La Valtellina di fronte ai due ultimi grandi flagelli epidemici dell’umanità”.

Tra i due flagelli non è ovviamente compreso il terzo, quello di questi giorni del 2020. Ci stiamo riferendo al sottotitolo posto in copertina del libro

“GLI ANNI DEL COLERA, I GIORNI DELLA “SPAGNOLA”

lavoro del dottor Pierluigi Patriarca, pubblicato nel 2003 dalla piccola casa editrice “L’officina del libro”, attiva tra il 1991 e il 2008.  Con la stessa editrice il prof.Patriarca, già primario di pediatria dell’ospedale civile di Sondrio aveva pubblicato in precedenza la Storia della medicina e della sanità in Valtellina (1998)  e La valle incantata. Storia della tubercolosi e della lotta antitubercolare in Valtellina(2001).

Chi rilegga questo lavoro di narrazione delle epidemie di colera e spagnola nella provincia di Sondrio può divertirsi a trovare analogie con il presente, al di là della differenza tra i vari patogeni, batterico quello del colera, virus come il Covid, seppure tuttora sconosciuto quello della spagnola. Con  una breve panoramica sulle pandemie nel corso dei secoli, sulle origini e sulla diffusione, Patriarca inizia raccontando, sulla base di fonti storiche e documenti ufficiali,  come la Valtellina fu interessata dal tifo petecchiale, dal vaiolo e poi dal cosidetto “morbo asiatico” (il colera) con tanto di cifre, per poi passare alla spagnola definendola “la malattia che atterrì il mondo”

 L’affresco sociale, la diffusione della pandemia, la reazione delle autorità, la discussione sui metodi per combatterla, dipendenti dalle supposizioni sulla sua origine, sono resi vivacemente e qua e là curiosamente vicini a certe reazioni cui abbiamo assistito in questi nostri mesi di febbraio,marzo e aprile del 2020. La paura fa quaranta, si potrebbe dire, e infatti la quarantena e l’isolamento sembravano  essere l’unico rimedio efficace nel corso del 1800: le opinioni sull’origine del colera  erano divise tra l’ipotesi di morbilità dell’aria (misteriosa come oggi diremmo dei nuovi virus)  e quella di trasmissione interumana di germi con conseguente contagiosità.   

Come per il ‘nostro’ coronavirus,  la Valtellina è più o meno sempre l’ultima regione lombarda a essere colpita dal colera, data la scarsa densità abitativa, nelle due ondate del 1836,  del 1854-55 e del focolaio circoscritto del 1866-67.  Ma non è da meno delle altre zone, se non per morbilità (i cui dati erano poco attendibili) e mortalità, certo per letalità,  date le condizioni sociali e igieniche arretrate.  Non è che le montagne ci abbiano mai protetto più di tanto dalla morte, nè ora né durante il colera dell’Ottocento, “poiché la letalità era pressoché costante tra il 50 e il 70%, il numero dei malati è facilmente ricavabile dal numero dei morti”, scrive Patriarca. Infatti i dati della morbilità da colera sono poco attendibili, mal documentati e raramente rintracciabili nelle relazioni e nelle cronache del tempo, a differenza dei decessi. I dati ufficiali sono relativi pressoché solo ai dati ospedalieri: nel 1836  sono registrati 1580 malati e 891 morti su poco più di 90.000 abitanti; nel 1855 460 malati e 256 morti su 101.000 abitanti; nel 1866 l’epidemia fu virulenta a livello lombardo, ma in Valtellina circoscritta al solo Tiranese con 55 morti. Il progressivo calo di aggressività viene attribuito dall’autore sia a provvedimenti di repressione delle manifestazioni pubbliche e interventi delle autorità, sia a capacità della popolazione di auto tutelarsi per esperienza.  L’epidemia del 1884 toccò di striscio tutta l’Italia, tranne Napoli, anche perché  i risultati di Koch erano già noti a molti medici.  E l’epidemia Il colera diventerà davvero un’opportunità per non tornare alla normalità,  l’occasione per il miglioramento delle condizioni di salute delle masse, con l’implementazione di acquedotti ove inesistenti, ristrutturazione degli acquedotti urbani che avevano costituito fonte di grande contagio nelle città,  fognature quasi sconosciute nella prima metà dell’Ottocento. Ed è così  che gli epidemiologi hanno parlato di cholera teacher.

Se mentre per il colera fu determinante l’individuazione del bacillo da parte del tedesco Koch nel 1883, e la determinazione  della sua origine di contagio nella scarsa igiene e nell’inquinamento dell’acqua, per la “spagnola”, sottolinea il Patriarca, siamo tuttora non a conoscenza del tipo di virus che la scatenò. E’ quindi particolarmente interessante seguire le sue considerazioni da medico di fronte a questo che sembrava una semplice  influenza, ma che si rilevò globale e particolarmente contagiosa. Se le vittime nel mondo si stimano intorno ai 30 milioni, 274.000 in Italia, per la Valtellina si può ragionevolmente pensare a 2100 vittime, pareggiando come nel resto d’Italia le vittime della grande guerra; e sono dati non del tutto attendibili, forse la metà dei reali, in quanto mancanti dei morti in prigionia o registrati dalle autorità militari.  Sondrio perse 196 abitanti su 9000, con una mortalità del 22 per mille. Alcuni di noi hanno raccolto il senso di terrore che si diffuse attraverso il racconto dei nonni, in quanto non ci fu quasi famiglia che non ne fu toccata, perdendo prevalentemente giovani, madri di famiglia, bambini.  

