Dedico la morte di Luis “Lucho” Sepúlveda a tutti coloro che da febbraio vanno ripetendo che la pandemia in corso è poco più di una influenza. Che i deceduti sono tutti persone anziane e malandate. Che sarebbero “andati” comunque.

Lo so, nella mia beffarda dedica dovrei aggiungere le centinaia di migliaia di morti in tutto il mondo, e quelli che al computer sono stati già calcolati come morituri. Ma il fatto è che la morte di questo grande scrittore, generoso militante, intellettuale valoroso, mi turba in modo particolare. Scrisse Sepúlveda, mancato il 16 aprile 2020, dopo due mesi di lotta contro Covid 19, “Sono morto tante volte, se è per questo. La prima quando il Cile fu stravolto dal colpo di Stato; la seconda quando mi arrestarono; la terza quando imprigionarono Carmen, mia moglie; la quarta quando mi tolsero il passaporto. Potrei continuare”. Ora è morto un’ultima volta, e i fascisti di tutto il mondo, il canagliume fascista che si sta ringalluzzendo in Latinoamerica come in Europa, dal Cile all’Ucraina, potranno gongolare, perché Lucho era un militante antifascista, un orgoglioso comunista, e un convinto sostenitore di una visione del mondo radicalmente antitetica a quella nazional-fascista, a quella gerarchica e razzista, a quella sopraffattoria e colonialista.

Si schierò sempre dalla parte giusta, fu un combattente di ogni buona causa, e perciò Pinochet e i suoi sgherri lo imprigionarono, torturarono e poi imprigionarono Carmen Yáñez, poetessa, compagna, la sua seconda moglie, tuttora sotto terapia contro il maledetto virus, al quale la resistenza di Luis è stata lunga ma infine vana.

E ora che l’autore dell’indimenticabile “Gabbianella” (un libro per bambini di quelli che i “grandi” potevano apprezzare alla stessa stregua) o del meraviglioso libro “per grandi”, “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, sua opera prima che oggi possiamo leggere anche come un poetico omaggio a quei “vecchi” che la risposta eugenetica alla crisi del Coronavirus vorrebbe condannare a priori a togliersi dai piedi in modo spiccio e vantaggioso per chi resta. Guerrigliero coraggioso nella clandestinità in Bolivia come in Nicaragua, iscritto al Partito Comunista Cileno, Sepulveda fu un appassionato sostenitore del governo di Salvador Allende – di cui non si stancò mai di tessere le lodi, mentre qui in Europa tanta sinistra straparlava del “modesto riformismo” di quello straordinario medico-presidente … – e poi di difenderne la memoria, ovunque andasse, ramingo ambasciatore di cultura e di giustizia attraverso i suoi scritti e nei tanti incontri, uno dei quali, l’ultimo in Andalusia, per ricevere un premio, gli è stato fatale.

Ma l’azione fondamentale di Sepúlveda – scrittore, poeta, viaggiatore, conferenziere, giornalista, sceneggiatore – è stata quella di credere nel potere della letteratura, nella forza dirompente della cultura, nei messaggi che essa può dare universalmente, un messaggio contro la brutalità del potere, contro l’intolleranza, o peggio la falsa tolleranza, dei suoi ideologi, contro il silenzio di chi è connivente o di chi da vittima finisce per farsi complice, in nome di un quieto vivere che la storia ha dimostrato impossibile.

 

Di quella impossibilità Luis, privato della libertà e brutalizzato sotto Pinochet, egli che vide tanti suoi amici e compagni uccisi, o costretti, se erano fortunati, all’esilio, ha avuto prova diretta, durissima e dolorosa prova. E ora, in un rarefatto silenzio, nella distrazione del mondo impegnato a combattere con armi spesso spuntate contro il virus, ha ceduto, ha abbandonato la lotta, e ci ha lasciato l’enorme vuoto che può procurare la perdita di una personalità tanto forte, uno degli ultimi grandi narratori della nostra epoca. E insieme un autentico “intellettuale” nel senso gramsciano e sartriano, un individuo che “abbraccia interamente la sua epoca”, e, costi quel che costi, non si limita a riempire pagine bianche con la sua penna, o tele con i pennelli, e così via, ma si getta nell’agone della vita, pienamente, anche quando, o soprattutto, quando la vita è un drammatico mulinello di lotta e sofferenza.

 

Se ha ancora senso evocare la figura dell’intellettuale, ebbene con Luis Sepúlveda Calfucura (questo il suo nome completo) se ne va un intellettuale autentico, e non si può che piangere con la sua morte, anche la perdita di uno di quei rappresentanti di quel genere di intellettuali, oggi sempre più rarefatti nella nostra società feroce e classista, pronta a piegare la testa, mentre i suoi pretesi maîtres à penser pensano soltanto al mercato.

 

Uno dei suoi libri, una raccolta di scritti vari, si intitola “Il potere dei sogni”. E tutta la produzione letteraria giornalistica ma anche dell’azione politica di Sepulveda potrebbe intitolarsi così, alla indomita fede nel sogno. Sogno è l’uguaglianza tra gli individui, e tra le nazioni. Sogno è la giustizia sociale. Sogno la fine del colonialismo e dell’imperialismo. Sogno è un mondo dove gli umani imparino a rispettare la natura e a convivere con essa, invece di violentarla quotidianamente. Sogno è il trionfo del socialismo, come un sistema che, solo, può impedire lo scivolamento dell’umanità nella barbarie.