Marcello Storgato  saveriano della famiglia missionaria fondata da san Guido Conforti. 24 Aprile 2020  MissioneOggi 

Anche in Bangladesh siamo in isolamento sociale dal 26 marzo; lo chiamano Public Holiday – festa pubblica, anche se di festa non c’è niente per la gente comune. Scuole chiuse, fabbriche sbarrate e attività sospese; traffico e mezzi di trasporto bloccati, perfino il grande bordello di Daulatdia è stato chiuso. Dall’inizio del blocco i giornali non escono perché non possono essere consegnati agli abbonati (qui le “edicole” sono una cosa rara); il controllo sull’informazione è serrato.

Dopo i primi dieci giorni, si era sparsa la voce che le industrie tessili avrebbero riaperto da domenica 5 aprile, e molti operai e impiegati si sono messi in cammino con sacrifici notevoli per raggiungere il posto di lavoro. Una fake news; un tentativo di mettere il governo di fronte al fatto compiuto. Il blocco è stato prolungato fino al 9 aprile, poi esteso fino al 16, poi fino al 4 maggio. Si pensa che durerà per tutto il tempo del Ramadan, fino e oltre il 25 maggio. Le grandi celebrazioni nazionali in programma sono state annullate.

Il 7 aprile ci sono state due novità importanti: 1. Shut down, cioè il divieto di uscire dalle città e di entrarvi; 2. la chiusura di tutte le moschee per la preghiera islamica, da fare privatamente in casa. Un isolamento religioso senza precedenti in questo Stato islamico in cui quasi la totalità delle moschee sono sotto la guida di Jamat-Islam. Anche le chiese cristiane e i templi hindu hanno dovuto adeguarsi.

Dall’Italia al Bangladesh. Il coronavirus è arrivato in Bangladesh il 7 marzo dall’Italia, portato da due bengalesi tornati a casa. Dieci giorni dopo altri tre infetti sono rientrati. Di solito gli emigrati portano a casa soldi e regali per la famiglia; questa volta, invece… ed è subito iniziata la temuta pandemia. La verifica è stata condotta dall’Institute of Epidemiology IEDCR.

Altri 142 bangladeshi, rientrati dall’Italia il 15 marzo, sono stati messi in quarantena, tramutata in isolamento domiciliare, in seguito a una loro protesta. Si è saputo poi che già il 1° febbraio ben 312 bangladeshi erano a Wuhan (China) per ragioni di studio. A questi, purtroppo, non è stata prestata attenzione.

Sono numerosi i bangladeshi all’estero, nei paesi contagiati (Italia, Spagna, Regno Unito, Usa ecc.). In una nazione povera e sovrappopolata (170 milioni, di cui 20 milioni a Dhaka) su una superficie metà dell’Italia, il fenomeno migrazioni mira al benessere, ma condivide rischi e malanni.

Altro fattore a forte rischio è quello dei Rohingya: circa un milione di rifugiati nei campi al confine con il Myanmar. Per loro vige l’isolamento assoluto, e non trapela alcuna informazione.

La situazione reale. Non è possibile verificare la reale situazione virale nel paese. Gli unici dati forniti sono quelli “ufficiali”, diffusi attraverso conferenze stampa quotidiane e immessi su internet. In aprile c’è stata una forte impennata, portando il totale infetti a 4.689, i morti a 131. Di questi, oltre un terzo provengono da Dhaka e vicinanze.

La tendenza al raddoppio è attualmente ogni 4-5 giorni. Ma gli esperti lamentano che i test eseguiti finora sono insignificanti rispetto alla popolazione a rischio. E anche noi che viviamo vicini alla gente sentiamo notizie non rassicuranti, a cominciare dalla scarsità di strumenti necessari per la diagnosi, la cura e i posti letto disponibili. Il ricovero è praticamente impossibile: i dottori non sono reperibili; i Pronto Soccorsi non accettano casi sintomatici o sospetti, imponendo un rimbalzo tra ospedali finché morte avvenga, come è successo con la donna incinta della parrocchia vicina.

