Anna Fistolera e Marina Salacrist che hanno dedicato e tutt’ora dedicano molto impegno all’analisi del pensiero della differenza e alla politica delle  relazioni propongono un articolato percorso di lettura del femminismo dal 1975 ad oggi.

 

Non crediamo che né il femminismo, né il ’68, siano (stati) solo il frutto di una modernizzazione, anche perché non abbiamo mai amato le chiavi di lettura meccaniciste ed economiciste della storia e della politica. Proprio dal disagio di fronte all’uso meccanico  di parole d’ordine e di analisi politiche dei compagni del ’68 iniziavano le nostre scontentezze: sentivamo che nello slancio politico non era compreso qualcosa di noi, il sentire ne veniva mozzato e rimosso.

Come è stato raccontato in alcune  testimonianze personali, quando alcuni obbiettivi politici  –  il divorzio, la difesa della legge sull’aborto, la libertà della contraccezione, temi peraltro delegati alle compagne e rubricati nella lista de “i giovani, le donne, i militari” – toccarono la nostra vita di donne e ci chiamarono a uno stile diverso di rapporto con “le masse” (femminili) cominciammo ad accorgerci di quello che mancava nel progetto del cambiamento rivoluzionario: la soggettività, la vita  delle donne. Soggettività che passo dopo passo divenne consapevolezza della propria differenza, non tanto e non solo  negli obiettivi  della politica, piuttosto nei suoi modi , nell’uso della parola pubblica, nella verbosità delle riunioni,  nell’ambiguità  nei confronti della violenza, in certo autoritarismo strisciante verso chi non era in linea e contraddiceva palesemente le origini del movimento. Colei che non aveva obbedito al padre non fu disposta ad obbedire ai compagni su modalità che riportavano sottilmente alla divisione del lavoro tradizionale dei ruoli nella famiglia.

 

La rottura delle compagne, imprevedibilmente trasversale agli schieramenti dei vari gruppi spesso aspramente in conflitto tra di loro, dispiegò nella scoperta della “sorellanza” tanti aspetti della differenza femminile; gli obbiettivi politici che sentivamo nostri, radicati nel personale, impermeabili all’attenzione maschile,  rompevano i ruoli nelle coppie, scompaginandone le relazioni interne, nel momento in cui analizzavano i temi  della sessualità e dei corpi. La cosiddetta rivoluzione sessuale intesa come liberalizzazione dei costumi sessuali non  bastava: spesso era il solo maschio a guadagnarci, mantenendo  rapporti di potere tradizionali, nel privato e nel pubblico, con l’incapacità dei compagni di mettersi in discussione, se non con risposte non più accettabili.

 

FORZA SORGIVA

 

Fu a partire da quella separazione che si cominciarono a elaborare, prima spontaneamente e poi sempre più in modo consapevole, alcune pratiche politiche (il femminismo non è un movimento sociale, è un movimento politico) che – pur in parte modificate dal susseguirsi delle generazioni e dai cambiamenti della realtà – sono tutt’oggi vive e attive nella sfida del presente.

Se il femminismo delle origini ha avuto bisogno, con la separazione, di elaborare pratiche e strumenti per una politica pensata soprattutto per affermare il senso dell’esistenza femminile e le condizioni della sua libertà, oggi, come ebbe a dire Angela Putino, filosofa e femminista napoletana, “quel che la donna pensa, è pensiero per tutti”, se non fosse che la nostra civiltà, in declino forse anche a causa della sua perdurante misoginia,  continua a non tenerne conto.

 

Il nostro punto di partenza  presentava certo un’analogia, un fondo comune con l’esperienza del 68,  in quanto entrambi mossi  da una potente forza sorgiva. In un certo senso il movimento del 68 può essere letto come l’aspirazione, da parte di una giovane generazione, di sottrarsi alla soggezione del potere, che ne definiva ruoli familiari e sociali, futuro, pensieri, desideri, condizioni di esistenza, per affermare la propria autonomia, ancora più radicalmente il proprio essere. Fu l’inizio di un processo di soggettivazione, che affermava il valore della propria esperienza, non più isolata e insignificante rispetto alla strutturazione sociale e politica, e lo fece attraverso un movimento collettivo spontaneo la cui forza veniva dal riconoscersi insieme.

