Una sessantottina quasi per caso

 

Quando scoppiò il Movimento alla Cattolica di Milano il 18 novembre 1967 avevo portato a termine tutti gli esami ed ero già abbastanza a buon punto nella preparazione della tesi che verteva sulla storia medioevale. Titolo: Goffredo di Vendome nella lotta delle investiture. Nulla di più lontano da quanto stava accadendo fuori dalle ovattate pareti della biblioteca in cui, in un clima di pace e di silenzio quasi monacale, consultavo e traducevo perfino con un piacere vagamente perverso. Il piacere della solitudine. Ma nel giro di poche ore questo rassicurante silenzio sarebbe stato travolto dalla vita vera, reale. Uscendo dalla biblioteca con la mia amica Chiara, dissi: “Sento clamore nell’aula Gemelli (l’aula magna). Andiamo a vedere cosa succede”. Qualcosa succedeva eccome! Da quel momento la tesi e il buon Goffredo passarono in secondo piano. Scomparvero anzi del tutto.

Si stava svolgendo l’assemblea che avrebbe deciso l’occupazione dell’ateneo. Non ci fu bisogno di molte parole per convincermi della giustezza di quanto si stava preparando. Anche se devo confessare che il primo impulso che mi indusse a restare fu il fascino di quei bei “tribuni della plebe” che si alternavano al microfono: erano Pero, Capanna e Spada che sarebbero balzati all’onore della cronaca proprio per quell’azione. Via via emersero altri personaggi non meno carismatici che avrei meglio conosciuto nel vivo degli eventi successivi. L’incontro col ’68 fu immediato e inevitabile anche perché era in me innata la curiosità per ogni evento che presentivo importante o di portata storica.

Da qui il mio immediato accorrere a Firenze dopo l’alluvione del ‘66 dove lavorai al ripristino degli illustri Sepolcri di foscoliana memoria custoditi nella chiesa di Santa Croce.

Da “angelo del fango” ad “angelo del ciclostile” il passaggio era quasi obbligato.

Certo le turbolenze di quel periodo ritardarono di qualche mese il mio esame di laurea, ma mi regalarono in compenso uno tra gli anni più belli e intensi della mia vita.

Era quasi notte ormai tra il 17 e il 18 novembre, quando telefonai a casa. Poche parole: “Stasera non torno”.

Torno allora a quella famosa notte in cui “succedevano cose” che mi impedivano di tornare a casa. La porta di ingresso della Gemelli era stata serrata con catene, di fatto blindata, e noi ci preparavamo a trascorrere lunghe ore parlando e cantando le canzoni più amate in quel periodo, in particolare “We shall overcome”.

Dopo poco più di un’ora si affacciò una squadra di vigili del fuoco incaricati di sbloccare la porta, operazione non difficile per loro dato il nostro artigianale sistema di blindatura. Il loro intervento non era inatteso, semmai non così tempestivo. In ogni caso non ci allarmò.

Molto più inquietante l’irruzione, circa un’ora più tardi di un nugolo di poliziotti che occuparono l’intero emiciclo prospiciente il tavolo della presidenza. Dal comandante venne intimato l’ordine di immediato sgombero. Il coro “We shall overcome” si levò ancora più spavaldo. Secondo ordine, più perentorio e minaccioso. Ancora nessuno si mosse, tranne i poliziotti che salirono l’ampia scalinata dell’aula e prelevarono con forza e decisione uno per uno tutti gli studenti che erano rimasti quasi incollati ai loro banchi. Capanna aveva ordinato resistenza passiva e tale fu fino all’ultimo. Letteralmente trascinati fuori dall’ateneo lungo i gradini, i corridoi, il porticato che accedeva all’entrata principale i “resistenti” vennero scaricati in malo modo sul selciato del Largo Gemelli, alleggeriti del loro tesserino universitario sequestrato immediatamente dalle forze dell’ordine. Ogni studente all’uscita veniva accolto da un applauso. Quasi tutti avevano qualche indumento strappato o un livido o una distorsione e qualcuno aveva anche perso una scarpa. Più erano malconci e più venivano applauditi dai compagni che alla fine occuparono l’intero piazzale.

Ci sentivamo eroi? Sì. Martiri della causa? Anche. Ripensandoci credo che avremmo dovuto sentirci anche un po’ tonti. La resistenza passiva non doveva per forza comportare un maltrattamento tanto prolungato: dopo un centinaio di metri potevamo uscire con le nostre gambe, se pure accompagnati dalla polizia. Importante era far capire che non uscivamo di nostra volontà. Ma tant’è: noi dovevamo sentirci eroi.

