Un’esperienza fondamentale e fondante

Poco più di cinquant’anni fa, nell’ottobre del ’67, con un certo anticipo sul calendario, iniziava il Sessantotto. Ricordo che la notizia dell’uccisione del Che venne diffusa nel corso di un’assemblea che si teneva all’aperto, essendo stata l’Università (nella fattispecie la Cattolica) sigillata dal senato accademico e fatta presidiare dalla polizia. Ci si era, pertanto, riuniti nel piazzale antistante, ironicamente proprio sotto la caserma della celere dove, qualche mese più tardi, saremmo stati trascinati per venire massacrati a calci e manganellate, a conclusione della prima battaglia urbana a Milano, la seconda in Italia dopo quella romana di Valle Giulia.
Quel tardo pomeriggio il cielo era, proprio come canta Guccini, “già bruno”. In seguito assunse tinte molto più cupe, ma noi stavamo maturando il proposito – che negli anni si trasformò in preciso impegno – che fosse nostro diritto e dovere assumerci la responsabilità dell’organizzazione della società, italiana e mondiale, affrontando e combattendo storture, ingiustizie e sopraffazioni.
Da lì cominciammo un percorso che si sviluppò tra contraddizioni e conflitti – spesso drammatici – e che, in definitiva, contrassegnò e diresse tutta la nostra vita. Ci portò a guardare – ed a volte anche andare – lontano (nelle favelas del Brasile, ad esempio), ma anche a scorgere ed accostarci all’escluso vicino: emarginati, immigrati, carcerati…
Ma veniamo all’oggi. Vicino, lontano; globale, locale sono indicazioni già di per sé estremamente relative che ora hanno assunto un valore del tutto nuovo. A me sembra sempre più evidente che un’entità come lo Stato (lo Stato nazione della tradizione europea, per altro non estendibile al resto del mondo) abbia concluso il suo tempo. Non è qui il caso di ripercorrerne il ciclo storico, basta sottolineare come non sussistano più le condizioni che ne hanno determinato la nascita. Non c’è né controllo delle risorse, né capacità di esazione fiscale (che ne è stato l’elemento fondamentale e fondante), né omogeneità culturale. Ci sono, invece, da un lato società complesse e disomogenee, dall’altro poteri globali, sovrannazionali, oscuri ed incontrollabili dietro lo schermo di istituzioni (come l’ONU e la stessa UE) inefficaci nella loro impotente e vacua ipertrofia burocratica.
Non si tratta di un cambiamento di poco conto: trasformazioni storiche di questa portata si accompagno a grande confusione, profonda insicurezza, reazioni incontrollate e contraddittorie. I sovranismi, ad esempio. Con queste reazioni, per lo più scomposte, occorre fare i conti. Che non vuol dire rimuoverle o demonizzarle, quanto piuttosto capirle e cercare forme e possibilità di dialogo, per quanto possano risultare difficili ed apparire sterili.
La crisi della politica, che è tanto culturale quanto istituzionale, è sotto gli occhi di tutti. Si tratta di una crisi mondiale (questa è ormai sempre più chiaramente la dimensione di ogni fenomeno che abbia qualche rilievo), che si manifesta con forme e specificità diverse nei vari paesi: Brasile ed Italia – per citare quelli che più direttamente mi coinvolgono – ma anche Stati Uniti, Inghilterra, Russia, Turchia, Spagna…, oltre ai vari stati africani, asiatici e dell’America Latina.
Crisi della democrazia e dei diritti, per non parlare della coesione sociale e dell’idea stessa di una società fondata su principî condivisi e su positive relazioni di reciprocità. Crisi dei fondamenti.
Da qui occorre (ri)cominciare. Niente è mai acquisito una volte per tutte. Ciò che non si nutre, non si cura, rafforza e sviluppa, si atrofizza, decade e muore.
