L’inizio è stato: “La Cina è vicina”

 

Sono nato nel 1948 in una famiglia di piccoli agricoltori di Bianzone dove l’esistenza per tutti, compreso i bambini, era scandita dal duro lavoro in campagna. Ho studiato perché a scuola me la cavavo bene, come del resto mia sorella prima di me. Già alla fine della terza media ho cominciato a portare il sacco, una vita durissima che però mi evitava il lavoro in campagna. Mi sentivo così più vicino al mondo dei grandi, vedevo dei soldi, andavano in famiglia ma mi facevano sentire importante.

I miei genitori provenivano da famiglie antifasciste militanti.

Il nonno paterno era tornato dall’Australia (tutti i fratelli erano emigrati già alla fine dell’800 e mio nonno era tornato per accudire i genitori anziani) ed era militante socialista già prima della grande guerra. E’ stato anche sindaco di Bianzone prima di morire di spagnola nel ’18. Il nonno materno, emigrante stagionale in Svizzera, come gli altri antifascisti del paese non ha mai preso la tessera del fascio, non ha fatto battezzare i figli e si contrapponeva apertamente alle camicie nere del paese.

I miei genitori, che avevano subito duramente le conseguenze della guerra, non hanno mai preso la tessera della Democrazia Cristiana, o, più semplicemente, quella della Coldiretti, nemmeno si arruffianavano con i preti, ma avevano contatti con gli esponenti del Partito Socialista di allora, da Della Briotta a Merizzi, che ricordo frequentavano la famiglia; in quegli anni questo significava essere esclusi da tutti i vantaggi del clientelismo, l’unica reale possibilità di cambiamento di allora.

L’ambiente familiare e l’ambiente del contrabbando portavano a sviluppare un forte senso di insofferenza e di voglia di ribellione alle regole sociali.

La scuola, che per fortuna ho continuato a frequentare senza particolari problemi di rendimento fino al diploma malgrado tutto (l’otto in condotta era assicurato quando l’insegnate ti trovava a dormire in classe, ma dopo una notte passata a portare il sacco poteva capitare), con le sue regole classiste e le proposte culturali che sentivo istintivamente estranee, non poteva che acuire il disagio.

Le organizzazioni sportive non erano da meno; a parte il calcio nelle associazioni di paese, correvo per LA FIAMMA di Sondrio, di cui non avevo ben chiara la collateralità all’ambiente fascista, fino a quando, durante una trasferta al sud Italia, arrivati a Milano in Piazza Duomo mentre sfilava una manifestazione, nelle mani dei dirigenti sono comparsi pugnali e manganelli.

Intanto -siamo arrivati al ’67- si cominciava a percepire un nuovo clima: ricordo che a Bianzone per la prima volta non era stata celebrata la festa dei coscritti con tutto l’armamentario retorico di circostanza; ricordo che sul muro della scuola, a due passi da casa mia, era apparsa una grande scritta: LA CINA E’ VICINA, rimasta indelebile per tanti anni; ricordo di aver partecipato a una manifestazione di protesta per la situazione della SS 38 a Colico organizzata da chissà chi. Ma gli sbocchi erano confusi. Il mito era il bandito Cimino a Roma o Luciano Lutring a Milano.

Dopo il diploma di ragioniere ho continuato a portare il sacco per più di un anno. Mi aspettava un’altra istituzione totalizzante: il servizio di leva obbligatorio che, nel suo anacronismo e nella sua evidente stupidità, mi ha impegnato dall’estate del ’68 all’autunno del ’69.

Intanto mi ero iscritto all’Università: Economia alla Cattolica, più popolare e meno costosa della Bocconi. Sono riuscito a dare gli esami necessari per accedere al presalario e, terminato il servizio militare, subito mi sono trasferito a Milano, lavorando all’inizio in un collegio di preti a Monza e poi trovando un alloggio a Milano nelle case di ringhiera di via Caminadella, vicinissimo alla Cattolica.