Ormai albeggiava, quando affollammo il bar Magenta per il primo caffè. Io come altri ero ridotta in condizioni deplorevoli: il viso un impasto di trucco e smog, la mia elaborata acconciatura una sorta di nido informe, il mio elegante cappottino blu strappato lungo un fianco.

Ma avevamo davanti un’altra giornata intensa: al mattino sit-in davanti all’Arcivescovado, al pomeriggio corteo nelle vie del centro, quindi di nuovo in Largo Gemelli per fare il punto. Seduti in massa per terra ascoltavamo le valutazioni dei “capi” secondo cui non avremmo potuto fare di più e meglio. Adesso era il momento di programmare le mosse future. Grande entusiasmo suscitò un telegramma inviato da Berkeley, letto da Pero. Eroi anche su scala internazionale!

La sera, finalmente tornata a Sondrio, raccontai sommariamente quanto era successo. Naturalmente non potei tacere che il sequestro del tesserino comportava di fatto la mia immediata espulsione dall’università. Risposta dei miei genitori: dovevo cercarne un’altra, interessarmi se avrebbero considerati validi gli esami già sostenuti, mentre sulla tesi permaneva un forte dubbio. In ogni caso dovevo occuparmene io.

Comunque intanto continuavo ad andare e venire da Milano per partecipare di volta in volta all’ennesima manifestazione, assemblea, corteo od altro. Nonché ad una eventuale nuova occupazione. La sfida tra gli studenti e le autorità accademiche continuava e ad ogni nostra iniziativa particolarmente incisiva e plateale seguiva l’immediato intervento della polizia che in marzo fu particolarmente violenta e cattiva. Da parte nostra non c’era stata alcuna provocazione, a meno che tale non venisse considerata la nostra costante e massiccia presenza in largo Gemelli. Eravamo del tutto disarmati, seduti al solito per terra a ritmare i nostri slogan o le nostre canzoni. Nemmeno un sanpietrino era stato divelto. Improvvisamente fummo attaccati dai poliziotti ormai in tenuta anti sommossa che ci aggredirono con ogni strumento offensivo a loro disposizione arrivando a inseguirci per le strade adiacenti dove c’eravamo dispersi cercando un riparo.

In ogni caso continuavo ad andare e venire da Milano. Ormai ero troppo coinvolta e solidale con quanti erano i “miei compagni” cosicché non avrei mai potuto starmene a guardare da lontano. Mio padre era quasi orgoglioso di me, mentre la mamma ad ogni mia nuova partenza si limitava a dirmi con tono rassegnato “vota moderato”. Che cosa volesse dire in quel contesto “votare moderato” non lo sapeva neanche lei, ma era l’unico suggerimento che sapeva darmi: l’alternativa era di impedirmi di partire, ma era impraticabile anche perché col tempo lei stessa si era legata in qualche modo a quei ragazzi di cui aveva percepito l’idealismo con cui sostenevano le loro ragioni e la tenacia con cui le difendevano. Con questo viatico ripartivo ogni volta, pensando talora al mio Goffredo che aspettava pazientemente una mia decisione. Non fu necessaria: tra aprile e maggio dopo una lunga e combattuta riunione del Consiglio di amministrazione venne approvato un indulto per un buon numero di espulsi. Cacciati i più facinorosi in molti fummo riammessi all’università e io, riappropriatami del mio prezioso tesserino, potei tornare in biblioteca e finalmente il 9 novembre del ‘68 discutere la mia tesi davanti a una commissione che immemore dei miei turbolenti trascorsi (che pure non poteva aver dimenticato) mi gratificò oltre ogni mia più ottimistica aspettativa.

Il “mio sessantotto” finisce qui. La cronaca spontanea e immediata di un anno irripetibile appare come un coriandolo di un fenomeno epocale ancora oggi tema di dibattito.

Guardo a quell’anno con la sorridente indulgenza e l’autoironia di chi ricorda i propri anni giovanili. Senza nostalgia, senza rimpianto col distacco di chi sa che l’allegrezza di quei giorni è stata un regalo del caso, un “unicum”.

Tornata nella mia cittadina mi dedico al lavoro, allo studio, all’attività sindacale e a qualche iniziativa che in varie forme cerca di mantenere vivo almeno lo spirito del ’68.

Ancora una volta sono i giovani che si impegnano a far rivivere il Movimento. Per quanto possono.

Ma già il 12 dicembre 1969 la strage di Piazza Fontana aveva prodotto una frattura insanabile.

Altre ne sarebbero seguite, sempre più efferate e a tutt’oggi rimaste impunite. Per quasi un ventennio una scia di sangue avrebbe percorso l’intera penisola.

L’età dell’innocenza era finita. Il coriandolo è chiuso nel palmo della mia mano. Adesso è il momento della Storia. Quella storia dove “non resta che far torto o patirlo” (Adelchi Atto V).