“Ci sentivamo padroni del mondo (quasi)”

 

Ero una bambina, quando sentii alla radio per la prima volta la canzone “Dio è morto” di Guccini. Rimasi quasi scioccata, fraintendendone il significato. Ma nell’estate del ’67 la canzone veniva spesso trasmessa, riuscii così a comprendere le parole e a capire che alcuni comportamenti e scelte dell’uomo possono essere altamente distruttivi: fu la mia prima canzone “di formazione”.

Nel 1971 cominciai a frequentare le Magistrali di Sondrio ed ebbi modo di constatare quanto di vero ci fosse nel detto che “L’aria della città rende liberi”. Venivo da Corteno Golgi, il paese appena al di là del passo dell’Aprica, famoso per aver dato i natali a Camillo Golgi, premio Nobel per la medicina nel 1906, per la pecora detta appunto di Corteno e per il Cùz, un piatto a base di carne ovina, che per i camuni è un’eccellenza da nouvelle cuisine e per quasi tutti gli altri una pietanza che, quando gliene descrivi la preparazione, suscita una smorfia di disgusto. Ma mi piace ricordare che a Corteno nacque e visse fino ai vent’anni Pietro Chiodi, grande filosofo e comandante partigiano, che compare come “Monti” nel libro Il partigiano Johnny di Fenoglio. Anche il padre di Camillo Berneri proveniva da Corteno e lo stesso Camillo tornava nella casa dei nonni in vacanza. Molti ragazzi del paese morirono durante la Resistenza (erano tutti “Fazzoletti verdi”). Che Storia, per un piccolo paesino stretto tra le montagne, dove attualmente Salvini impera!

Arrivare a Sondrio era uno stress: prendevo la corriera al mattino molto presto e al ritorno, tanto per gradire, dovevo percorrere anche un paio di chilometri a piedi. Ma ne valeva la pena, perché Sondrio rispetto a Corteno offriva molte più occasioni per una giovane animata dal desiderio di fare nuove esperienze e conoscenze. Innanzitutto c’erano la scuola, la possibilità di stringere nuove amicizie, il movimento e le lotte. Le Magistrali, insieme all’ITI, erano la Berkeley del movimento sondriese: l’anno prima c’erano state le prime occupazioni della storia dell’istituzione scolastica in provincia di Sondrio. Infatti c’era una notevole massa studentesca attraversata da un inedito spirito di rivolta, formata per gran parte da ragazzi di estrazione proletaria. Nonostante gli studenti avessero già alzato la testa, c’era ancora molto da fare.

Nel gruppo degli insegnanti democratici c’era senz’altro il prof. Tavolaro che con la sua pipa era un po’ il nostro presidente Pertini. Una volta, nonostante il rispetto e la soggezione che mi incuteva, in un tema sulle disuguaglianze presenti nel mondo, ricorsi alla sua figura per rappresentare il maschio italiano – politicizzato e di sinistra- nel suo rapporto con il genere femminile. Dopo aver parlato di Olympe de Gouges, nella mia conclusione descrissi un tipo che con la pipa in bocca leggeva l’Avanti, spaparanzato in poltrona e servito di tutto punto dalla moglie. Mi presi un bel “non classificabile”, che era un modo per segnalarmi che ero andata fuori tema, secondo la sua opinione, senza però penalizzarmi con un brutto voto. Ovviamente io non accettai di buon grado il giudizio, ma rimasi zitta, convinta di avere ragione, eccome! Una parte degli insegnanti era aperta e già facevano il loro ingresso, portando una ventata di aria nuova, alcuni supplenti che avevano fatto il ’67-’68. Una parte importante del corpo docente era, però, ancora propenso ad una didattica autoritaria: alcuni professori non accettavano assolutamente che si proponessero assemblee di classe nelle loro ore, un’altra insegnante ci trattava dall’alto in basso e ci considerava, forse per la nostra posizione nella scala sociale, una specie di umanità dimezzata. Leggevo con avidità la rivista “L’Espresso” e non mi capacitavo di come l’Italia fosse finita in mano ad Andreotti e amici.

Per la mia condizione di pendolare non potevo partecipare più di tanto alle attività politico-organizzative del movimento, ma non mi feci mancare nessuna manifestazione, sia che riguardasse questioni di scuola oppure qualche tema politico più generale, primo tra tutti l’antifascismo, che in quegli anni era diventato un sentimento di massa. Ricordo la manifestazione del ’73 contro Almirante, che si concluse con la proiezione al Pedretti di un documentario sul fascismo: ovazioni accoglievano le sequenze con i soldati dell’Armata rossa all’attacco, bordate di fischi e urla erano invece riservate alle immagini dei fascisti e dei loro capi. Imponente fu anche la risposta alla strage di Brescia l’anno dopo. La nostra irrequietezza sociale era alimentata ulteriormente dalle numerose rivendicazioni degli operai del Fossati, coi quali sentivamo il “dovere” di solidarizzare, partecipando al loro fianco nelle manifestazioni di piazza, sentendoci in tal modo arricchiti di esperienze salutari. In queste occasioni di lotta si creava una socialità ricca di confronti e di relazioni. Conobbi i fratelli Gregorini, in particolare Flavio, e i Gemmi (senza però avere rapporti di amicizia con questi ultimi); il più piccolo, Maurizio, con le sue qualità di oratore era un vero e proprio trascinatore! Tra i due gruppi che si contendevano la direzione del movimento, io simpatizzavo per Avanguardia Operaia, che mi sembrava, almeno nel nome e nelle intenzioni, più legata al mondo del lavoro, dal quale mi sentivo di venire anch’io. Ero l’ultima di dodici figli e non siamo cresciuti nella bambagia, soprattutto i più grandi. Fin da piccoli, eravamo stati abituati a dare una mano nei lavori in campagna e, appena più grandicelli, a cercare qualche lavoro, almeno nei periodi in cui non eravamo a scuola. Nel mio caso facevo la “stagione” negli alberghi della zona. L’orientamento politico della famiglia era socialista, soprattutto per il ramo materno. Mia madre conosceva numerosi canti di lotta socialisti e anarchici. Ancora oggi ne sono orgogliosa e , al contempo, stupita. Al prete del paese che indagava sulle sue scelte elettorali, mia madre rispose, probabilmente nella variante cortenese del dialetto bresciano, : “Io sono contadina, mio marito è carpentiere e, quindi, una usa la falce e l’altro il martello, veda un po’ lei come la possiamo pensare”. Questo però non intaccava la fede cristiana dei miei genitori, che non erano però né integralisti né autoritari, permettendoci di compiere liberamente le nostre scelte personali senza grossi scontri.

