Compagni e “crocioni”

 

Quando il ’68 bussò alle porte anche dalle nostre parti, io ero già in politica da qualche anno. M’ero infatti iscritto alla FGCI ai tempi della V Ginnasio e, provenendo da una famiglia della Sondrio-bene, rappresentavo per la federazione di via Nazario Sauro un segnale bene augurante. Fui accolto e coccolato e ricambiai dando qualche contributo alla vita del partito, allora piuttosto ripiegato sulla ripetizione burocratica delle direttive del centro. Fui mandato alle Frattocchie per un corso di formazione e partecipai a Bologna ad un congresso della federazione giovanile, ma intorno spiravano altri venti ed io cominciai a nutrire interesse per altre proposte. Fui angelo del fango nella Firenze sconvolta dall’alluvione del novembre ’66; nel ’67, quando ero in collegio a Pavia, nei weekend bazzicavo gli ambienti di Brera, dove conobbi comunisti ben più vivaci di quelli nostrani ed esperienze eterodosse, come quelle che, anticipando temi e spirito del ’68, gravitavano attorno ad innovative letture critiche della società capitalistica e avanzavano istanze nuove rispetto ad un certo immobilismo che mi sembrava caratterizzare il corpaccione del partito. Fui, ad esempio, a Barbonia City, il campeggio di capelloni e ribelli, che si era insediato in via Ripamonti a Milano e che venne sgomberato nel giugno del ’67, dopo una campagna di demonizzazione da parte dei quotidiani milanesi. Lì ritrovai Giona, un compagno di scuola alle medie, con cui avremmo poi fatto delle cose insieme a Sondrio. Intanto, anche nel partito si muoveva qualcosa. C’erano, ad esempio, gli echi di una dialettica interna che si era esplicitata nel congresso del ’66 con la divisione tra una sinistra più attenta alle novità del neocapitalismo e una destra ancora attardata alla lettura della società italiana in chiave di arretratezza. Ne discendevano scelte politiche divergenti, ma tutto veniva poi sapientemente riassorbito in un unanimismo di facciata. Anch’io cominciai a manifestare una certa insoddisfazione per la politica del partito, che intanto, sia a livello nazionale e a maggior ragione in una provincia periferica come la nostra, era stato colto un po’ alla sprovvista dall’ondata della contestazione studentesca dell’autunno-inverno ’67 e dalle lotte della primavera ’68. Il PCI faticava a cogliere il nuovo che saliva, anche se una serie di segnali testimoniava un passaggio di fase, sia a livello operaio sia nel mondo giovanile: stavano cambiando i comportamenti, gli stili di vita, gli atteggiamenti, il modo di percepirsi come generazione. Non ci fu però nulla di significativo a livello locale, che potesse essere visto come l’inizio di un movimento, questo dal punto di osservazione di uno studente di terza liceo già abbastanza politicizzato come ero io. Intanto gli universitari e le universitarie valtellinesi che frequentavano gli atenei in subbuglio, avevano cominciato a riportare a Sondrio le istanze di partecipazione politica cui avevano aderito e si ebbe la nascita delle prime aggregazioni informali. Con questi gruppi entrai in contatto, ma solo verso la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno.

Nel luglio del ’68 si chiudeva per me la parentesi liceale: venivo graziato alla maturità e terminava per me un tormentato trapasso dall’adolescenza alla vita adulta, erano stati anni nei quali il ribellismo e il rifiuto di ogni forma di autorità si erano tradotti in risultati scolastici disastrosi, una situazione familiare pesante, una irrisolta difficoltà nelle relazioni. Dalla contestazione della scuola non era scaturito nessun serio percorso alternativo: i libri che tanto mi affascinavano, a partire dai volumi della Biblioteca marxista degli Editori Riuniti che trovavo in federazione, ingiallivano sugli scaffali, senza che fossero strumento di analisi per capire. Prevaleva l’esigenza del fare, dell’esserci, del non perdere l’attimo, del divenire protagonisti in quel mondo in movimento che tumultuava intorno a noi. Nei recessi della memoria riemergono tre episodi di quella seconda metà del ’68.

