LE RADICI E LE ALI

 

Sono nato in Svizzera nel 1959 per una di quelle bizzarre combinazioni della storia legate a grandi eventi come le guerre. Ecco il contesto. Mio padre, in fuga dopo l’8 settembre, per non farsi deportare in Germania dai crucchi, si era rifugiato nella vicina Confederazione. Internato in un campo, aveva poi lavorato in una azienda, facendo il falegname, mestiere che già faceva a Tirano prima di essere soldato nelle guerre del Duce. A guerra finita, era stato assunto nella ditta dove lavorava e s’era poi sposato con una bella svizzerotta del Canton Giura. Mia mamma aveva fatto una scelta coraggiosa, perché la decisione di convolare a nozze con un italiano rappresentava nella Svizzera di allora l’equivalente di accasarsi con un “neghèr” nella Valtellina salviniana di oggi: come minimo una disgrazia che piove in casa tra capo e collo. Dopo qualche intoppo nella fase d’avvio, era poi stato accolto con simpatia, forse perché, grande lavoratore, aveva brillantemente superato l’esame numero uno necessario per essere parte della famiglia e accedere alla comunità: quello in etica protestante del lavoro.

Nel ’63, era tornato in Italia e aveva messo su una falegnameria a Madonna di Tirano. La mamma ebbe parecchie difficoltà ad adattarsi al nuovo ambiente, lei che era abituata a tutt’altro modo di vivere. Le pesava in modo particolare la condizione della donna, qui sottoposta alle pressioni di strutture ancora patriarcali, là già molto indipendente. Mio padre, invece, dismessa ogni modernità acquisita oltralpe, era tornato ad essere un tiranese secondo tradizione: un po’ bigotto e autoritario quanto basta. Al momento del rientro in Italia, io ero il terzo figlio; il primo, Gabriele, era nato nel ’47, poi era seguito nel ’54 Pierre. Il quarto, e ultimo, sarebbe nato in Italia qualche anno dopo. I due fratelli maggiori ebbero un ruolo fondamentale per il mio ’68 e, per molti versi, fu grazie alla loro azione di rottura delle consuetudini sociali e familiari, che trovai la porta già mezza spalancata. quando adolescente rivendicai maggiori spazi si libertà. Ma la battaglia fu dura e lo scontro in famiglia aspro. Eccone, di seguito, alcuni passaggi.

Quando ci trasferimmo a Tirano, Gabriele era già un mezzo “zucchino” e, quando, fu chiamato alla visita di leva, pensò bene di tornarsene da dove era venuto, andò a Ginevra e cominciò a lavorare in una tipografia. Ogni tanto tornava, ma doveva stare molto attento a non farsi beccare come renitente. Capitava che ci incontrassimo a Campocologno, proprio per evitare possibili grane. A Ginevra era diventato uno svizzerotto fatto e finito, perfettamente integrato nel sistema elvetico, non più l’italiano guardato dall’alto in basso perché portatore dei vizi della sua razza: lo sputare per terra, il dare poca confidenza al sapone, il vociare e il gesticolare. Poi, ad un certo punto, non si sa per quali motivi, aveva subito una completa metamorfosi: era diventato un antisistema, portando nella critica alla società quella radicalità tutta elvetica, le cui radici sono forse da cercare nel calvinismo del ‘500 ginevrino. Un giorno si presentò a casa con i capelli lunghi fino a metà schiena, per di più aveva un Maggiolone pieno di adesivi altamente sovversivi, tra i quali ne spiccava uno particolarmente truculento: morte alla borghesia. Con mio padre fu scontro tremendo, senza tanti preamboli. Fu lui che diede fuoco alle polveri della rivolta in casa e noi fummo subito dalla sua parte. Intanto, forse intuendo l’arrivo di eventi di portata eccezionale, s’era trasferito a Parigi, giusto in tempo per partecipare al Maggio francese, del quale ovviamente ci parlò in termini entusiastici. Lui via, la fiaccola della rivolta in casa era tenuta alta da mio fratello Pierre e lo scontro generazionale divenne ancora più pesante, anche perché padre e figlio dovevano convivere sotto lo stesso tetto.

