Un Sessantotto tra contestazione e filosofia

 

Nel ’68 frequentavo il secondo anno di Filosofia presso l’Università Cattolica di Milano. Ero un “agostino”, alloggiavo cioè nel Collegio Augustinianum dove avevo ottenuto un posto con il presalario. Il Collegio ebbe un ruolo importante nelle vicende di quegli anni, perché si trattava di un ambiente molto particolare e per molti versi privilegiato. Si trovava in un edificio che faceva praticamente tutt’uno con la sede della Cattolica, sicché a noi “agostini” era facile partecipare pienamente alla vita universitaria. Era stato pensato come un luogo per la formazione della futura classe dirigente; da esso uscirono infatti, tra gli altri, personaggi come Romano Prodi e Tiziano Treu. Scherzosamente potrei dire che in effetti esso contribuì a formare anche “la classe dirigente rivoluzionaria”, a cominciare da Mario Capanna. In effetti dal punto di vista culturale era un ambiente vivacissimo, al cui interno ‘intelligenze’ provenienti da tutta Italia (e non solo) si mischiavano dando vita a una miscela variopinta che divenne poi anche esplosiva.
Io venivo da Sondrio, dove avevo frequentato il Liceo Classico “G. Piazzi” e dove mi ero diplomato nel 1966 insieme a una classe di amici con i quali ancora oggi ci troviamo regolarmente almeno una volta all’anno (consuetudine nata però a distanza di cinquant’anni dalla maturità soprattutto grazie a Internet) per rivivere quell’amicizia adolescenziale che resta un legame permanente. Da ragazzo, come quasi tutti i giovani di allora, avevo vissuto l’esperienza cattolica anche in maniera molto intensa, almeno in alcune fasi. Per esempio, in quarta elementare – attraverso l’Azione Cattolica, alle cui attività partecipavo regolarmente (ricordo in particolare Don Giovanni Maccani) – insieme ad altri 11 ragazzi provenienti da tutta l’Italia ero stato nominato “Araldo del Papa” a conclusione del concorso “Veritas” (solo adesso, e mi viene da sorridere, colgo il lato ‘profetico’ della cosa, considerato che, a parte il fatto che io mi chiamo Vero, nella vita ho fatto il professore universitario di filosofia mettendo al centro dei miei insegnamenti e dei miei scritti proprio il tema della verità…). Poi, con l’adolescenza, come molti altri miei coetanei avevo imboccato strade sganciate da riferimenti religiosi e quindi lontane anche dall’esperienza cattolica. Peraltro l’incontro con GS (Gioventù Studentesca, fondata da don Giussani) durante gli ultimi anni delle superiori aveva riavvicinato molti di noi a un’esperienza che, pur appartenendo al mondo cattolico, percepivamo come caratterizzata da una intensa spiritualità, da uno stile decisamente innovativo, da un forte impegno intellettuale e poi anche, soprattutto, da una partecipazione in prima persona (quindi in qualche modo anche un po’ sovversiva se non propriamente rivoluzionaria) alle varie attività, a cominciare dai Raggi, nei quali anche noi ragazzi avevamo il diritto di prendere la parola per dire la nostra ‘verità’.
L’entrata nel mondo universitario aveva già contribuito ad allentare un po’ i legami con questo tipo di esperienza, ma fu poi l’impatto con il movimento ‘rivoluzionario’ a segnare una svolta radicale nel modo di vivere e di interpretare il mondo da parte della mia generazione. Paradossalmente furono proprio le caratteristiche innovative e libertarie proprie dell’esperienza di GS a favorire l’allontanamento di molti di noi da una ubbidienza stretta alla gerarchia cattolica, perché preferimmo … ubbidire 🙂 (ma nel senso di ob-audire: prestare ascolto) al libro di don Milani L’obbedienza non è più una virtù.