Il sentimento religioso. Il primo caso di morte per contagio è avvenuto il 18 marzo. Lo stesso giorno oltre 25mila musulmani, sfidando il rischio e il divieto, si sono radunati per il Khatme Shifa, la preghiera islamica per essere preservati dal contagio: “Allah non permetterà a un suo devoto il castigo del contagio”.  Il taglialegna hindu a cento metri da casa, mi ha detto: “Invece di piangere in TV, il vostro primo ministro avrebbe fatto meglio a essere più severo nel controllo dei contaminati!”. I cristiani di Kalinogor, invece, a mezzogiorno, si fermano là dove sono e pregano l’Angelus, guidati dal catechista al megafono. Una donna ha detto: “Se fossimo stati attenti a Dio come lo siamo per sopravvivere, la situazione non sarebbe così tragica e paurosa!”.

Anche le agenzie telefoniche richiamano gli obblighi di prevenzione: mantenere la distanza, lavare le mani, attenzione a starnuto e scatarramento, obbligo della maschera. Purtroppo, i fratelli musulmani osservanti si dispensano dall’indossare la maschera, mentre le loro donne sono da sempre – e ancor più ora – abituate a portare la maschera, che chiamano “burka”.

L’aiuto ai disperati. Il governo in varie riprese ha promesso aiuto e sostegno alla popolazione povera, che ha perso il lavoro per la chiusura forzata di attività ordinarie, ma la promessa non ha avuto seguito come invece meritava. Il 3 aprile alla TV è apparsa una lunga sfilata di politici ripresi mentre distribuivano un sacco di viveri alla gente. Nello stesso tempo si è saputo che centinaia di sacchi di riso erano stati deviati e sotterrati, per vantaggio personale. Il primo Ministro ha quindi emanato un’ordinanza – non per acciuffare i “ladri” e recuperare la merce – ma per interrompere la distribuzione razionata di viveri ai bisognosi.

Capita che persone facoltose mettano a disposizione dei poveri e disagiati una borsa di alimenti: riso, lenticchie, patate, cipolle, olio di semi, provvedendo a un pasto discreto per qualche giorno. Anche noi cerchiamo di testimoniare la Provvidenza distribuendo ai più disagiati queste “borse di cibo”. Ad esempio, nello slum Osthai para, a nord di Khulna, dove oltre 100 famiglie cristiane vivono in situazione precaria su terreno di musulmani e dove ogni forma di prevenzione è impossibile. Il laico Polash indossa la tuta e distribuisce centinaia di pasti ogni giorno nei portici della Stazione ferroviaria e del Porto fluviale di Dhaka.

L’impatto economico. I padri Riccardo e Giuà, che vivono in una zona a densità di industrie tessili, pur in isolamento, usano i social media per propagandare i metodi di prevenzione personale e ambientale (disinfezione, sanificazione, produzione di sapone ecc). “Dopo il contagio corona, la minaccia maggiore è morire di fame e stenti”.

L’impatto economico è gravissimo e incalcolabile. Già dai primi giorni dall’arrivo del virus, l’importazione di materiale tessile dalla Cina è diminuito drasticamente, mentre gli ordini per confezioni e consegna si sono via via annullati. Questo ha comportato la chiusura delle fabbriche e il licenziamento di milioni di operai e dipendenti in tutte le zone industriali. Tessile e farmaceutica sono da anni le due principali fonti di entrata per la nazione.

