“Mercedem tuam accepisti”

 

No, non ho mandato in tilt il “Comitato reduci” con la mia “sbrodolata” di 18 pagine, come mi aveva ammonito mia moglie Luciana. Dall’ArchivioSessantotto di Sondrio mi hanno semplicemente chiesto di fare un concentrato dello scritto, nel quale ho riversato i miei ricordi del periodo dell’assalto al cielo, di quando, cioè, anche qui a Chiavenna provammo a ribaltare il mondo. Così ho provato a fare, dando meno spazio ad alcune vicende e tagliandone altre.

Dunque, sono nato settimino nel ’51: allora non c’erano le incubatrici e, nonostante fosse giugno, mi hanno messo sotto sette coperte nel timore che non riuscissi a sopravvivere. Sono nato il giorno in cui a Chiavenna passava il Giro d’Italia, forse per farmi omaggio come era successo a Gesù bambino con i Re magi. I miei genitori erano tutti e due insegnanti elementari, entrambi di origine contadina. Io ci tengo molto a questo retroterra contadino perché, per contro, il ’68 è stato un fenomeno importato e abbiamo subito una sorte di colonizzazione. Solo a distanza di anni vedo che si tende a rivalutare aspetti come quello della sobrietà che i miei genitori, pur essendo abbastanza garantiti economicamente, hanno sempre osservato. Penso al primo televisore che è entrato in casa nostra quando io frequentavo già le superiori, a Sondrio, o all’abbigliamento: i calzoni venivano usati a lungo, rifacendo – a esempio- le tasche, coi commenti di rito della sarta: “e insomma, si sa, a quell’età lì …”. Commenti che, ingenuamente, non capivo, ma di cui … tenevo nota per successive rielaborazioni.

Vorrei fare ancora qualche digressione sul mio ambiente famigliare, anche per ridimensionare un po’ il mito del ’68: mio papà ha fatto 76 mesi, più di 5 anni, tra naja e guerra. Aveva fatto le elementari negli anni ’20 e, inevitabilmente, faceva parte delle classi più forgiate dal fascismo. Dopo la guerra era abbonato al Corriere della Valtellina e conosceva personalmente Athos Valsecchi, il ras democristiano della Valchiavenna. Mia mamma era lontanissima dalla politica ma mi raccontava che durante il fascismo don Antonio Zubiani le faceva sermoni contro “il crapun romagnolo”. ll modello educativo non era più quello contadino classico, dove ad esempio l’educazione sessuale era offerta dagli animali, ma era già influenzata da modelli piccolo borghesi. Ricordo che, quand’ero ragazzo, a Fraciscio mio zio contadino mi chiese di accompagnarlo all’Angeloga dove c’era un toro da monta per portar su una mucca, ma mio padre si oppose risolutamente. Semaforo rosso!

Poi cominciai a frequentare il liceo classico a Sondrio, una “scelta” quasi obbligata per il figlio di due maestri e lì incontrai le prime contestazioni. C’erano le assemblee, c’erano gli scioperi: mi ricordo di aver partecipato ad una manifestazione cosiddetta per la piscina che forse era stata indetta dalla destra ma ci fu casino, io ero dietro a un cartello con su scritto “No alla scuola di classe” e non sapevo chi l’avesse fatto, ad un certo punto due tipi violenti ci hanno aggredito e hanno strappato il cartello. Certe mattina invece di andare a scuola si finiva in un affollatissimo circolo Rosselli. Uscito dal liceo, sui vent’anni, nel ’71, mi iscrissi a Filosofia alla Statale di Milano e mi viene da ridere oggi pensando che ho dato 11 esami. Poi abbandonai e tornai a Chiavenna e cominciai a fare politica in prima persona.

