti, fedeli alla speranza
di cambiamento.
La ricerca di un modo diverso di fare politica
Il mio postsessantotto comincia dalla valle, e, come capii fino in fondo in
tutte le sue implicazioni solo con il femminismo, fu un misto di personale
e politico: la politica tutta, tradizionale e no, allora sembrava lasciare fuori
dalla porta emozioni, sentimenti, scelte private: tutto si doveva spiegare
con l’ideologia o con l’appartenenza a partiti. Di fatto, quando, sposandomi
senza fronzoli, decidemmo di aprire la casa ad amici con bambini
in affido, seguivamo ancora quel vento di libertà che ci aveva formati con
molte aspettative di un radicale cambiamento: nel privato superare i limiti
della famiglia tradizionale, con una convivenza tra amici piena di dialoghi,
allegria, bambini, una comune che scandalizzava l’ambiente sondriese.
Più scandalizzava, più noi ci divertivamo in castissimi esperimenti: mobili
fai-da-te, lavori precari, da studenti-lavoratori che diventavamo via via
più lavoratori e meno studenti, cercando il connubio teoria-pratica, approfondendo l’amicizia laica con Abramo Levi, alla ricerca di un modo
convincente di impegnarsi, che escludeva i partiti tradizionali. Ricordo un
tentativo di gruppo di studio di tipo sociologico sulla Valtellina con Ivan
Fassin , interrotto forse per scarsa convinzione reciproca. Confusamente
desideravamo dare corpo a un marxismo coerente, poco ortodosso, con
molta Rosa Luxemburg, e non si mollava, da sessantottini (tuttora) non
pentiti. Intorno al 1973 aderisco ad un gruppo sondriese di Avanguardia
Operaia, conosciuto tramite amici, scelto d’accordo con l’amica con cui
mi confronto dai tempi del liceo: eravamo le uniche donne e il confronto
e il sostegno vicendevole erano necessari. L’urgenza e la voglia di incisività
ci fanno optare, senza convinzione teorica, per questo gruppo che stava
lavorando, soprattutto nei paesi, ad aggregare giovani, mentre a Sondrio
metteva al centro la formazione politica per gli operai del “Fossati”. La
sua definizione di “gruppo leninista” non mi importava granché, poiché
la parola “partito” non era all’ordine del giorno, l’importante era quel che
si esperiva in situazione. Riunioni di cellula e, la mia amica ed io, inusuali
“angeli del ciclostile”: inusuali perché si lavorava finalmente di mani e insieme
si stendeva anche il testo, operazione non banale. Cito le esperienze
più interessanti, sulle quali altri diranno. L’instancabile compagno di cellula
ci coinvolgeva in analisi e interventi sulla figura dell’operaio contadino, che
con il doppio lavoro, in fabbrica e nella vigna, si sottraeva alla coscienza
di classe. Oggi si farebbe un’analisi ben diversa di chi tutto sommato praticava
e pratica la cura del territorio. Non si poteva immaginare ancora il
crollo della fabbrica, si tentava giorno per giorno di fortificare la coscienza
degli operai a fronte delle deboli posizioni sindacali locali. Partecipai a un
gruppo di lavoratori-operatori psichiatrici presso l’OPP di Sondrio guidati
dall’illuminato e militante psichiatra Emanuele Gualandri, che proveniva
da Milano e portava nella pratica l’ispirazione basagliana. Per me, sostenendo
chi tentava di aprire il sindacato degli enti locali a esperienze e obiettivi
innovativi (far uscire gli handicappati dalla reclusione domestica, inserirli
nella società lavorativa) fu commovente vedere operatori psichiatrici di
vecchia data convertirsi a un rapporto diverso con i pazienti. C’erano tante
ingenuità, ma quello che colpiva era lo sguardo che cambiava, non solo
tra paziente e operatore, ma anche nel sindacato, e nelle amicizie che si
stringevano tra persone diverse, noi studenti, loro infermieri. Esperienza
terminata dopo che Gualandri andò via, ma lasciando un segno a una generazione di infermieri e sindacalisti. A proposito dell’ospedale psichiatrico,
non posso non ricordare Elia Viganò, che già nel ’68-69, nostro supplente
al liceo, lavorava ad aprire i reclusi dell’OPP a una vita più degna, con piccoli
laboratori artigianali e attività interne che aprissero il manicomio alla
cittadinanza. Persona degna del miglior sessantotto, venuta a mancare di lì
a poco.