Occorreva molto lavoro per la costruzione di una nuova soggettività. Ma per gli uomini fu più facile tornare a oggettivare obiettivi  politici che la facevano breve sui soggetti, soffermarvisi fu vissuto come un adagiarsi nel privato, nel soggettivo, piccolo-borghese.

 

PARTIRE DA SE’

 

Per le donne, invece, la necessità di scoprire e costruire una propria soggettività divenne una questione irrinunciabile; scoprire che una donna pensa e parla, e lo fa in modo differente, fu un evento che richiese un lungo seguito di impegno, invenzioni, verifiche. Il “partire da sè” nasceva-nasce- da due assunti fondamentali:

il primo, che ereditavamo anche dal 68, la convinzione che se la vita dei soggetti è pervasa in tutti i suoi aspetti dal discorso del potere, per potersene liberare occorre proprio partire da lì, dall’analisi di quello che il potere ha fatto di me (se pensiamo al cambiamento della condizione femminile proprio a cavallo degli anni ’60 e ’70 è intuitivo comprendere anche certe opere miliari come la Microfisica del potere di Foucault). Nei gruppi di autocoscienza, dove si praticava lo scambio di parola a partire da sé, si scopriva ciò che fino ad allora era stato invisibile: un dominio patito e taciuto, anzi  ignorato, chiedeva di essere nominato, non attraverso le parole di saperi già costituiti, ma mettendo in primo piano la propria esperienza, punto di incontro e di scambio  tra la vita singolare e la realtà esterna.

Il secondo assunto nasce invece dall’osservazione, dalle frequentazione, dallo scambio di parola tra le donne, e riguarda uno dei tratti fondamentali di quella che poi sarà nominata come “differenza femminile”. Nello scoprire che  l’esistenza libera femminile costituiva un vuoto, un impensato dentro la presunta neutralità dell’universalismo maschile, si prendeva atto che per una donna non c’è separazione tra pubblico e privato, interiorità e mondo; che il sentire, ma anche il pensare e  l’agire delle donne è un continuo andirivieni tra dentro e fuori. L’agire delle donne nasce per lo più da una dissonanza, da un urto, da una sconnessione tra il dentro e il fuori, cui le donne per lo più non rispondono con obiettivi oggettivabili, ma con una politica che è trasformazione di sé e, in stretto legame, della realtà fuori di sé.

E’ di questa comune, diffusa disposizione femminile che il  femminismo ha fatto la sua propria forma politica. (Luisa Muraro, Al mercato della felicità).

 

DAL PERSONALE AL POLITICO

 

Per questo il “partire da sé ” non è – non è mai stato – un crogiolarsi consolatorio nell’intimità, che separa dal mondo, ma il fondamento della politica delle donne, che è giusta ed efficace quando porta un guadagno di un di più di esistenza, un intensificarsi dell’esistenza, per sé e per il mondo. In questo senso è stata chiamata anche politica del desiderio. “Partire da sé ” del resto ha un doppio significato, quello di aver “origine da sé” e quello di “distaccarsi da sé” per coinvolgersi nella realtà più grande, popolata di altri soggetti, di accadimenti, di luoghi, di istituzioni. Niente ne è escluso nel presente che ognuna/o vive: un altro modo di dire quel “tutto è politica” che informò il ’68 e lo fece dilagare con la forza del desiderio in tutti i campi dell’esistenza pubblica (luoghi di lavoro, istituzioni della sanità, scuola, associazionismo).

 

E’ l’ascolto delle sconnessioni tra vita interna ed esterna, più che l’adesione a battaglie ideali che ci muove a un’altra azione politica, guidata da una fedeltà al proprio desiderio soggettivo che incontra    quello che della realtà via via si manifesta.  Una politica che si impegna su  quanto- ancora tanto e sempre di nuovo – ancora resta da fare per la libertà delle donne, ma anche in altri contesti dove le donne condividono con gli uomini una propria passione politica, nel rispondere ad un appello, ad un avvenimento, a una condizione che richiedono pensiero, presa di parola e azione.