In Cattolica già non c’erano più Capanna, Spada e Pero, espulsi. Il movimento non si era riorganizzato e i fascisti alzavano la testa. Già i primi giorni sono stato coinvolto in uno scontro: picchetto degli studenti all’ingresso, arrivano gli squadristi, con altri vado a cercare delle sedie all’interno dell’Università da usare come difesa, intanto i fascisti sfondano, io arrivo con le sedie e me li trovo lanciati di corsa lungo i corridoi dei chiostri, comincio a far girare le sedie che avevo in mano e li faccio battere in ritirata.

Ma l’età dell’innocenza è finita subito, con la strage di Piazza Fontana e l’uccisione di Pino Pinelli, il quotidiano Lotta Continua che intitolava a caratteri cubitali “LA STRAGE E’ DI STATO”.

Ho partecipato da subito al Collettivo Politico della Cattolica, autonomo ma collaterale a Lotta Continua, mentre altre organizzazioni come Avanguardia Operaia, il Movimento Studentesco, Servire il Popolo, ecc. non erano presenti in modo organizzato.

C’era poi il Bar Magenta, le assemblee, le lotte di qua e di là, i picchetti, i volantinaggi, le manifestazioni, le barricate, la libreria a fianco della Cattolica dove i libri erano gratis per i compagni, i cinema d’essai, più tardi la Palazzina Liberty. Si viveva fino a tarda notte e si andava a letto incrociando i lavoratori che iniziavano i primi turni. C’era tanta musica ma tutto era messo in discussione: il concerto dei Led Zeppelin nel 71 al Vigorelli è stato uno dei momenti più difficili del rapporto tra musica, nuove generazioni, politica e frange sociali. E dire che quella volta avevo pagato il biglietto.

Ogni tanto lavoravo per arrotondare il presalario. In estate andavo a lavorare in Germania, nelle fabbriche o nei servizi, entrando in contatto con i compagni delle Comuni ma anche, ad esempio, con gli studenti antifranchisti spagnoli, con qualche capatina ad Amsterdam piuttosto che a Parigi.

Comunque alla fine del secondo anno ero in regola con gli esami, recuperando anche quelli rimasti dal primo anno di militare.

Frequentavo l’ambiente degli studenti Valtellinesi a Milano, sia quelli della Cattolica che della Statale, con qualche puntata a Pavia, spesso simpatizzanti del movimento e a volte anche militanti, ma di Lotta Continua ricordo solo Mariella Della Patrona, che, se non sbaglio, studiava a Pavia. Tra coloro che hanno raccontato il loro 68 ho frequentato a Milano solo Luciana, che peraltro mi cita nel suo scritto.

L’impegno politico diventava sempre di più un modo di vivere. In Cattolica ero stato arrestato durante la contestazione di un esame a Magistero e mi ero beccato anche una denuncia per l’espulsione di un fascista presente alle lezioni di Giurisprudenza. E’ interessante rileggere gli appelli alla nostra scarcerazione sottoscritti da intellettuali come Giorgio Bocca o Padre Camillo De Piaz, ancora di più gli atti processuali, con avvocati difensori come Spazzali e Gentile (il Soccorso Rosso aveva il meglio) e con giudici come Saverio Borrelli: noi eravamo dalla parte giusta!.

Lotta continua mi andava bene perché non era un movimento ideologico, la gerarchia era informale, a mio parere era avanti anni luce rispetto agli altri movimenti.

C’erano ancora le dittature agonizzanti in Portogallo, Grecia e Spagna, ma anche il Cile di Allende con il MIR, le Black Panters, l’IRA, i baschi. Lotta continua aveva dei contatti molto stretti con questi movimenti, sembrava che ci fosse la forza di cambiare il mondo. In realtà è arrivato il Golpe in Cile, ma l’anno dopo, nel 74, anche la rivoluzione dei Garofani, con tutta Lotta Continua che si è trasferita l’estate successiva a Lisbona. Ci sono andato anch’io.