La costituzione di collettivi di giovani dei paesi intorno a Sondrio allargò
la militanza a ragazzi vivi, intelligenti, propositivi, con cui ci si confrontava
in riunioni serali: noi a Sondrio avevamo la responsabilità di tenere i contatti,
ma la conduzione del gruppo di paese era loro. I nostri paesi si svegliavano
dalla marginalità e contribuivano a svegliare la valle dal suo lungo
sonno, ed era quanto speravo. Il fiorire di dibattiti, incontri, occasioni festose
era così diverso dalle istituzionali e ripetitive sagre di paese di oggi, e
intanto crescevano ragazzi e ragazze consapevoli, uno dei più bei frutti di
quegli anni. Talvolta gli incontri erano faticosi: ricordo un pellegrinaggio
serale con la mia amica per cercare di convincere un gruppetto di agguerriti
giovani lavoratori di… che le Brigate Rosse, allora emergenti, non erano
la soluzione. Coinvolgendo le realtà di paese, cresceva la partecipazione a
iniziative di piazza: un lungo corteo al grido “la resistenza è rossa, non è
democristiana” interruppe nel 1974 (?) l’estraneità popolare intorno al 25
aprile, festeggiato fino ad allora con soli gesti istituzionali, e fu segno di un
recupero critico con il passato del nostro paese, gesto di educazione civile,
visto che a scuola la resistenza non si studiava.
Un altro terreno di iniziative di lotta fu quello dei trasporti, con lo slogan:
“tempo di trasporto=tempo di lavoro”. Si cercarono alleanze con autisti,
da saldare con gli studenti, che si riversavano a Sondrio da tutte le parti
della valle, non essendoci decentramento scolastico, con grande dispendio
di tempo e di denaro, visti i costosi abbonamenti scolastici. Le azioni di
piazza di quegli anni mi pare contribuirono in Lombardia a riconoscere
abbonamenti ridotti per motivi di studio. Episodio curioso durante le proteste
a Tirano e a Sondalo fu che mentre i compagni maschi si beccarono
denunce per interruzione di pubblico servizio, noi due donne godemmo
dell’irrilevanza femminile agli occhi dei questurini, e quindi dell’impunità,
nonostante partecipassimo altrettanto duramente alle azioni. Ne ridemmo
con ironia, ma non ce ne sfuggì il significato di invisibilità femminile. Nel
1974 si lavorò durante il referendum sull’abolizione della legge che permetteva
il divorzio. Com’è noto, anche in Valtellina prevalse il no, seppure con
percentuali più basse della media nazionale, ma fu motivo di felicità per noi
che volevamo liberare la Valtellina dall’egemonia democristiana, dandoci
da fare, in compagnia – se ricordo – solo del laico PSI e dei radicali. Il discorso
antidemocristiano assunse per me e per la mia amica forme nuove,
che sorpresero noi stesse: ci trovammo in numerose occasioni a parlare con
le donne che nelle piazzette e nei lavatoi al centro dei paesi, si incontravano
nella quotidianità. I dialoghi sfociavano nelle costrizioni della vita matrimoniale, incitavano a più giustizia per le donne, stuzzicando la comune
esperienza femminile, distinguendo tra fede, religione e dignità delle donne.
Le prese di posizione dei partiti erano lasciate in coda al discorso. Toccammo
con mano l’efficacia di ragionare tra donne e lo trovammo un buon
metodo, non tanto ortodosso per dei leninisti, un modo diverso di “fare
politica”. Sarà un caso, ma poco tempo dopo noi due e il responsabile della
nostra cellula, giudicato troppo movimentista, ricevemmo una lavata di
capo dai superiori, nella logica del “centralismo democratico”, che mi fece
arrabbiare e riflettere.Quando, all’incirca nel 1975 sentimmo, la mia amica
ed io, che l’8 Marzo di cui si cominciava a parlare era un rimando per noi
in quanto donne, prendemmo l’iniziativa in autonomia dai compagni: loro
pensavano non fosse affar loro, ma una fetta che potevano delegarci nel
quadro delle “lotte dei giovani, dei militari e delle donne”, per la conquista
del nuovo proletariato. Cercammo quelle ragazze con le quali eravamo cresciute e che il ’68 ci aveva viste divise per storia universitaria o incontri fatti, in gruppi politici differenti. Sapevamo dei rispettivi gruppi di appartenenza, guidati dai maschi, e di che cosa ognuna si occupava in prima persona, ma non avevamo mai collaborato. Sennonché, in vista di quell’8 Marzo, il primo 8 Marzo della piazza di Sondrio (primo e ultimo per noi, perché
non acconsentimmo più a tale celebrazione con relativa mimosa, divenuta
un rituale), sentimmo di doverci incontrare tra donne. Da dove venisse
questa intuizione non sapevamo. Importa invece dire come il pregiudizio
gruppettario verso altre – cui ognuna pensava in termini di avversario politico,
maschio o femmina che fosse – si sciolse come neve al sole quando
mettemmo sul piatto quello che di quell’8 marzo ci premeva, assolutamente
diverso dalle battaglie politiche dei nostri rispettivi gruppi: condividevamo
donne di speranze e dubbi in quanto donne. Che liberazione! E che frutti
ne vennero! Innanzitutto, insieme ad amiche fuori dal nostro giro, un 8
marzo che scandalizzò la cittadina e anche molti compagni, poi la scoperta
di quel che ci interessava: recuperare uno spazio di parola nostro, e diverso
dal modo di fare politica dei compagni maschi che a tutte risultava spesso
stridente con il nostro sentire.