 

LA SOGGETTIVITA’ RELAZIONALE – LA POLITICA DELLE RELAZIONI

 

Già nell’esperienza dei gruppi di autocoscienza, quello che veniva alla luce nei racconti dei vissuti di ciascuna non era l’io, un soggetto compatto, un’essenza differente e identitaria,  ma una sorta di “danza dell’io che si spostava da una all’altra, come fa sempre questo pronome quando più persone si parlano senza seguire un ordine pre-costituito; l’io passava da una all’altra senza ritrovare lo stesso posto, lo stesso ruolo, la stessa identità, perché da un passaggio all’altro le posizioni erano cambiate. Così invece di una pluralità di pensieri già pensati, è venuta la mobilità della mente  che si ha quando una persona smette di cercare la coincidenza con un già detto o un dover dire, e fa dell’esperienza il motore del pensiero” (L.Muraro, ibidem).

Se non si poteva contare su un già pensato e un già detto (allora, ma anche oggi, in ogni situazione quando si è davanti alla  necessità di fare piccole o grandi invenzioni nel rispondere alla realtà che non sopporta ripetizioni normalizzanti…), quello che ciascuna andava cercando per sé veniva trovato nelle parole ascoltate delle altre, nella fiducia e nel riconoscimento delle parole di un’altra. Differenza sessuale è divenuto il nome giusto del sé, non di una sostanza predefinita, né  di un molteplice indifferenziato e disperso, ma di una soggettività relazionale, caratterizzata dall’incarnazione singolare, dall’affettività, dal desiderio differente, dall’empatia.

 

Ci piace considerarlo anche un processo di rottura dell’io individuale e dell’identità fissa e stabile, su cui oggi si scrivono migliaia di libri e si spende anche molta retorica senza peraltro veder cessare certo narcisismo maschile. Per il femminismo è una pratica, che fu necessaria agli inizi, e che continua nell’oggi perché l’esperienza che ne facciamo, in ogni luogo in cui abbiamo relazioni vive con gli altri,  dà lo slancio per pensare in concreto e per agire di concerto con gli altri in modo creativo. In questi momenti, avvertiamo che anche l’io si mette in moto, sentiamo che interno ed esterno si stanno rispondendo, che dalle relazioni con gli altri riceviamo orientamento.

 

 AUTORITARISMO,  AUTORITA’, POTERE

 

In questo movimento di una soggettività relazionale, il pensiero femminista ha visto all’opera una figura quasi totalmente scomparsa dalla nostra civiltà, quella dell’autorità positiva.

Se il ’68 è stato tacciato di aver ucciso il padre simbolico, di un antiautoritarismo senza limiti e senza sbocchi, una scoperta del femminismo è stata la distinzione tra autoritarismo patriarcale (come ben sanno anche i nostri compagni di lotta di allora, trovatisi in rotta coi padri molto più che con le madri) e autorità riconosciuta nelle sembianze femminili. Rintracciando l’opera femminile nella rilettura della storia e della cultura, facendo riemergere le voci femminili misconosciute, si sono riportate alla luce e riattualizzate figure storiche, filosofe, letterate, oggi entrate a far parte della cultura non certo per merito dell’umile far loro posto da parte degli uomini.

Allo stesso modo si riconosceva autorità alle parole di un’altra donna quando la singola vi ritrovava quello che andava cercando per sé, soprattutto per darsi un’autorizzazione, al di fuori dell’universalismo maschile, per il  proprio essere, parlare e agire: pratica oramai diffusa tra le ragazze e tra madri e figlie.