Di fame non si muore? Tutti i mini-bar che servivano tè, focacce, toast e spuntini, spesso allestiti su ruote ai lati delle strade, sono stati chiusi. I gestori sono andati in crisi: era la loro sola fonte di sopravvivenza. Anche il figlio della sig.ra Maria, nostra portinaia, ha dovuto chiudere per ragioni di isolamento. “Che facciamo, moriamo di fame?”, esclama piangendo. Un collega la consola con una battuta: “Di fame non si muore. Muore chi mangia troppo!”. Un Bihari della nostra Scuola Tecnica interviene: “I poveri sono aumentati a dismisura; i ricchi hanno già fatto provviste per i prossimi sei mesi; peggio stanno quelli del ceto medio, che si vergognano di tendere la mano!”.

Nella stessa situazione si trovano barbieri, meccanici, venditori ambulanti, taxisti di rishow e tricicli a pedali e a motore, gli addetti al trasporto di merci e passeggeri, e tutti i gestori di negozi piccoli e medi di ogni sorta: una lista interminabile di disoccupati, dall’8 marzo costretti a fare Holiday, vacanza. Isolati in casa o in un tugurio, senza una lira!

Gli unici a cercare di far festa sono i bambini, che fanno disperare le mamme. Come costringerli a stare in casa notte e giorno?  Non sono abituati a passare il tempo con i videogiochi. Caso mai, salgono sul tetto a giocare con gli aquiloni, in questi giorni ventosi di Boishak, primo mese dell’anno bengalese.

Piccoli sotterfugi. Nelle grandi città, dove il controllo è più serrato, è stato trovato un espediente: negozi aperti al mattino presto dalle 6 alle 9; poi chiusura; oppure, serranda chiusa e il gestore seduto a qualche metro, pronto a soddisfare le necessità del cliente.

Diversa è la vita di villaggio e campagna. Padre Lorenzo è incaricato della missione di Satkhira: il centro e 13 villaggi a notevole distanza. Parliamo della situazione della gente: “Chi vive nei villaggi in qualche modo se la cava, lavorando a giornata nei campi. In maggior difficoltà sono i poveri della città, dove tutto è chiuso e controllato. Tante persone e famiglie patiscono la fame”. Mangiano baki, cioè a credito, come si usava in Italia dopo la guerra mondiale: “Segni!”. Ma il troppo è troppo!

Padre Gabry è sorpreso del gran movimento al bazar di Bagachara. Ci sono giovani che corrono in bici su e giù per la strada principale senza uno scopo preciso. Sarebbe vietato, ma la polizia non interviene; quando lo fa, sono manganellate! Al bazar, solo uomini; alle donne è vietato uscire di casa. “Il giovedì però, davanti casa mia c’è una lunga fila di donne, soprattutto vedove anziane e giovani, venute a prendere il piccolo aiuto che sono solito dare”. Finora nessun contagio. Speriamo che continui così.

I Munda, etnia deportata dall’India al tempo coloniale, si prestano come manodopera nei campi circostanti e così riescono a tirare avanti. Il disagio maggiore è per i gruppi di uomini che sono andati lontano a lavorare nelle fornaci o nelle risaie. Terminato il contratto, devono tornare a casa; con i mezzi di trasporto bloccati, devono percorrere vie alternative con mezzi di fortuna. A ogni blocco occorre sganciare per continuare il viaggio fino a casa.

Il nostro disagio maggiore. Tutti si domandano, anche noi: Quanto durerà ancora questa pandemia che ci tiene in isolamento, lock downshut down, forzatamente disoccupati e a stomaco vuoto? E anche dopo, riusciremo a recuperare il lavoro e soddisfare tutti i debiti contratti? Allah Bhorsha! Dio è la nostra speranza!

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TESTIMONIANZA DI DON RENATO ROSSO Padre dicoesano che ha trascorso gran parte dell sua vita in Bangladesh lavorando con le fasce più deboli ed emarginate, tra cui gruppi di ROM

Lo scorso anno un centinaio di studenti ha iniziato la campagna del bicchiere pulito con dei posters davanti ai mini-bar del thè e davanti ai ristoranti spiegando di lavare i bicchieri con acqua bollente per evitare la trasmissione di malattie specialmente la TB (oggi il coronavirus).

