“La rivoluzione? Arriva al massimo fino al Lecco. Non più su”

 

Nel 1968 avevo trent’anni. Un’età non più giovanile che influì nel vivere
con un mix di entusiasmo e di riflessività gli anni della contestazione. Lavoravo
presso la tipografia di famiglia. Un lavoro a cui ero stato destinato
dall’infanzia e per il quale mi avevano spedito a Torino a tredici anni per
frequentare la prestigiosa scuola di grafica della Fiat. Comunque nel ’67
mi ero iscritto, dopo la coraggiosa decisione di prendermi una maturità
liceale da privatista, alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.
Mi ero così ritrovato a fare la spola tra Sondrio, dove ancora lavoravo, e
Milano, tra la democristianissima Valtellina e Architettura di Milano, uno
dei più vivaci incubatoi di una contestazione che, nonostante l’aggettivo
di “studentesco”, iniziava a trovare riscontri anche nelle fabbriche, entro
il modello di produzione fordista. In facoltà il movimento non si frantumò
in gruppi ideologizzati, anche se partecipai attivamente a contrastare
tentativi di ingresso egemonico del Movimento Studentesco della Statale,
che per imporre la sua egemonia in facoltà non andava certo per il sottile:
fui processato, minacciato e costretto a lasciare la mia stanza. Un brutto
episodio, un tentativo di intimidazione che respingemmo. Il movimento
a Architettura potè così concentrarsi prevalentemente sulla critica riguardante i contenuti disciplinari. Nel ’71, dopo la laurea, ebbi un incarico di
docenza e partecipai al gruppo dei “Docenti subalterni” con riferimenti
agli indirizzi di Alberto Magnaghi, fondatore della Società territorialista
italiana. L’esperienza che andavo accumulando cercai di riversarla in Valtellina:
con alcuni studenti avviai alcune analisi sulle trasformazioni che
avvenivano in provincia di Sondrio con particolare riferimento al rapporto
tra economia, urbanistica e ambiente. Proponemmo questa innovativa
lettura delle trasformazioni del paesaggio e della società valtellinese in
due mostre, SO70 e SO71, che allestimmo a Sondrio. Oltre ad una larga
partecipazione di pubblico le mostre ebbero un significativo impatto nel
dibattito politico e culturale provinciale.
Nei miei viaggi in treno tra Milano e Sondrio mi capitava di ironizzare
tra me e me: “La rivoluzione arriva al massimo fino a Lecco, non più su”,
ma in verità cominciavo ad avere qualche dubbio sulle prospettive del movimento, tanto più che dentro alcune frange extraparlamentari cominciava
ad affacciarsi la tesi delle lotta armata. è in questa temperie che scelsi
di operare prevalentemente a Sondrio, luogo dove peraltro non avevo
mai smesso veramente di intervenire. Nel 1965 con Ivan Fassin avevamo
fondato il gruppo “Cultura e società” con l’idea di contribuire ad uno
svecchiamento del panorama culturale cittadino. Avevo poi collaborato
con il Centro Rosselli. Nato nella prima metà degli anni ’60, avendo come
connotato identitario l’antifascismo, il Centro ebbe un ruolo importante
anche negli anni della contestazione. Sul ruolo e le vicende di questo
punto di aggregazione ho scritto un libro che ho presentato il 13 marzo
dell’anno scorso a Sondrio con un positivo riscontro per la numerosa
presenza di pubblico e per i riconoscimenti positivi per il lavoro svolto.