L’autorità, così praticata, non crea soggezione, è mobile e circolare, esiste solo nella misura in cui la riconosciamo  e la viviamo come un’opportunità, o la assumiamo, l’accettiamo, sempre all’interno di una relazione dove nessuno la possiede di suo, non si incarcera nella gerarchia e nei rapporti di potere, anzi è una potente risorsa nello squilibrio dei rapporti di potere. Genera infatti forza e accrescimento delle nostre possibilità senza far ricorso ai rapporti di potere.

Forse proprio  perché presuppone l’accettazione della fragilità, della non autosufficienza dell’essere umano, della disparità tra simili, la figura dell’autorità gode di così poco credito nella nostra civiltà venendo confusa con l’autoritarismo e con il potere. Non si dà peso ai guasti che produce la perdita di autentica autorità nelle relazioni umane – che fu tema augurale della contestazione del ’68 – a cominciare dal disorientamento che provoca nella più chiara delle relazioni bisognose di autorità, quella educativa tra adulti e giovani generazioni.

Pensiamo che anche la riscoperta della risorsa pratica dell’autorità non valga solo per le donne, ma sia a disposizione di tutti, tanto più oggi che la democrazia delle maggioranze senza autorità e del popolo senza voce mostra tutta la sua fragilità politica.

 

TRASFORMAZIONE

 

Molti sono i luoghi di impegno pubblico oggi frequentati particolarmente e per la maggior parte dalle donne alla ricerca qui ed ora, nel presente che si vive, di un’azione di senso, che rovesci l’ordine delle cose e del discorso corrente e dunque trasformativa. Facciamo qualche esempio:

– la lotta perché i beni comuni (terra, acqua in primis) ritornino comuni: obiettivo fondamentale in tempi in cui si vede bene il limite dell’individualismo della società neoliberista. Ma più che di ritorno a una astratto principio  del bene pubblico come margine ai poteri privati e forti, più che un costrutto etico-morale, parola d’ordine reattiva a un passato di dissipazione individualistica dei beni ambientali,  l’unità insita nel concetto di bene comune è un insieme di relazioni , di comunità da costruire  (e non  originaria).

–     Strettamente legato, il tema, della cura (cura delle persone, cura del mondo) è stato ampiamente sviluppato dal movimento femminista: non relegare la cura  all’ambito privato-domestico, né farla coincidere con il lavoro  riproduttivo  delle donne, cui apparterrebbe come tratto quasi biologico, ma pratica che vale per tutti, uomini e donne, una pratica che esce dal domestico e dal familiare per informare molti dei  problemi della convivenza, delle relazioni tra gli uomini, gli uomini e le donne, gli uomini e l’ambiente. Assunta con radicalità, la pratica più “amorevole” tra tutte può diventare la più conflittuale (e  cosa sia conflitto va certamente approfondito, liberandoci dall’immaginario  novecentesco dello scontro frontale e sanguinoso) se non ci si accontenta di metterla accanto a  tutto il resto in una funzione aggiuntiva di riparazione, di rattoppo  dell’insensatezza in cui viviamo, ma  con l’ambizione che possa cambiare l’ordine simbolico dettato dall’economia. Dire che  il lavoro di riproduzione e manutenzione della esistenza umana sia componente strutturale di tutto il lavoro necessario per vivere è verità  che può trasformare la nozione stessa di lavoro produttivo, la pervasività del lavoro nelle nostre vite, l’astrattezza  dell’appellarsi al solo diritto,  le forme pubbliche di convivenza, le forme di penetrazione del potere economico nelle nostre vite.

–      Così come l’impegno di tante donne con il problema dell’immigrazione corre il rischio di un fare compassionevole, se non fondato su uno stare-con più che un fare-per: una politica della prossimità con chi, innervando  il nostro presente, indica un problema; stare con il dolore degli altri, migranti, ma anche cittadini  che hanno bisogno di sciogliere le loro paure, incrinare i sentimenti rigidi e contrapposti, le rappresentazioni mediatiche che semplificano una realtà complessa secondo simbolizzazioni di virilità guerresca care al patriarcato e  alla sua forma fascista. Nella nostra esperienza, l’impegno su questo terreno non è frutto  di un dover essere morale, né di buoni sentimenti, ma è innanzitutto apertura a ciò che la realtà ci presenta muovendo un urto nel nostro rapporto con il mondo, che occorre interrogare.  Sulle migrazioni cerchiamo di costruire uno spazio plurale  di riflessione e azione con altri, donne e uomini, italiani e stranieri, uno spazio di relazioni che cerca di restituire possibilità di vedere le cose altrimenti dagli slogan che imperversano e che impoveriscono la nostra comune umanità.

