Le parole sono importanti

Francesca Ruina dottoressa in Psicologia è membro dell’equipe di Jonas Sondrio, una delle ventisette sedi locali di Jonas Onlus – Centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi, associazione senza fini di lucro fondata nel 2003 da Massimo Recalcati. https://www.jonasonlus.it/sedi-nazionali-jonas/sede-jonas-sondrio.html   Jonas si occupa della cura, prevenzione e ricerca scientifica sui cosiddetti “nuovi sintomi” del disagio contemporaneo: ansia, depressione, attacchi di panico, dipendenze patologiche, anoressie-bulimie, difficoltà famigliari, disagio dell’infanzia e dell’adolescenza. Il racconto   è stato pubblicato sul blog di Jonas Sondrio e Francesca ne ha autorizzato la riproduzione su nostro sito.

Non so che ore siano e per ricordarmi il giorno esatto della settimana mi ci vuole una discreta concentrazione; e poi non fa differenza che sia lunedì o sabato, le 8 del mattino o le 9 di sera. So solo che ho superato il mese di quarantena, un mese rinchiusa tra queste quattro mura, di cui ormai conosco ogni crepa, ogni singolo segno sulle pareti.
Le pennellate dei quadri, viste da vicino, da lontano e di traverso. Il cigolio del pavimento, in precisi punti specifici. Una casa che è diventata ormai un rivestimento, quasi una seconda pelle. Ho avuto in passato sensazioni simili, diventare un tutt’uno con il letto e il divano dopo una settimana di influenza. Ma questa volta è diverso. Non sono io a restarmene a casa, ma, come me, un’intera nazione. E se da un lato questo fa diminuire quella sorta di senso di colpa, di inettitudine, che mi colpisce ogni volta che mi sento inattiva, mentre la macchina capitalista continua incessantemente a oliare i suoi meccanismi, dall’altro mi genera una destabilizzazione, questo essere tutti egualmente fermi e improduttivi. Mi alzo e mi trascino svogliata a fare colazione, mi vesto per darmi una parvenza di una giornata normale, mi lavo perché non bisogna lasciarsi andare, dicono. E poi mi siedo sul divano. Avrei parecchie cose da fare, da scrivere, da studiare. Ma apro i libri e la mia concentrazione dura al massimo un paio di pagine. Li richiudo. Ascolto. Mi ascolto respirare in questo tempo strano, dilatato, scandito solo dai bisogni primari. Ascolto il silenzio irreale della città, spezzato di tanto in tanto dalle sirene di qualche ambulanza che, sole, conferiscono una realtà alla coltre fantascientifica che sembra ricoprire le cose in questi giorni. Guardo le luci dietro le tende delle finestre di fronte, come per accertarmi che ci sia ancora della vita, seppur lontana. Ascolto il canto degli uccelli che salutano la primavera, mentre li vedo appoggiarsi sui germogli nascenti degli alberi. Che ingiustizia, mi dico. Come se ci fosse qualcosa di innaturale, quasi impossibile, nel fatto che il mondo, là fuori, non soltanto continui come se nulla fosse, ma sbocci, addirittura! Mentre un’intera nazione viene messa in quarantena, lui, il mondo, se ne infischia, si fa beffe di tutto questo caos, dei nostri morti, della sofferenza, dell’economia che va in pezzi. Ecco, questo pensiero mi ha turbata. Questo improvviso odio verso il canto degli uccelli, verso i fiori che sbocciano, verso il sole che si ostina a splendere e le temperature che si fanno più miti, mi ha portata a fare l’unica cosa che riesco a fare quando mi sento inquieta e non so dirlo. Leggere poesia. Solitamente a questo punto esco, vado alla ricerca di nuovi libri, di nuovi versi ai quali attingere col fare di un insetto che succhia avidamente il nettare da qualche corolla appena sbocciata. Stavolta no, non si può, che la letteratura non rientra nei generi di prima necessità. E allora mi avvicino alla libreria e prendo in braccio una catasta di vecchi libri, letti e riletti, polverosi e con le pagine sgualcite, e me li spargo intorno, come a volermi circondare di quegli affetti che in questo momento si possono vedere solo attraverso uno schermo. Come a volermi sentire dire da loro come si fa, come si vive questo tempo assurdo che ci è piombato addosso dall’oggi al domani. E, incredibilmente, ci riescono sempre. I primi che sfoglio sono quelli di Chandra Livia Candiani, forse perché la associo a parole come “tana”, “cuccia” e, soprattutto, quella “briciolitudine” che tanto mi aveva colpita la prima volta che l’avevo letta. Quel sentirsi un piccolo pezzettino di un mondo tanto più vasto, di cui l’essere umano non è affatto il centro che crede di essere. “Accettare che la neve / non ci riconosca, / non ci riconosca l’albero, / accettare che ci salvino / senza proferire parola / senza cura”. Accettare che il mondo fiorisca al di là del vetro che lo separa dalla nostra sofferenza, senza avere la pretesa che l’intero cosmo debba chinare il capo, zittirsi e farsi carico del nostro lutto. “Imparare a svanire, a non fare da sentinella al mondo, lasciarlo libero di splendere, solo”, come scrive Candiani. Fare come lui, piuttosto: stare. Imparare a stare fermi, diventare noi, per una volta, albero, fiore, pietra. Come la natura dipinta dalle poesie di Antonia Pozzi, quelle sue “mamme montagne” così vive e così immobili, che la accolgono senza chiedere niente in