Ho avuto un’educazione cattolica, ho studiato a memoria il catechismo per ragazzi di S. Pio X di cui non salvo proprio niente e ora penso che siano irrilevanti l’ideologia o i miti a cui ci si riferisce oppure che si possa avere una di radicale fatalismo rispetto alla condizione umana: l’importante è che quello che si fa vada nel senso della bellezza e della giustizia. Appena uscito dalle medie, ero stato contattato dai Gesuiti perché partecipassi a un loro campeggio, ma io ero ancora troppo legato al cordone ombelicale e non andai, cosa che successe anche un’altra volta quando ebbi l’opportunità di andare da Giovanni XXIII a Roma con i fanciulli di Azione Cattolica. Quella cattolica è stata una fase molto importante della mia vita e mi ha permesso di incontrare persone molto generose come Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose. Con altri di Chiavenna partecipai in quel periodo ad un convegno delle Comunità di base alla Camera del Lavoro di Milano: forse erano i Cristiani per il Socialismo e c’era don Franzoni. Con lo stesso spirito avevo partecipato con gente dell’Oratorio e l’immancabile don Ugo nell’estate del ’71 a un convegno ad Assisi delle Pontificie Opere Missionarie. Davanti ad una chiesa, forse S. Maria degli Angeli qualcuno di noi non si lasciò sfuggire l’occasione di mettere un cartello con la scritta “mercedem tuam accepisti” (Hai già ricevuto la tua ricompensa) su una lucida Mercedes scura. Ma questa fase di cattolicesimo del dissenso era troppo fragile o comunque noi eravamo troppo fragili per portarla avanti e in breve fummo travolti dallo tsunami del movimento nel suo complesso che ci venne addosso.

Questa spinta verso la politica si concretizzò, mi sembra nel ’72, in un’azione che fu piuttosto eclatante in un paese tranquillo come Chiavenna: in occasione del 4 novembre allora si usava che alle messe celebrative di questo anniversario fosse presente un plotone di militari armati (una trentina di finanzieri nel nostro caso), al momento dell’elevazione scattavano sull’attenti puntando le armi verso l’altro. Si trattava di un gesto del quale ero terrorizzato fin da bambino, quando, in virtù del Concordato, la partecipazione delle scuole era obbligatoria. Noi volevamo contestare una cerimonia di questo genere e così decidemmo di passeggiare sotto i portici della chiesa parrocchiale durante la messa e, mentre passeggiavamo, io leggevo brani di Isaia come quello che parla di forgiare le spade in vomeri e le lance in falci (2, 4). C’era anche Mauro Triaca, poi sindacalista CGIL, La contestazione ebbe una certa eco nella cittadina, ricordo che la figlia del maresciallo sbottò: “Ah, ci sono pure li contestatori!”. In questo clima ricordo anche contrasti piuttosto spiacevoli tra noi e il clero: una volta all’alpe di Moos liquidammo don Ugo Bongianni con uno sbrigativo: “Noi adesso lavoriamo per Avanguardia operaia”, come a dire che le nostre strade si erano irrimediabilmente divise. Erano tempi così e noi eravamo un po’ sfrontati. Una rottura che poi abbiamo recuperato. Con don Luciano, invece, lo scontro fu frontale: lui coi contestatori era chiuso, chiusissimo.. quando ho incominciato ad avere storie politiche è andato dalla mamma di Luciana a protestare “ma, insomma, sua figlia è giù con questo sovversivo in una mansarda… “. Ma il Belzebù dei preti della Valchiavenna non era lui, era un altro: si trattava dell’ arciprete di una paese limitrofo a Chiavenna, un specie di residuato storico della figura del vescovo conte, uno che gestiva in maniera clientelare un enorme potere: controllava, e non come servizio, una gran fetta dell’assunzione di manodopera in valle. Una volta capitai a casa sua con don Ugo e ci fece vedere la sua fornitissima cantina. Lì per lì rimasi perplesso, poi quando divenni più cattivo sognai di fargli un esproprio proletario, che poi naturalmente non feci.

La seconda azione fu una manifestazione che facemmo come Collettivo Operai Studenti nell’anniversario di Mattmark, località svizzera dove nel ’65 era avvenuta una strage di operai, tra cui molti italiani, per la caduta di un settore del ghiacciaio sovrastante le baracche dove alloggiavano.