–       Un numero crescente di donne si impegna nel cosiddetto “sociale”, imprese del terzo settore o di volontariato che gestiscono,  in questo tempo in cui il welfare state è sempre più in disfacimento, molti servizi di assistenza alle persone o nella difesa di beni collettivi,  sostituendosi alle  funzioni dello Stato. Accade che  l’impegno nel “sociale” prenda il posto della politica, dove gli spazi di partecipazione si sono via via  sempre più ristretti.

Ma anche qui occorre segnare, pur nella apparente vicinanza di molte pratiche, una linea di confine, a volte anche conflittuale, una distanza da un impegno come “servizio”, che viene spesso fagocitato dalle istituzioni per i propri fini, per la pura riproduzione del sociale così com’è, da una professionalizzazione espropriante delle risposte ai bisogni, da una burocratizzazione che rende le persone scambiabili e “oggetti” di intervento, dove magari si soccorre il bisogno, ma non si lavora perché la vita e il senso della vita siano sempre intrecciati.

 

La differenza è nello stare, anche all’interno di queste imprese, mettendo al centro l’esperienza viva che si viene a creare spesso nello squilibrio tra ciò che è richiesto dal progetto e l’incontro delle soggettività coinvolte, nel farsi colpire dall’imprevisto, nell’attenzione allo scambio e alla modificazione di sé e del contesto che si incontra, nel metterlo in parola e nel farne un elemento fondamentale di orientamento per l’azione. Nel cercare dunque quello che è  autenticamente trasformativo – dunque politico – e non assoggettabile alle logiche vincenti nel sociale.

 

LA CENTRALITÀ DEL LINGUAGGIO COME QUESTIONE POLITICA

 

Nelle pratiche inventate dal femminismo fin dalle sue origini c’è un centro d’interesse, quello dell’attenzione alle parole e al linguaggio di cui disponiamo. Il pensiero sull’esperienza femminile ha messo a fuoco il potere normativo e performante del linguaggio del potere, che parlava delle donne e disponeva delle loro vite come oggetto di discorso.

La scoperta dell’impensato – la donna è soggetto e non più oggetto (maschile) di discorso – aprì perciò la ricerca, delle singole donne in relazione tra loro, “delle parole per dirlo”, come si diceva allora in una formula.

 

Dal mutismo e dall’irrilevanza in cui giacevano le vite femminili, dalla sproporzione dei rapporti di forza stabiliti dal potere, dentro e fuori casa, si usciva e si esce attraverso la risignificazione di quello che siamo, pensiamo, sappiamo, vogliamo, con le parole, cercate e pronunciate in prima persona, quelle giuste, aderenti all’esperienza, vicine alle cose e in sintonia con il corpo, che è sempre corpo e linguaggio insieme. Le parole giuste, cercate e trovate, non sono una rappresentazione, o una replica della nostra esperienza o della realtà, ma si riconoscono quando attivano un circolo e aprono a un di più.

La parola in prima persona è verità soggettiva, tutt’altro dall’opinione o da un relativismo nichilista, non fa capo a una qualche  legge morale, a un dover essere o principi assunti a guida, fa capo all’urto tra sé e il mondo, da cui nascono giustizia e e politica insieme, trovando parole di verità dall’interno e non solo parole d’ordine esterne, poiché dalla pura analisi dell’esterno, dal semplice funzionamento di un neoliberismo pervasivo, non deriva trasformazione (Chiara Zamboni).