In una notte di agosto con un compagno di Ponte, Cucù Borinelli, sostituimmo la bandiera dell’Europa che svettava su un pennone in piazza Garibaldi con un drappo rosso. Era un’operazione “illegale” e noi agivamo acquattati dietro una siepe, ma l’ammaina-bandiera risultò parecchio complicato: il congegno meccanico produceva sinistri cigolii, c’erano compagnie ad alto tasso etilico che andavano avanti e indietro dalla piazza schiamazzando in direzione del nightclub “La Rupe Tarpea”, ogni tanto passava qualche Giulia in perlustrazione. Una bravata senza dubbio. L’episodio è però indicatore di un contesto: si era nei giorni dell’intervento in Cecoslovacchia delle truppe del Patto di Varsavia. Non che avessimo issato il vessillo vermiglio perché si fosse “carristi”, posizione largamente egemone nella base comunista, al di là del dissenso espresso dai vertici del partito. Noi giovani cominciavamo a realizzare che il modello sovietico non funzionava, ma su Praga fummo reticenti. Allora si era convinti che si fosse entrati in una fase di grande avanzata del socialismo nel mondo e la vicenda tragica della fine del “socialismo dal volto umano” veniva letta dentro questa cornice interpretativa: l’intervento sovietico era certo un errore, ma tutto sarebbe stato recuperato dentro una visione “mitologica” di derivazione terzinternazionalista per la quale le forze del progresso avanzavano inesorabili, sospinte dalle leggi della storia. Lasciammo sola Praga e questo fu un errore di tutta la sinistra in tutte le sue declinazioni.

Il secondo e il terzo episodio sono anch’essi passaggi rilevanti nel percorso che mi avrebbe portato l’anno successivo a uscire dal PCI e a imboccare la strada della sinistra extraparlamentare. Nell’autunno cominciai a frequentare i “crocioni”, e cioè un cenacolo di contestatori che si riuniva in un locale contiguo all’asilo delle suore di via Lavizzari e che gravitava intorno alla figura di don Abramo Levi. Ci andai alcune volte e vi trovai un ambiente vivace, anche se piuttosto distante dalla mia esperienza comunista, e infatti la mia frequentazione ad un certo punto cessò, anche se non ricordo circostanze e motivi dell’abbandono. Si trattava, infatti, di un’aggregazione di giovani che si erano sganciati dal moderatismo cattolico e che stavano esplorando nuove vie. Fui con loro per un volantinaggio al Fossati in occasione dello sciopero generale per le pensioni del 14 novembre. Per dar prova della nostra vicinanza alla classe, c’eravamo appostati ai cancelli prima del cambio turno delle 6 del mattino e avevamo distribuito il nostro ciclostilato, fieri di aver condiviso con operai e operaie un orario per noi studenti alquanto inusuale. Cresciuto in una famiglia di sgobboni, dallo spirito vagamente calvinista che aleggiava in casa avevo tratto l’idea che il lavoro, soprattutto se manuale e se faticoso tanto meglio, meritasse un grande rispetto. E per me il lavoro era quello delle mani callose che vedevo all’opera nel frutteto paterno. L’incontro con gli operai in carne ed ossa, quella massa che entrava ed usciva dai cancelli del Fossati, mi segnò profondamente. Del resto l’incontro con la fabbrica fu importante per tanti della mia generazione: non si capirebbe altrimenti la centralità che la classe operaia ebbe per tutti gli anni ’70 nell’immaginario collettivo, nelle elaborazioni teoretiche, nelle pratiche di movimento e nelle forme della comunicazione.

Frequentavano quel giro alcuni universitari di sociologia di Trento (Silvia Motta, Luigi Bordoni e qualche altro), facoltà alla quale mi iscrissi anch’io, compiendo una scelta che mi appariva conseguente e coerente con il mio percorso politico. Prima dello sciopero generale del 14 novembre, con i “cattolici” ero stato a Trento per la contestazione che il movimento stava preparando in occasione delle cerimonie per il 50° della vittoria nella guerra del ’15-’18, presente l’allora presidente Saragat. C’eravamo andati con il pulmino color cioccolato delle suore guidato da Elia Viganò. Avemmo modo in quell’occasione di conoscere la durezza della reazione del popolo. Il nostro tentativo di disturbare il corteo presidenziale venne recepito come una vera e propria provocazione messa in scena da austriacanti nemici della patria e fummo inseguiti da una massa di alpini inferociti, probabilmente alticci, fino all’Università, dove fummo trattenuti in stato di assedio per qualche ora. L’ambiente studentesco di Trento non mi entusiasmò, forse perché poco comunicante con l’ambiente cittadino retrostante, situazione che solo più tardi si sarebbe in parte sbloccata con l’avvio delle lotte operaie, quando il rapporto fu almeno in parte ricucito. Fu così che invece di spostarmi a Trento, preferii fare il pendolare e mantenere un collegamento con quanto succedeva a Sondrio.

Fu così, con un piede a Sondrio e con l’altro a Trento, che mi avvicinai alla fine dell’annus mirabilis, anno che fu segnato nella sua parte terminale dall’eccidio di Avola del dicembre. Con il suo lascito di sangue quanto successo nel borgo siciliano era il biglietto da visita che la classe dirigente presentava alla marea montante delle lotte sociali. Seguirono altri fatti e misfatti fino a Piazza Fontana, esattamente un anno dopo, quando i poteri forti diedero inizio alla strategia della tensione.