Da ragazzina mi rendevo conto del fatto che esistessero grandi ingiustizie da combattere; non nutrivo però un vero rancore di classe nei confronti di quelli che erano privilegiati quanto, piuttosto, una sorta di soggezione, che mi faceva quasi vergognare della mia condizione sociale. Una volta stavo rastrellando il fieno per fare “mùgei” e, quando vidi arrivare due ragazzini che erano in vacanza in paese e per i quali nutrivo un certo interesse, corsi a nascondermi. Non volevo farmi vedere a svolgere un lavoro che evidentemente nella coscienza sociale dell’epoca e, quindi, anche nella mia, era considerato segno di inferiorità o di arretratezza. Questo episodio, avevo 13 anni, mi fece riflettere e decisi che mai più mi sarei vergognata: sarebbe stato come rinnegare la mia famiglia e me stessa. Da questo punto di vista l’esperienza del ’68 fu liberatoria: imparammo a rivendicare con orgoglio la nostra condizione sociale, ci sentivamo padroni del mondo e la storia sembrava svoltare in quella direzione, verso una liberazione da tutti gli schemi nei quali ci volevano imprigionati.

Il mondo della scuola e del movimento era anche il luogo dove sviluppare le amicizie e i primi interessi amorosi. Per non sorbirmi qualche lezione noiosa o per altri motivi, a volte “attaccavo”. Uno dei luoghi più frequentati da studenti e studentesse in “libera uscita” era il bar Campei. Fu lì che realizzai che il bel “gnaro” di Ponte sul quale avevo posato gli occhi, rappresentava per me qualcosa di più di una infatuazione adolescenziale: avvertii un senso di gelosia quando lo vidi troppo in confidenza con la barista, una ragazza dalle forme generose. E la cosa tra noi ebbe successivamente sviluppi positivi, perché poi ci mettemmo insieme. Dopo che lui ebbe finito la naia, andammo a vivere a Milano, dove io frequentavo senza troppa convinzione Giurisprudenza e lui aveva cominciato a lavorare alla Breda. Vivevamo con altri coetanei valtellinesi condividendo un appartamento. La nostra era una specie di comune, anche se nessuno si guardava bene dal teorizzare in tal senso. La convivenza non si rivelò così semplice come avevamo pensato e, a un certo punto, nacquero screzi e difficoltà nei rapporti. Un po’ come per la costruzione del socialismo: tutto sembra facile, ma poi si scopre che è un percorso ad ostacoli irto di contraddizioni.

Intanto la metropoli tentacolare offriva ancora, nonostante un calo della mobilitazione, qualche occasione di impegno: partecipai all’ondata creativa del movimento del ’77, unendomi agli indiani metropolitani, ma il clima politico si era fatto pesante, soprattutto nel ’78 dopo che il rapimento Moro aveva fatto precipitare la situazione. Ricordo, a questo proposito, le vignette su Moro della rivista satirica “Il Male”, che io avevo trovato davvero eccessive e irrispettose, dato l’esito della vicenda.

Era giunto il momento che io e il “gnaro” facessimo i nostri piani per il futuro. Ci saremmo sposati – cosa che facemmo nell’80- e avremmo messo su casa a Ponte, lui avrebbe continuato il suo lavoro alla Breda, io avrei messo a frutto il mio diploma magistrale, cercando lavoro nella scuola. E così è stato. Nell’83, dopo il concorso, ottenni il mitico “ruolo” e, di conseguenza, il primo incarico. Dopo esser stata in giro per la valle sono approdata alle elementari di Ponte; lui è stato pendolare tra Ponte e Milano fino al 2010, quando è andato in pensione, dopo anni di lavoro e di impegno politico e sindacale nei Cobas. Quelle che erano le fabbriche più grandi di Milano e Legnano (Breda e Franco Tosi), emblemi della forza della classe operaia nel periodo fordista, nell’arco di questo periodo di tempo si sono ridotte a poca cosa, ma lui è rimasto abbarbicato a queste fabbriche e ad alcuni compagni di lavoro come a un pezzo del suo Sessantotto.

In attesa della pensione, mi rimane la soddisfazione di aver cresciuto con “gnaro”una famiglia con due figli, oggi già grandi all’università (nati quando eravamo decisamente maturi, in tutti i sensi!). C’è anche l’orgoglio di aver partecipato in gioventù a quel movimento che ha restituito dignità al mondo del lavoro. Certo, le aspettative di allora puntavano molto più in alto, ma quella storia ha continuato e continua a lavorare. Speriamo nel senso del “Ben scavato, vecchia talpa” di un certo filosofo tedesco