Questo mi riporta al Sessantotto, donde ebbe origine l’idea – faticosamente delineatasi in mezzo a molteplici contraddizioni ed errori – che occorresse agire direttamente nella società, azzerando e rifiutando mediazioni e rappresentanze. Idea che in me si è rafforzata e meglio articolata grazie all’esperienza delle Comunità di base e della pratica dei movimenti sociali brasiliani. Che stanno certo attraversando una crisi drammatica, in gran parte conseguente a quello che – a mio avviso – è stato il più grave degli errori dei governi di Lula e del PT, che hanno prosciugato movimenti e comunità, sottraendo loro i militanti migliori per cooptarli negli apparati istituzionali, ma che tentano di rispondere alla devastante situazione attuale rafforzando la presa di coscienza e la mobilitazione dal basso, nei quartieri, nelle periferie, nel campo, per ricostruire una capacità di lotta, di elaborazione e di progettazione che possa esprimere desideri, aspirazioni e proposte, attuando quella cidadania (che solo approssimativamente possiamo tradurre con “cittadinanza attiva”) che rappresenta il solo, autentico contenuto e l’unica reale forma di esercizio della democrazia.
È qui che, a mio avviso, occorrerebbe inserire l’azione di un gruppo (quanto più possibile vario e differenziato) di persone animate dal desiderio (volontà, spinta, necessità…) di esprimere, realizzare e suscitare forme di partecipazione democratica, mediante l’esercizio attivo e libero della cittadinanza.
Nella confusa caligine dell’oggi, in cui appare così difficile distinguere non solo malefici giganti (le multinazionali, gli oligopoli, le grandi istituzioni transnazionali…) da innocenti mulini a vento (che, magari, tanto innocenti non sono e, ad una indagine più attenta, possono rivelarsi strumenti se non travestimenti dei precedenti: non è detto che Sancho Panza vedesse meglio di Don Chisciotte…) ma anche (e soprattutto) i nemici dagli amici, gli avversari dai potenziali alleati, io credo dovrebbe essere essenziale dare centralità all’ambito locale. Chiedendosi – come fanno i nostri amici brasiliani – non solo “quale mondo vogliamo”, ma anche – e come primo indispensabile e concreto passo – quale comunità vogliamo costruire, quali relazioni (anche di potere) vogliamo instaurare, qui ed ora, tra noi che condividiamo un territorio, con le sue risorse, potenzialità e vincoli. Animare e ricostruire le comunità come tessuti vitali di relazioni. Che non possono essere quelle antiche, tradizionali, perché completamente diversi sono i soggetti e del tutto differente il contesto. Comunità intessute di alterità che vanno riconosciute, capite ed aiutate a capirsi, affinché si identifichino come soggetti, plurali e variegati ma solidali. Che abbiano gli strumenti, culturali e materiali, per autodeterminarsi, autopromuoversi, autogovernarsi.
Si tratta, innanzi tutto, di lavorare su alcune categorie e nozioni fondamentali: identità, cittadinanza, riconoscimento, universalità dei diritti.
È, deve essere, un lavoro politico-culturale, da svolgersi dialogando con le persone con le quali (e non solo per le quali) ci impegniamo e che intendiamo stimolare ad essere protagoniste delle proprie lotte, compiendo insieme un cammino di rivendicazione e di (ri)conquista dei nostri comuni diritti.
Se non funzionano più le categorie di stato e di nazione, va chiaramente rivista la nozione di cittadinanza, superando le – assolutamente anacronistiche – contrapposizioni tra autoctoni e stranieri, indigeni ed immigrati, regolari ed irregolari, profughi, richiedenti asilo (accettati o rifiutati), migranti economici, ambientali o semplicemente mossi dal desiderio di sperimentare e realizzare un progetto di vita.
Ciò comporta una parallela e profonda revisione del sistema delle norme e dei diritti. Trasformazioni certo complesse, che richiedono un’azione ed una definizione politico-istituzionale, ma che, come è sempre avvenuto, possono realizzarsi solo se ed in quanto siano maturate nella società (cioè nelle comunità locali che ne rappresentano l’articolazione concreta) una sensibilità ed una consapevolezza adeguate a promuoverle e rivendicarle.

Francesco Racchetti

Sondrio, 8 giugno 2018