Ho iniziato rievocando il ’68, ma in realtà l’esperienza ‘rivoluzionaria’ alla Cattolica era incominciata prima, precisamente nell’autunno del ’67, ed esattamente nella notte del 17 novembre, quando un folto gruppo di giovani occupò l’Università. Fu un’esperienza memorabile credo per tutti, qualunque sia poi stato il destino al quale ciascuno di noi andò incontro. Ci sentimmo improvvisamente al centro della ‘storia’, protagonisti di un’avventura che da quel momento avrebbe richiesto a ognuno di noi un impegno integrale per giustificare davvero, e quindi poi anche per ‘inverare’, quel gesto che avevamo compiuto con l’intenzione di rivendicare il diritto di entrare come soggetti a pieno titolo nella gestione del nostro futuro e della vita sociale.
Fummo sgomberati dalla polizia la notte stessa. Noi, su indicazione dei nostri leader, opponemmo una resistenza non violenta, facendoci trascinare a peso fuori dall’edificio. Fu l’inizio di una stagione irripetibile: assemblee, dibattiti interminabili, primi studi politici seri e vissuti personalmente, manifestazioni, scontri con la polizia. (Pure io posso ‘vantare’, di quel periodo, una manganellata ‘guadagnata’ in largo Gemelli, anche se l’episodio risultò assai contenuto sia per la sostanziale moderazione delle forze dell’ordine sia per una mia certa velocità nel darmela a gambe.) Gli occupanti furono espulsi dall’Università; ed io, che ero appunto un “agostino”, fui espulso pure dal Collegio perdendo automaticamente anche il presalario. Ricordo, per completezza, che più avanti (mi pare qualche mese dopo) il provvedimento fu revocato (solo i tre ‘caporioni impenitenti’ Pero, Capanna e Spada finirono alla Statale), sicché io fui riammesso al Collegio e potei concludere regolarmente i miei studi in Cattolica, con una tesi su Husserl che ebbe come relatore il professore Emanuele Severino.
A questo proposito vale la pena di ricordare che Severino ebbe un ruolo particolare in quegli anni, non perché egli fosse in qualche modo coinvolto nei ‘moti’ (anzi, la sua filosofia giudicava originariamente ‘alienata’ qualsiasi azione, quindi anche quelle politiche e rivoluzionarie), ma perché, per via delle sue idee strettamente filosofiche, la Chiesa Cattolica, tramite la Congregazione per la dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio), dichiarò la sua posizione incompatibile con la fede cattolica, per esempio e in particolare perché essa risultava inconciliabile con la dottrina della creazione del mondo da parte di Dio. Ma, proprio per questo suo carattere teoreticamente ‘sovversivo’, la sua figura contribuì oggettivamente a rafforzare i movimenti che si contrapponevano al sistema di potere vigente, e in particolare quegli ambienti cattolici di sinistra e/o rivoluzionari che in quel periodo stavano entrando in contrasto con la Chiesa tradizionale e conservatrice. Lo stesso Mario Capanna, pur muovendosi in una prospettiva marxista, non dimenticò mai l’insegnamento di Severino, del quale ha sempre riconosciuto il magistero filosofico.
Queste circostanze furono decisive anche per la mia vicenda personale, perché proprio nel 1970 Severino, espulso dalla Cattolica, passò all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove portò con sé un nutrito gruppo di allievi (tra i quali appunto il sottoscritto) che poi proseguirono la loro attività filosofica e accademica presso l’università lagunare, dove a me capito poi di ereditare, qualche anno dopo il suo pensionamento, proprio la cattedra di Filosofia teoretica che era stata di Severino.