Il modello di questo linguaggio, mai completamente estinto nella nostra vita adulta, è la lingua materna, con cui abbiamo imparato a parlare, dove due soggetti in relazione si scambiano e mettono in circolo parole, corpo, affettività e mondo, nel momento sorgivo della corrispondenza e insieme già mediazione tra segni e cose. Hanna Arendt, fine pensatrice della politica, a chi le chiese che cosa restava della Germania dopo la catastrofe del totalitarismo, rispose che restava la lingua materna. “La parola giusta ha il potere della realtà” scrive Mary Daly, ha il potere trasformativo della verità, nel senso che rende vero ciò di cui parla. Interrompe le narrazioni tossiche, buca i linguaggi, muove le trasformazioni soggettive. La parola giusta al momento giusto determina un cambiamento nel mondo, crea qualcosa, muove all’esistenza.

 

Non è, per le donne, un impegno da salotto, è un terreno su cui si gioca un conflitto, uno scontro,  come quello tra chi vede, per le donne, l’inclusione in un rapporto di parità con gli uomini e chi, ostinatamente, continua a vedere un’eccedenza della differenza femminile, un  essere né sopra né sotto gli uomini, o dentro una spartizione di potere, ma un essere su un altro piano. La differenza sessuale non consente che altri dicano chi sia una donna; una donna vuole guadagnarsi da sé il senso della propria differenza ed è impegnata a significarlo (L.Muraro).

Per questo una parte importante del femminismo italiano ha definito la propria politica come politica del simbolico, quella che si fa con pochissimi mezzi ma che può trasmettere e far circolare una potente energia creativa, a disposizione di tutti, come avvenne nella generazione del ’68 e che manca alla sinistra odierna. Di conseguenza preferiamo impegnarci in quei luoghi, in quei contesti e  con quelle forme che ci sembra assumano rilevanza simbolica per la trasformazione.

 

LIBERTA’

 

La parola femminile  si è dimostrata feconda, per chi l’ha voluta ascoltare, nella comprensione della politica istituzionale: pensiamo al fenomeno Berlusconi, che fu messo all’angolo dalla presa di parola pubblica di due donne, prima la moglie Veronica Lario e poi la escort D’Addario e dalla reazione nelle piazze di migliaia di donne che per ponevano l’accento su quella commistione, peraltro assai tradizionale, tra sesso e potere.

Non si poteva battere Berlusconi con le armi spuntate del moralismo , come la mettevano autorevoli esponenti di sinistra, ma mettendo in discussione il fatto che certi comportamenti privati rovesciati  senza ritegno – questa la novità, ma non il punto centrale – sulla scena pubblica,  inauguravano una politica spettacolarizzata secondo i modelli della  visibilità mediatica, del consenso giocato sull’equivoco della libertà individuale che utilizza i corpi femminili. (Ida Dominjianni, Il trucco). Tutte anticipazioni del populismo che si affida a un corpo, quello del capo, o capitano, figura simbolica ancora una volta maschile, salvatore vuoi della patria vuoi del partito.

Nel caso Berlusconi Il tutto avveniva facendo l’occhiolino a un equivoco: la libertà femminile intesa come libertà senza freni, quella esaltata dal neoliberismo , con la riduzione a merce di corpi e menti.  E’ stato un esempio paradigmatico di  esaltazione della presunta parità tra i sessi,  per piegare la forza del movimento femminista ai fini del potere politico: pratica peraltro che si ripete ciclicamente sotto varie forme nella sinistra, cosicché il movimento femminista per le medesime forze politiche ora è morto – come si scriveva non più tardi di due anni fa – ora è riscoperto e inglobato quasi fosse creatura propria, o staffetta dei propri obbiettivi mancati, ancora una volta mezzo per un fine differente.