Il Collettivo Operai Studenti era una realtà spontanea, non collegata a partiti, ed era arrivata a contare alcune decine di persone tra Chiavenna e i paesi vicini. Ci si conosceva tutti, partecipavano le persone più diverse e c’erano diverse “correnti”… qualcuno portava ad esempio la rivista Re nudo di Andrea Valcarenghi. Purtroppo non c’è stata continuità. Successivamente siamo stati “colonizzati” da Avanguardia operaia di Sondrio. E’ un gruppo che ricordo con un certo affetto, ma si trattava di un prodotto milanese nato nelle grandi fabbriche e inadatto a muoversi in una realtà complessa come la nostra. Di quegli anni ho alcuni flash particolarmente vivi come quella sede, sotto palazzo Salis, che ci costava 5000 lire al mese di affitto (che portavo puntualmente alla “marchesa”, a condizione che non facessimo… buriana. In realtà una volta la buriana ci fu a seguito di un comizio del deputato missino Pisanò: insieme a tanti altri (ricordo anche la presenza di Leda Zanon del PSI) abbiamo detto la nostra su di lui ad alta voce e abbiamo fatto un piccolo corteo passando da piazza del municipio. Poi la sede si trasferì vicino alla Società operja. Eravamo in piazza quasi tutti i sabati. Il mio ruolo non è mai stato quello di far “relazioni”. In compenso diffusione del Quotidiano dei lavoratori, attacchinaggi e anche qualche scritta. Un po’ abbinato ad Avanguardia operaia c’era il circolo La Comune: un Carnevale attraversammo Chiavenna con un carro che rappresentava la classe dirigente in forma caricaturale, la piazza era gremita, era dagli anni ’50 che non si faceva più la tradizionale sfilata dei carri, ci siamo inseriti noi e a nessuno interessava chi l’avesse organizzata.. L’idea era stata di Roberto Mastai, un artista che è morto alcuni anni fa.

Un’esperienza importante di quegli anni furono il Campanile Nero e la casa vicina, la Palù. Il proprietario era un ferroviere di Novara, originario di Prata, un certo Marino, che l’aveva affittato a compagni di Milano. La Palù ci era stata invece concessa gratis. Si era creata una situazione complessa che oggi sarebbe impossibile: il luogo era diventata una specie di comune, un punto di aggregazione, dove inevitabilmente capitava che ci arrivasse oltre che un giro di compagni e compagne anche qualche sbandato. In quel periodo la “comunanza” era centrale, tanto che la consideravo non compatibile con i rapporti di coppia. Più avanti è arrivata Lotta Continua di Milano: 20, 30 persone che “assaltavano” le nostre dispense, ma non importava a nessuno. Io ne conservo un bellissimo ricordo: qualcuno addirittura piangeva andando via, a volte c’erano anche relazioni affettive, brevi ma importanti. Il nostro rapporto con loro era diverso da quello con Avanguardia operaia, un po’ burocratico. Con la gente di Lotta Continua c’era un po’ di caos ma noi ci vivevamo bene, ci sentivamo più liberi. In compenso AO ci ha tutelato da alcune derive, come quella verso la lotta armata: io, nei primi anni delle BR, avrei scritto tranquillamente “Curcio libero”, ma non sarebbe stato corretto nei confronti di AO. Mi spiace che alcuni dei nostri ospiti siano poi stati coinvolti in episodi di lotta armata e abbiano pagato con anni di carcere la loro scelta. C’era gente simpaticissima come un certo Bubu, della SIT-Siemens di Milano, che guidava le “spazzolate” degli operai su negli uffici dei dirigenti nei momenti di scontro più duro e che per episodi legati alle lotte operaie era anche finito in carcere. Uscito dalla fabbrica, aveva aperto un bar a Ripa Ticinese. Non voglio mancare di rispetto alla sua vedova Angela, che pure amava molto, e a sua figlia Valeria, ma la leggenda narra che… schiattò munito dei conforti … sessuali di una tipa alla chiusura notturna del locale, addosso al bancone del bar. Lotta Continua ci ha comunque portato nuova linfa, una nuova visione delle cose, meno provinciale.