Nei successivi anni del mio periodo universitario, cioè dal ’68 al ’70, io continuai a partecipare al movimento studentesco, naturalmente con intenso coinvolgimento emotivo ed intellettuale (anche perché nel movimento vi erano tanti miei amici, persone che stimavo moltissimo, intellettuali di valore etc.), ma non vi svolsi mai alcun ruolo propriamente politico o direttivo, né, quindi, fui mai una figura di particolare rilievo, se non, eventualmente, per qualche iniziativa di tipo intellettuale. Ricordo per esempio, presso il Centro Rosselli di Sondrio, attorno al quale gravitava allora una certa intelligentija rivoluzionaria, un mio intervento politico-filosofico ispirato alla filosofia (con particolare riferimento alla Crisi delle scienze europee di Husserl). Ma, come dicevo, non ebbi mai impegni o incarichi significativi di tipo politico. Questo dipendeva in gran parte da una mia connaturata indole poco propensa ad assumere ruoli di comando, ma in parte anche dal fatto che ben presto la carica ideale e ‘pura’ che aveva caratterizzato l’esplosione del movimento aveva preso una piega politica che, se per un verso rendeva l’azione del movimento più operativa e ‘realistica’, per un altro verso finì per assorbire e prosciugare la valenza più profonda e radicale di quella esperienza, rischiando di ridurla a una dinamica sostanzialmente interna alla logica del potere. Così ben presto mi confrontai – in maniera all’inizio poco chiara ma poi via via sempre più consapevole – con alcune questioni di fondo che contribuirono a tenermi lontano dall’azione politica, sia sul versante più propriamente istituzionale e riformista, dove non vedevo accolte le problematiche più radicali, sia su quello più propriamente rivoluzionario, dove non mi sembravano prese sul serio alcune questioni di fondo, e in particolare la contraddizione essenziale che pare insidiare ogni azione rivoluzionaria. Su questo e altri aspetti teorici legati a quel periodo rivoluzionario chi fosse interessato può consultare il mio scritto, intitolato Rivoluzione!, che è possibile trovare sul sito www.archivio68sondrio.it nella sezione “Approfondimenti”.
Pur continuando dunque a partecipare a varie iniziative del movimento, concentrai sempre di più la mia tensione ‘rivoluzionaria’ sulla ricerca filosofica, che a mio avviso avrebbe dovuto consentirmi di giungere a una risposta ‘vera’, e perciò in qualche modo definitiva, alle questioni della rivoluzione e quindi della politica. Soluzione che naturalmente trovai sì, ma … nella consapevolezza che di definitivo c’è solo il fatto che il senso/valore di tutto ciò che facciamo resta sempre aperto, perché qualsiasi soluzione determinata modifica il senso dello scenario complessivo e comporta quindi anche un continuo rinnovamento del compito che ci spetta. Al di là delle battute, devo dire che tutta la mia elaborazione filosofica successiva, pur imboccando anche strade del tutto imprevedibili per allora, è però sempre rimasta fedele al compito di dare una risposta autentica e sincera – in particolare con il suo invito a cogliere la pura differenza tra il positivo e la negazione del negativo (oltre, naturalmente, alle mie esperienze di pratiche filosofiche) – alle questioni teoriche e ideali che nel ’68 ci si erano imposte con tanta forza.

Naturalmente l’esperienza ‘rivoluzionaria’ non si limitava all’ambiente milanese, ma investiva anche quello sondriese, del quale continuavo a fare parte, sia pure inevitabilmente con tempi molto più diluiti.
In questo contesto per me e per molti altri fu centrale la figura di don Abramo Levi, che ebbe la capacità di raccogliere e indirizzare molti di coloro che, provenendo da esperienze cattoliche, conservavano un’esigenza fortemente spirituale, e per qualcuno anche propriamente religiosa, la quale doveva però risultare conciliabile con le istanze libertarie, innovative e in qualche senso ‘sovversive’ dell’esperienza politica del movimento. Tra l’altro l’Abramo, in particolare grazie al collegamento con la Corsia dei Servi di Milano (Davide Maria Turoldo, Camillo De Piaz), aveva dei legami ‘naturali’ con Milano, rendendo in tal modo più facile la compenetrazione dei due mondi.
In un certo senso fu questa l’esperienza più intensa che feci in quel periodo, non perché – anche qui – tramite essa io abbia svolto una qualche significativa attività politica, ma perché si trattò comunque di un’avventura nella quale mi impegnai (e ci impegnammo) con tutte le mie/nostre forze intellettuali, spirituali ed esistenziali (eravamo anche all’alba della rivoluzione esistenziale che investiva la vita privata, compresa quella sessuale), sia a livello biografico-personale che a livello storico-politico, al fine di dare vita a un mondo degno dei grandi ideali che davvero avevamo nell’anima e nel cuore. Anche sul significato di questa esperienza chi ne fosse incuriosito può vedere la parte ad essa dedicata nel già citato saggio Rivoluzione! (nella sezione “Approfondimenti” del sito).