cambio. Quella natura di cui lei è ospite, avventuriera, e non padrona, proprietaria. Una delle sue più celebri poesie termina così: “ed io sosto / pensandomi ferma stasera / in riva alla vita / come un cespo di giunchi / che tremi / presso un’acqua in cammino”. Ecco, questi versi ora hanno un sapore nuovo. Insegnano, mi pare, l’importanza dello stare fermi, come quei giunchi in riva al fiume. Un po’ quello che dice anche Goliarda Sapienza, altra grande scrittrice del secolo scorso: “non sapevo che il buio / non è nero / che il giorno / non è bianco / che la luce / acceca / e il fermarsi è correre / ancora / di più”. Imparare il silenzio, anche, da quella natura che ci salva senza proferire parola, come scriveva Candiani. Ma anche dalla poesia, dove sono le pause, le sottrazioni, a conferire valore al detto, a fare arrivare dritto in pancia quel che non si sa e non si può dire; stare nell’attesa di “una parola che nomini quello che cerco”, come scrive Alejandra Pizarnik nella sua lotta con il linguaggio. Non avere risposte, non essere dei tuttologi in grado di prevedere e commentare ogni cosa che accade. Non dover per forza saturare tutto con parole vuote, ridondanti, che aggiungono confusione alla confusione. “Nel tremito delle mani c’è un segreto sacro, sigillato con il silenzio”, scriveva una grande poetessa russa, Marina Cvetaeva. Stare fermi e zitti, in ascolto e in attesa, sulla riva del divenire. Perché anche il silenzio è, credo, in momenti come questi, una responsabilità etica. Il silenzio è una “promessa”, scrive ancora Pizarnik: “io lavoro il silenzio / lo rendo fiamma”. Credo che questo tempo di necessario immobilismo, di attesa e di sospensione di ogni attività, possa essere usato per posizionarci in un modo differente, tra di noi e rispetto al mondo, per dismettere almeno un poco i panni da padroni assoluti del creato e sentirci un po’ più degli “ospiti di pianeta frusciante”, “sgretolabili”, come scrive Candiani, dietro le nostre corazze performative dove il mantra è quello di essere padroni di noi stessi, di non avere bisogno di niente e di nessuno, di non dover chiedere mai. E invece siamo piccoli e fragili, e lo siamo diventati ancora di più quando abbiamo deciso di essere onnipotenti e spietati. Abbiamo tagliato la sanità (soprattutto pubblica) perché tanto non ci serviva, perché siamo forti e votati a un delirio di immortalità. Nella nostra rincorsa al successo, al potere, ci siamo dimenticati del nostro incespicare, del nostro essere vulnerabili. “E’ questa la vita: non essere invasati di noi, fallire ogni méta”, scriveva Ingeborg Bachmann. E anche adesso, nel bel mezzo del caos, c’è chi fa spallucce, perché tanto sono i vecchi che muoiono e quindi ai giovani, ai virgulti della società del capitale, che importa? Aperitivi, spriz, parchi e spiagge popolati fino a un paio di settimane fa, e oltre al godimento c’è il lavoro che non si deve fermare per nessuna ragione; tutto pur di ignorare la fragilità, la mortalità e la fallibilità che, tuttavia, loro e nostro malgrado, fa di noi ciò che siamo. Ed è sulla scia di questa friabilità, di questo meno che ci abita, di questo “non” che faccio fatica a dire perché non si può dire, che chiedo aiuto a un’altra poetessa (sempre donne, ma questa è un’altra storia), Mariangela Gualtieri. Scrive, in “Senza polvere senza peso”: “chiedo la forza del tirarsi indietro / la forza d’ogni rinunciante, la forza / d’ogni digiunante e vegliante / la forza somma del non fare / del non dire del non avere del non sapere. / La forza del non, è quella che chiedo. / Non non non: che parola splendida / questo non”. E’ dietro e dentro a questa apparente negazione che si afferma, a mio avviso, la vera forza dell’essere umano. E’ quella che stiamo vedendo in questi giorni, in cui l’offuscamento performativo sta lasciando spazio alla potenza (e non al potere) del legame. Poco fa, proprio mentre scrivevo, delle ragazze sul balcone di fronte hanno iniziato a cantare De André, a cantare di “quei giorni perduti a rincorrere il vento, a chiederci un bacio e volerne altri cento”. Quel canto, che non era una parola saputa, ma una sorta di eco lontana e condivisa, ha accorciato le distanze, gli spazi, rendendoci per un istante parte di un tutto più grande, meno singolare e più collettivo. E se “la solitudine è il non poterla dire”, come scrive Pizarnik, io credo che attraverso quel dire incespicante, fatto di accordi improvvisati e voci stonate che si mischiavano, ci sia stato un attimo in cui quella solitudine è volata via. A poco a poco i vicini hanno iniziato ad affacciarsi, aprendo le finestre, in ascolto. Poi il silenzio è diventato un applauso, un ringraziamento, un urlarsi i nomi dai davanzali, un darsi appuntamento all’indomani con nuove canzoni. Qualcuno ha proposto “bella ciao”. Ecco, questa mi pare una nuova forma di resistenza, un essere insieme nella distanza, contro l’indifferenza di chi crede che ce la si possa fare da soli. Ma, si sa o si dovrebbe sapere, che nessuno si salva da solo, che bisogna, come scrive ancora Gualtieri, “ smettere la corsa / restare dove si cade, unire le mani / non fingere più”, “stare appesi ad un respiro corale”.