Mentre questo succedeva a casa mia, il virus della contestazione si diffondeva tra giovani e giovanissimi anche da noi, ma soprattutto a Madonna, dove si innestava su una tradizione di sinistra più forte che nella vicina Tirano. Pierre divenne verso la metà degli anni ’70 una specie di icona, forse perché all’occorrenza sapeva far andare le mani. Non che fosse un attaccabrighe o che si atteggiasse a bulletto per tirare su di sé l’attenzione delle ragazze, semplicemente era uno che si faceva rispettare. Una volta menò un contrabbandiere di Villa che l’aveva sfidato per una stupidata e, dopo di allora, era temuto, tanto che Madonna era a quei tempi area fasci-free: nessuno dei fascistelli dei dintorni osava metterci piede, neanche la banda del Bagulùn di S. Giacomo, perché il territorio era ben presidiato.

I miei due fratelli maggiori ebbero poi una vita piuttosto movimentata seguendo un itinerario nel quale le idee del Sessantotto erano ben rappresentate. Il maggiore, dopo alcuni anni a Parigi, lasciò la capitale per la campagna del Limosino, dove si sistemò in una fattoria. Divenne successivamente infermiere e per qualche anno praticò questa professione in Africa. Pierre dal canto suo si laureò in agraria, ebbe un incarico per insegnare questa disciplina in Perù e fu poi in giro per il terzo e per il quarto mondo come consulente per progetti di sviluppo in ambito agricolo. Da parecchi anni è in Ecuador, dove adesso si sta dedicando al progetto di una fabbrica di cioccolato.

La mia è stata una vita più tranquilla, anche se negli anni ’70 ho fatto anch’io la mia parte. Noi del gruppo di Madonna eravamo militanti o simpatizzanti di Avanguardia Operaia, ma avevamo rapporti anche con i giovani di sinistra dei paesi vicini: a Tirano c’erano anche quelli del Movimento Studentesco, a Villa c’era una sezione del PCI abbastanza presente, a Bianzone i comunisti erano fortissimi e alle elezioni erano sempre il primo partito, avevamo rapporti anche con i collettivi della zona sopra Tirano. Le occasioni di stare assieme erano abbastanza frequenti, anche se io avevo il tempo abbastanza misurato perché avevo deciso di continuare con la falegnameria paterna e, sotto l’ autorevole direzione paterna, stavo iniziando ad apprendere il mestiere. Ero un appassionato di musica e fui anche a Parco Lambro per tutti e tre i festival del proletariato giovanile perché lì di musica ce ne era tanta e di qualità. Le prime due edizioni furono uno sballo in senso positivo, mentre in quella del ’76 avvertii un cambiamento di clima: c’era ad esempio una sensibile circolazione di droga pesante, mentre nelle prime due edizioni era al massimo questione di spinelli. In un certo senso il cambiamento avvertito in quell’occasione era un segnale premonitore di una fase nuova che avrebbe di lì a poco investito anche periferie come la nostra. Era finito il tempo della grande contestazione: meno gente in giro, meno partecipazione, più qualunquismo, più conformismo. Ne è un esempio il mio fratello più giovane, Silvio, che dagli anni ’70 fu solo lambito. Anch’io ero cambiato insieme con i tempi: nuovi interessi, come la partecipazione al progetto per la valorizzazione dello xenodochio di S. Romerio, oltre ovviamente al lavoro e più tardi alla famiglia: mi sposai nel e poi seguirono due figlie, oggi già sopra i venti.

Quando ripenso al Sessantotto, mi torna in mente lo scontro tra mio padre e noi figli, in particolare Pierre che era quello con la testa più dura. Si trattò di uno scontro tra Titani nel quale nessuno voleva cedere. Eppure alla fine l’ondata di rinnovamento del ’68 riuscì a smuovere anche tipi coriacei come mio papà, che peraltro diede prova di grande intelligenza, perché ad un certo punto cominciò ad aprirsi mettendo implicitamente in dubbio il valore assoluto delle sue idee e della sua mentalità. Il cambiamento non fu tutto frutto del suo sacco, in gran parte ci fu costretto dalla forza della critica che noi giovani gli muovevamo. Quel conflitto potrebbe essere la metafora del passaggio dalla Valtellina della tradizione e dell’oscurantismo ad una Valtellina più aperta e più libera. E’ tutto da capire se più avanti non si sia poi determinata una inversione di tendenza, che può mettere in forse quelle conquiste. Questa, mi sembra, è la domanda dell’oggi. Non vorrei trovarmi a dover rimpiangere “Elvezia e il suo governo”, io che ho sempre vissuto con fastidio quei nostri convalligiani che in baita innalzano al vento bandiere svizzere.