Patriarca scrive:

 Non ci sono resoconti, nessuno ha scritto una cronistoria della  “spagnola” in Valtellina. Quella che noi oggi abbiamo è oral history, sono storie tramandate oralmente, e nemmeno di prima mano, perché i viventi oggi fra quanti allora avevano almeno otto-dieci anni sono pochi [nel 2003, n.d.r.]. Sono storie che i più anziani di noi hanno sentito raccontare dai loro padri o dai loro nonni. Storie di famiglie dimezzate, di bambini rimasti soli con la madre a letto agonizzante  e il padre al fronte, di paesi deserti, di sepolture affrettate senza corone e senza cerimonie, di reduci che tornano vittoriosi dalla guerra e trovano i loro parenti al cimitero”.

 L’epidemia si diffuse rapidamente, scambiata spesso inizialmente per febbre da pappataci, e dopo una prima pausa estiva, riprese con maggiore virulenza nell’autunno del 1918. Compariva improvvisamente in pieno benessere e veniva scambiata per una comune influenza. Si moriva per una polmonite acutissima, fulminante, che portava rapidissimamente all’asfissia. Nel mese di ottobre del 1918  in Italia morivano tremilacinquecento persone al giorno.  Un italiano su 7 ne fu colpito, ma per fortuna la letalità non era elevata, intorno al 3-4%.  Si disinfettarono tutti i luoghi pubblici, i caseggiati, mentre il contagio avveniva tramite il respiro, e in molte città americane vennero adottate le mascherine di garza. I medici, scrive Patriarca, indossavano un grande bavaglio che ricopriva quasi tutto il viso, imbevuto di liquidi antisettici, e, in qualche modo poteva evocare la maschera dal lungo becco riempito di ambra, muschio, canfora, canfora, noce moscata, cannella, che indossava il medico ai tempi della peste. Precauzione pittoresca, ma di scarsa utilità. Tutti i rimedi disponibili furono provati. I medici non riuscivano a tenersi al passo con i malati: a Sondrio, racconta Patriarca attingendo da documenti ufficiali, non ve ne sono di disponibili, tranne l’onnipresente dottor Sertoli, ma scarseggiano anche i farmacisti.  L’ospedale ricovera gli ammalati poveri e quelli molto gravi, ma i posti letto scarseggiano, l’assistenza infermieristica è scadente e l’assistenza medica è del tutto insufficiente.

Se i movimenti delle truppe a fine guerra favorirono in parte la diffusione della spagnola,  la sua espansione in circa la metà della popolazione mondiale, il suo interclassismo, la brevità del tempo in cui si è consumata, meno di un anno, la trasformarono in un terrore sconosciuto.  Tanto da produrre una rimozione a livello planetario, anche a livello di racconto letterario : oscurata forse dall’ecatombe delle vittime di guerra? O dalla sua propria oscurità, tanto che ancor oggi non  si è determinato il tipo di virus scatenante, nonostante ricerche raffinate e avventurose su cadaveri recuperati da permafrost o in luoghi particolari.  Perciò è stata definita la malattia atterrì il mondo.

Le pagine finali della disamina di Patriarca partono proprio da qui, per allacciarsi a quelle nuove epidemie, per fortuna non diventate pandemie, scatenatesi nella seconda parte del secolo ventesimo: influenze sempre forti, come la famosa asiatica , la HongKong del 1968, la russa del 1977, ora controllate dai vaccini antinfluenzali. Ma è soprattutto la cosiddetta aviaria, che per fortuna è stata contenuta, molto mortale ma poco contagiosa, che ci interroga sul meccanismo del passaggio di virus da un’animale all’uomo, attraverso la mediazione di un altro animale. Quello che preoccupa ancora certi infettivologi è la scoperta che anche la gallina, come l’anatra,  può essere serbatoio di  virus per l’uomo.

E ritorna lo spettro della Spagnola, scrive Patriarca nel 2003: “La caccia alla spagnola è ancora aperta, perché il terrore di una nuova pandemia sta nel fatto che essa si ripresenti con il virus selvaggio del 1918 ancora non del tutto conosciuto, magari simile a quello di HongKong del 1997, che  -passando dai volatili direttamente nell’uomo – assuma una virulenza tale da provocare un’epidemia come ‘la malattia che atterrì il mondo’. Che cosa succederebbe se la “spagnola” colpisse di nuovo ora, prima che venga approntato un vaccino contro il suo virus?

Da persona intelligente Patriarca non è catastrofista e nella pagina finale del libro enumera i motivi per i quali oggi potremmo essere preservati:  la nostra maggiore salute, i farmaci antivirali e antibatterici, le migliorate condizioni igienico-sanitarie. In pericolo sarebbero invece i Paesi del Terzo mondo.  Ma conclude così:

 “Gli esperti assicurano che una nuova “spagnola” non mieterà le vittime del 1918, ma oggi c’è un rischio in più, quello della rapidità della diffusione delle epidemie. Ottantacinque anni fa i virus si trasferivano da un continente all’altro sulle navi, oggi viaggiano in jet”.

E con quest’ultima considerazione riteniamo che il prof. Pierluigi Patriarca sia stato investito meritoriamente dell’onoreficenza Ligari d’argento dalla sua città di Sondrio nel 2019.

    

20.4.2020        A CURA DELL’EX OFFICINA DEL LIBRO