All’incontro iniziale ne seguirono altri, allargati ad amiche, soppiantando
il nostro generico “impegno politico” nei rispettivi gruppi. Per noi, scoperta
del valore del nostro essere donne, poi che per dire e fare in fedeltà
a se stessa una donna non ha bisogno di essere tale e quale a un maschio,
tantomeno di obbedire ai compagni, ai mariti, ai fidanzati. Anche in sedi
centrali di Avanguardia Operaia le compagne cominciavano a farsi sentire
in autonomia, influenzate dal movimento femminista che “fuori” cresceva,
cosicché ci capitò di partecipare a incontri politici per sole militanti, dove
si percepiva che dietro alle critiche a certi compagni stava sviluppandosi
un conflitto richiedente cambiamenti ed aperture che i compagni non coglievano.
Con la presa di parola in autonomia cresceva il conflitto sulla
“linea”, ma per una presa di parola libera sentimmo che era necessaria la
separazione, che i compagni non capirono. Qualcuno di loro confessa di
essere ancora oggi in lutto per quella perdita inaspettata, dunque inspiegabile
: abbandono della causa, per non dire della linea politica, inaffidabilità
femminile?
Nella separazione le scoperte si susseguirono, arricchite dall’apporto di
donne che avevano conosciuto il femminismo di altri luoghi, con cui condividemmo la scoperta che il personale e il politico non erano così separati,
che con la pratica dell’autocoscienza scoprivamo l’esercizio della nostra libertà
in famiglia e fuori, l’esistenza di un forte pensiero delle donne giudicato
ingiustamente irrilevante. Ma niente sarebbe avvenuto se non ci fossimo
ascoltate l’una l’altra nel nostro essere donne. Quando ci ripenso, sento che
qualcosa di inaspettato era accaduto nostro malgrado, malgrado cioè ricoprissimo ruoli pubblici e sociali differenti. Riuscimmo a dirci e a spiegarci il
disagio che avevamo vissuto in tanti momenti del nostro impegno politico:
la verbosità dei compagni e la mancanza di spazio per la nostra parola, il
ripetersi di schemi ideologici tradizionali e/o “in linea”, l’uso di parole e
slogan nelle manifestazioni non corrispondenti al nostro sentire. Per la mia
storia, un salto, ma anche un punto di arrivo che non tradiva la fedeltà alla
politica, anzi, fondava un nuovo modo di fare politica, a partire da sé e dalla
propria esperienza. Infatti con varie iniziative in anni seguenti insieme a
tante amiche – arrivammo a un collettivo di una cinquantina di donne a
Sondrio – ci occupammo dell’attacco alla legge sull’aborto, che veniva dai
cattolici, ma anche dalla destra fascista; della richiesta di consultori pubblici;
di tutto ciò che sentivamo ledere la nostra libertà; andammo in piazza in
un efficacissimo circolo silenzioso all’inizio della guerra in Iraq nel 1991.
Le forme di impegno, di presa di parola pubblica nascevano dal nostro sentire,
e si ponevano in ascolto dell’esperienza altrui. Tutto questo lo considero
tuttora politica, in questa crisi profonda delle democrazie occidentali e
delle sinistre, dopo aver percorso sentieri di pensiero fino agli anni ’90 non
riconosciuti: Hanna Arendt, Simone Weil, le scrittrici misconosciute che
oggi sono lette da tanti, e non ultima la pratica dell’autocoscienza che aiuta,
pur nelle grandi difficoltà di questi anni, ad essere fedeli con se stessi, a non
perdere il filo rosso che lega le vite di tutti e dà loro un senso.