Nella transizione tra gli anni ’60 e i ’70, pur non essendomi mai iscritto a
gruppi politici, avevo mantenuto una interlocuzione continua con quanto
si muoveva in provincia, partecipando a incontri, discussioni, gruppi di
lavoro nei quali, dopo la fase spontaneistica del ’68, il problema del “che
fare?” era all’ordine del giorno. Nel ’70 e nel ’71 la discussione vedeva coinvolta
un’area piuttosto larga dalla quale sarebbero poi emerse opzioni
politiche diverse. Con l’esclusione del Movimento Studentesco che si stava
già organizzando per conto suo avendo come riferimento la Statale di
Milano e il suo leader Capanna, da quelle riunioni emersero orientamenti
diversi: una parte si sarebbe collegata ad Avanguardia Operaia dopo essere
transitata per il collettivo Lenin, un’altra avrebbe seguito il percorso
Manifesto-Pdup, la terza si sarebbe avvicinata al PCI. Io appartenevo a
questo terzo gruppo.
Nel 1972, valutando aspetti di involuzione dei movimenti e l’astrattezza
di un’ ipotesi rivoluzionaria, mi iscrissi al PCI. Con me entrò un
certo numero di compagni attivi nel capoluogo. Con lo scioglimento
del PSIUP confluì pure un bel gruppo di chiavennaschi. Questi ingressi
determinarono un certo rinnovamento nel PCI provinciale, che ancora
viveva condizioni di isolamento tipiche di una “zona bianca” periferica.
In quel periodo i legami del PCI con la popolazione erano dovuti soprattutto
alla forte pratica sociale di un gruppo di militanti, ma poi il partito
valtellinese era rimasto privo di quadri, tanto che la segreteria era ancora
retta da un funzionario inviato dal centro. Il passaggio dallo spontaneismo
sessantottino alla cosiddetta disciplina organizzativa e operativa del
PCI non fu facile, ma nel 1975 fui eletto segretario provinciale, accettando
quindi un ruolo “funzionariale”. Sull’onda della vicenda nazionale,
il PCI avanzò anche in provincia di Sondrio, prima nelle amministrative del ’75, poi con il balzo in avanti delle politiche del ’76 che portarono il
partito a quasi il 20% e alla elezione a Roma di Pucciarini. Intanto si stava
avviando il periodo del cosiddetto compromesso storico con i problemi
di una fase politica estremamente complicata. A livello locale cercai di
imprimere un certo dinamismo all’azione del partito, soprattutto sulle
questioni territoriali e ambientali, trovandomi a gestire qualche momento
delicato, come nel caso dell’operazione speculativa sui bagni di Bormio,
dove dovetti scontrarmi anche con certi interessi del partito nazionale.
Fui eletto deputato nel ’79 e cominciai la mia battaglia parlamentare con
un libro bianco contro la zona franca di Livigno, ma di Livigno non si
poteva parlare male, per non offendere le banche. Questo argomento era
tabù anche nel PCI.
Una vicenda indicativa del clima degli anni ’70 può essere questa: nel
1973 il Centro Rosselli produsse una mostra contro la guerra nel Vietnam
e tappezzammo la città di Sondrio con un manifesto rosso, da me disegnato,
riprodotto nel mio libro sul Rosselli e in questo volume a pagina
71, che raffigurava il misero popolo vietnamita sotto le bombe degli aerei
americani. Per questo fui oggetto di una incriminazione da parte del Tribunale
di Sondrio. Ma era il 1979, ero parlamentare e la Giunta e l’Assemblea
dei deputati negarono l’autorizzazione a procedere nei miei confronti
riconoscendo la legittimità di quella iniziativa e dei contenuti espressi.
Dopo la mancata elezione nella tornata successiva fui nel gruppo di urbanisti
che forniva consulenze al sindaco Valenzi alle prese con i problemi
di Napoli dopo il terremoto. Furono tre anni estremamente impegnativi.
Al mio ritorno in valle rimasi iscritto al PCI fino al 1987, l’anno dell’alluvione.
Poi mi dedicai alla professione e all’insegnamento universitario,
ma in tutti questi anni non è mai venuto meno il mio impegno politico:
dato il mio legame con questa valle, il suo paesaggio e le sue montagne la
scelta che ho fatto è stata quella di praticare un’attività coerente con gli
stimoli del ’68 e con l’evidenziarsi della questione ambientale.