 

La parola delle donne che agiscono per la propria libertà è infine esplosa, ricevendo ascolto, con il  movimento del MeToo, iniziato il giorno in cui alcune famose attrici di Hollywood hanno accusato uomini potenti di quel mondo di averle sottoposte a ricatti sessuali;  poi il movimento è rimbalzato  da un Paese all’altro, da un ambiente all’altro, con una presa di parola in prima persona, in un passa parola da donna a donna. Furono credute e ottennero l’allontanamento dalla scena pubblica di alcuni personaggi, ottennero soprattutto che  molti uomini (pochi in Italia, a dire il vero) rompessero la complicità con i loro simili, svelando, e incrinando insieme, la natura sessuale sottesa al contratto sociale moderno (Carol Pateman). E’ solo l’inizio, ma segnala che qualcosa è arrivato a maturazione e mostra la strada di come le donne, a partire da condizioni di umiliazione e di sofferenza, parlando pubblicamente con  credibilità e autorità, possono cambiare l’ordine delle cose e del discorso, e non solo sul terreno del corpo e della sessualità. Al MeToo è seguito infatti l’emergere di movimenti e di personalità femminili dirompenti sulla scena pubblica e politica.

 

OGGI

 

In questa nostra civiltà che declina, molte sono le responsabilità che attendono le donne quanto al dare vita e parola alla  differenza sessuale, azione alla propria libertà. Per rovesciare, senza spargimenti di sangue, i vecchi paradigmi neutri e universali che, nonostante il tracollo di cui stanno dando prova, continuano a imporsi con la forza del potere.

Non a caso chi sostiene neoliberismo e nazionalismo, narcisismi e identitarismi, tenta di rimettere in discussione le scelte e il destino dei corpi femminili e propone striscianti  e contraddittorie parole maschili sul corpo femminile (aborto, ma anche prostituzione con la riapertura delle case chiuse) e sulle sue prerogative (nuova ingiunzione a far figli in nome della tutela della razza, sacrificio e ritorno nel privato), parlando sopra e al posto dell’esperienza e della differenza femminile.

Ma c’è anche una visione (postberlusconiana?) corrente a sinistra,  che ancora riduce la libertà femminile a un modello neutro di uguaglianza, facendone una pura affermazione astratta di diritti. In nome di una libertà, vuoi delle cosidette sex workers, vuoi della maternità surrogata (per denaro o per dono? incapacità di distinguere tra desiderio di paternità e marchio di proprietà? Invidia della funzione generativa femminile?), parti della società e della politica si rendono  consenzienti a questo neutro scambio dei corpi, troppo somigliante allo scambio delle merci, dove i corpi femminili rischiano così di tornare dentro un mercato universale,  che non aiuta né gli uomini a mettere a tema la propria differenza fuori dallo schema proprietario, né le donne ad andare oltre a una  individualistica, neutra libertà.

 

RADICALITA’

 

Accettando la forma merce astratta come moneta base del rapporto tra donne e uomini,  crediamo ci si allontani da quella radicalità che si sperimentò  nel ’68.

A quale radicalità ci riferiamo?   Serve un’altra idea e un’altra pratica della soggettività, come pure aveva iniziato a mettere in scena il ’68. Serve un’altra immaginazione politica plurale contro l’individualismo narcisista; l’autorità della differenza femminile contro il potere sovrano del diritto  con  il suo appello alla legge come feticcio per una società  che, incapace di rifondare la politica, diviene autoritaria; serve una nuova differenza maschile.

 

La qualità dei rapporti tra uomini e donne, privati e pubblici, è elemento costitutivo della qualità di una società, fondamento della vita comune. Dunque questione politica, culturale e sociale da non potersi esaurire nella moltiplicazione di leggi e diritti, né nelle politiche di genere orientate a una mediazione al ribasso, neutralizzante la differenza. Va  messo in discussione il millenario immaginario della virilità ( con il suo carico storico di guerre, competizioni, sopraffazioni) disattivando paure e risentimenti, formando soggettività consce della fragilità e della dipendenza, ma anche delle proprie forze e potenzialità  (libertà relazionale)  con accettazione dei propri limiti non avendo il potere come misura.

Sentire anche che il mondo non è condannato, lavorare, nella fatica del quotidiano,  per il senso e per la felicità pubblica costruendo insieme agli uomini una sensibilità comune attraverso nuove forme dell’agire politico.

 

a cura di Anna Fistolera e Marina Salacrist