Mi è stato chiesto come mi vedesse la gente a Bianzone: ricordo una volta in cui una donna del paese, incrociandomi per strada, si fece il segno della croce; ricordo che mio padre aveva litigato con il gestore dell’unica edicola di Bianzone, che aveva esposto con in bella vista gli articoli di stampa sul mio arresto; ricordo una lettera di mia madre, preoccupata non avendo più mie notizie da mesi.

Intanto davanti alla casa dei miei genitori si piazzava sempre più spesso un’auto dei carabinieri, rimaneva li per ore e poi se ne andava. Ho saputo molto anni dopo, da un informatore dei carabinieri di Tirano, di essere stato seguito e pedinato perlomeno fino agli anni ’80 su incarico del M.llo Zazzo comandante della stazione e, a quanto pare, legato al movimento fascista del MAR di Carlo Fumagalli. Non voglio pensare cosa avessero in mente nei miei confronti, per fortuna ne sono uscito senza danni.

Al quarto anno di università mi sono trovato in arretrato di esami, ho deciso di ributtarmi nello studio (in Cattolica non c’è mai stato il 6 politico) così mi sono laureato nei termini.

Nel frattempo già mi ero messo con la mia attuale moglie, scappata da casa dato il divieto del padre, operaio comunista di una grande fabbrica, di frequentarmi. Ci eravamo anche incrociati alle stesse manifestazioni, lo ricordo in tuta blu della Pirelli rigidamente inquadrato nella fila del corteo, ma non accettava gli “extraparlamentari”.

Non potevo continuare a vivere nella mansarda della casa di ringhiera, Roberta voleva una vita normale. Dopo regolare concorso pubblico a Roma, sono stato assunto alla Banca Nazionale del Lavoro di Milano (4.000 dipendenti a Roma, 2.000 a Milano), in sei mesi ho dato gli ultimi esami e discusso la tesi, ho messo su casa con Roberta, sono stato eletto tra i quattro del Consiglio d’azienda, avendo dalla nostra parte i lavoratori ma contro i sindacati ufficiali, in primo luogo la CGIL.

Ma non avevamo sbocchi, con lo scioglimento di Lotta Continua, il movimento del ’77 e la distruzione del palco su cui parlava il segretario nazionale della CGIL Luciano Lama a Roma, la scelta della lotta armata da parte di tanti compagni, l’ultima manifestazione a cui ho partecipato è stata quella del 12 marzo ’77 a Roma dopo la morte di Pier Francesco Lorusso, nostro militante ucciso a Bologna da un carabiniere. Ero andato in modo organizzato con Lotta Continua , ma non è stato facile uscirne con la polizia che sparava ad altezza d’uomo e gli autonomi anch’essi armati.

Ho lasciato la banca e sono venuto a insegnare a Sondrio nell’ottobre del 77. L’anno dopo ha avuto il trasferimento anche Roberta e ci siamo accasati a Tirano, già con un figlio da crescere.

Che dire di quegli anni? Malgrado tutto, al netto dei tanti compagni che hanno pagato duramente e dei quali purtroppo forse ci siamo dimenticati, ce la siamo cavata, a differenza degli studenti di Città del Messico, dei compagni cileni o dei militanti argentini, tanto per restare a quegli anni.

Io mi sono trovato, dall’estate del “77 per oltre 15 anni, ad affrontare una dura malattia che poi ho lentamente lasciato alle spalle. Forse è stato il prezzo che ho pagato per quegli anni, vissuti intensamente e che mi hanno dato molto.

Mi è rimasta la foto scattata, del tutto casualmente, da Uliano Lukas a Piazzale Accursio nel 1973, mentre corro con la bandiera rossa insieme ad altri compagni. Ancora adesso mi piace correre libero e, quando posso, sventolare la mia bandiera.

Per il resto non mi dilungo in bilanci.

P.S. Non potevo dire nulla sul 68 in Valtellina, se non serve allo scopo facciamo che l’ho scritta per me stesso.

9 dicembre 2018