 L ‘iniziativa, cominciata a Khulna e a Rajshai è andata anche bene, ma di questo passo ci vogliono 10 anni per raggiungere tutto il paese, mentre una disposizione, un decreto del governo, risolve in 5 minuti a costo zero.

La soluzione è quindi  la seguente: prima di bere il thè nei mini-bar di strada, far lavare il bicchiere, sempre, in acqua bollente e allo stesso modo, nei ristoranti, i bicchieri dell’acqua disposti sui tavoli devono essere sempre precedentemente lavati o immersi in acqua bollente. 

Non adempiere questo dovere é molto grave ed é catalogato come “reato per procurata epidemia colposa”. In Italia in questo periodo casi come questi vengono puniti fino a 3000 euro di multa e a 12 anni di reclusione (anche se poi di fatto nessuno sarà andato in prigione)  Non é um consiglio di igiene, ma un dovere civile per difendere la societá bengalese.

Il nostro gruppo di volontari ha fatto arrivare 35000 messaggi telefonici nella capitale e raggiunto oltre 2000  NGO (Onlus) invitando ciascuno a fare la sua parte. Si è lavorato con posters davanti ai locali pubblici del thè e ristoranti, adesivi su autobus e rickshaw, si è dato avviso con megafoni in strada e da ultimo Whatsapp, Facebook. Abbiamo pure trovato chi cercava solo qualche vantaggio da questa situazione. Quando iniziammo la campagna del “bicchiere pulito” pensavamo di lavorarci un 10 anni, ma l’arrivo del Coronavirus non ce lo permette più.

Purtroppo abbiamo poco tempo per cambiare una cultura. Lavare i bicchieri in acqua fredda, in tempi normali, può anche essere sufficiente, perchè abbiamo gli anticorpi necessari, ma non abbiamo gli anticorpi per il coronavirus. È difficile cambiare una cultura in poche settimane ma  siamo forzati a farlo.    

L’autorità del Governo come proibisce alle auto di transitare con il semaforo rosso o in un senso inverso può anche proibire ai rivenditori di the e ai gestori dei ristoranti di non lavare i bicchieri con acqua fredda, ma usare assolutamente l’acqua bollente e la stessa polizia può controllare  gli abusi degli indisciplinati.

Questo problema è condiviso da oltre 100 paesi del mondo (ovviamente i paesi poveri),  ma nessuno ne parla perchè non è un problema dell’America nè dell’Europa. I paesi ricchi infatti, nei ristoranti, da anni hanno risolto con la tecnologia  il modo di lavare e sterilizzare tutte le stoviglie .Per essi il problema non esiste, ma per noi esiste in maniera prioritaria.Già 100 anni fa al tempo della Spagnola che lasciò 50 milioni di morti, si lavavano i bicchieri in acqua bollente. Sono passati 100 anni E noi ce ne siamo dimenticati.

E’ necessario  con urgenza l’intervento del governo.

Petizione all’autorità competente

Insieme ad altre istituzioni e cittadini chiediamo che il governo protegga la popolazione da un problema grave che esiste in Bangladesh. I bicchieri del thè dei mini-bar sulla strada e i bicchieri  dell’acqua, nei ristoranti, lavati con acqua fredda sono diventati un grande rischio per la trasmissione del Coronavirus. Se stare vicino agli altri, è diventato pericoloso, molto più pericoloso bere a un bicchiere usato da un altro se questo bicchiere non è stato lavato in acqua bollente..

Chi è inadempiente commette un reato per procurata epidemia colposa.

Chiediamo pertanto al governo un intervento tempestivo avvisando la popolazione che oltre a lavare le mani, rispettare la distanza dalle persone e fare attenzione alla tosse e allo starnuto, chiedere che prima di bere a un bicchiere, in un locale pubblico, venga assolutamente lavato con acqua bollente o venga sostituito da un “usa e getta” appena si riprenderanno le attività normali.