Intanto eravamo arrivati alle elezioni politiche del 1976. Fu un momento di grande impegno addirittura di esagerato “volontarismo per Democrazia Proletaria che, alla fine prese l’1,5% ed elesse 6 deputati, uno dei quali era Massimo Gorla di AO. Uno “sfacchinaggio” enorme e fuori luogo, impensabile al giorno d’oggi, anche perché tutto è cambiato. Tenevamo comizi in tutte le frazioni, facevamo attacchinaggi fino a Starleggia: no, la politica non si fa così: E’ fatta di situazioni complesse e bisogna considerare i tempi per la loro maturazione. Il 1976 è stato per me un anno critico. Dal ’77, per anni non ho più partecipato a nessuna riunione: ero diventato quasi allergico, mi sentivo svuotato. Però nel ’78 ai tempi del rapimento Moro rivendico di aver distribuito a Chiavenna un volantino con la linea “Nè con lo Stato, nè con le BR nel quale si chiedeva l’apertura di una trattativa e la liberazione del prigioniero. Sarebbe stato sbagliato appiattirsi su uno Stato che, si è saputo poi, aveva ai vertici persone e militari fedeli a Licio Gelli e non alla Costituzione repubblicana.

Intanto con la seconda metà degli anni ’70 avevo anche cambiato filosofia lavorativa: prima avevo avuto lavori e lavoretti precari tra cui due belle esperienze di pastore in Svizzera, prima all’ Alp Moos e poi alla Kirke Alp dove pasturavo la bellezza di 180 manze asciutte; poi, dal ’75, avevo cominciato a lavorare con continuità, prima alla Technocolor e poi al mobilificio di Premerlani.

Con gli anni ’80 tutto è cambiato rispetto a quando avevamo vent’anni noi: l’eroina ha coinvolto pesantemente la generazione nata negli anni ’60 e in Valchiavenna sono morti 10 o 15 giovani. Tra i “tossici” c’erano anche persone belle e interessanti, tuttavia, prima o poi, tendevano a far uso di persone “alternative” come me, come quella volta che andai ingenuamente a offrire un pezzo d’oro, che mi era stato affidato da una ragazza tossicodipendente, a un orefice di Chiavenna. Ad un certo punto anche la morosa Luciana mi pose di fronte a un aut aut: o ospitavo loro o ospitavo lei.

Il mio matrimonio con la Luciana col pancione fu il canto del cigno di tutto un giro di compagni e compagne. Ci sposammo in comune, poi seguì un pranzo informale in un ristorante di Gallivaggio, il tutto sponsorizzato dalla mamma di mia moglie. La sposa bevve solo un the e poi tornata a casa vomitò anche quello. I miei genitori non c’erano, erano già anziani e con qualche riserva mentale. Ma senza l’aiuto delle due famiglie saremmo stati sotto un ponte. Il cambiamento e la mia difficoltà ad adeguarmi si sono riflessi anche nei problemi personali emersi dall’ ’88 e affrontati col sostegno decisivo della mia famiglia di origine e di quella attuale e grazie al lavoro. A molti che in quegli anni hanno portato legna al cascinale della sinistra, è andata peggio di me. Alcuni sono stati un po’ lasciati al loro destino. Non voglio essere eccessivamente polemico, ma qualcosa va anche detto, in questo senso. Pian piano ci siamo dispersi anche per motivi pratici, il lavoro in zone diverse… Purtroppo, con qualcuno, i rapporti personali non sono rimasti idilliaci. Alcuni flash di compagni/e scomparsi: quella volta che lasciai la guida dell’alpe a Mauro Triaca, tragicamente scomparso in un incidente in montagna a 30 anni, e a Chiara Stoffel e scappai con la loro 500 per andare a trovare la Renata al rifugio Saas Furà (gli Svizzeri, per fortuna, non se ne accorsero); la visita che mi fece, sempre all’alpe, Ida allora operaia all’IMC, morta purtroppo l’anno scorso, che aveva le ferie in luglio e che mi diede una buona mano nella gestione della baita; la cara Emi Curti, operaia alla Galletto Vallespluga e poi sindacalista CISL; il funerale di Roberto Mastai con un gruppo di amici del suo giro bolognese e le canzoni dei chansonnier francesi che lui amava tanto.

Giunto alla 34° tappa di un matrimonio più bello e più faticoso del Tour de France e allietato dalla nostra figlia , vivo da diversi anni una vita tranquilla senza nessuna apparizione solenne e ufficiale in pubblico e tuttavia, quando vado in centro a Chiavenna, mi piace attaccar bottone con chiunque e mi piace far battute. Ho raccontato onestamente alcuni episodi della mia gioventù. “Non aspettatevi però da me una storia gloriosa, però neanche meschina”. Questo avevo detto nella premessa al mio racconto e questo penso di aver fatto.