Ho 70 anni, vivo in alta Lombardia quasi al confine con la Svizzera (per la precisione a Sondrio), sono pensionata, nonna e anche un po’ massaia. Ho quindi tutti i requisiti per parlare di noi anziani, che preferisco chiamare vecchi.

Per settimane siamo stati quelli da proteggere, rinchiusi dentro casa, con la spesa a domicilio, con figli e nipoti in skype, soggetti a raccomandazioni di ogni tipo, generalmente ovvie, spesso stucchevoli, pronunciate da improbabili bambini televisivi, da luminari della scienza, da virologhe in cerca di insulti. Nonostante questa situazione di razza protetta, abbiamo vissuto come persone, mantenendo interessi, trasferendo le nostre attività nelle stanze di casa, non sacrificando le relazioni, seppur a distanza e con tutte le difficoltà che la tecnologia procura ad un vecchio. Rifacendo in diverse modalità quello che facevamo prima, non ci siamo persi e non abbiamo permesso a figli e nipoti alcuna forma di oblio.

Quelli come me che hanno sempre sottoscritto che “l’ubbidienza non è una virtù” hanno ubbidito senza asservirsi, prendendosi piccole libertà, come uscire al mattino presto a comprare il giornale. Abbiamo resistito alla retorica degli eroi e degli angeli, arrabbiandoci per il cinismo con cui quegli stessi eroi venivano mandati allo sbaraglio senza protezioni e senza aiuti. Abbiamo riso amaramente del linguaggio militaresco della prima linea, della trincea, della task force. Noi vecchi lombardi ci siamo sorbiti, con frequenza esasperante, i comunicati demenziali di governatore e assessori, riuscendo a controllare gli effetti collaterali soprattutto psicologici. In poche parole non ci siamo estinti, anche se i morti sono stati tanti.

Poi sono arrivate le case di riposo con un carico di notizie agghiaccianti. Cosa abbiamo pensato in quei momenti noi vecchi? Non lo so, so quello che ho pensato io con le amiche con cui mi sono confrontata. Anzitutto paura, paura di un mondo dove la salute dei vecchi non conta niente; poi egoisticamente la sensazione di essere fortunate, perché fuori da queste strutture. Infine a coprire tutto è arrivata una rabbia, una sana rabbia sessantottina, contro tutti i responsabili di questa situazione, contro tutti gli inetti che non sanno quello che fanno e a cui non bisogna perdonare nulla.

Noi in famiglia abbiamo un novantenne in casa di riposo, in una struttura considerata ottima. E anche qui chiusura completa, informazioni scarse, isolamento impenetrabile. Fatte salve tutte le precauzioni, tutti gli interventi medici possibili, davvero dobbiamo essere certi che la vita sia dipendente solo dal respiro e dal battito cardiaco? Il vecchio nonno, che sicuramente non si sarebbe spaventato a vedere un’infermiera con guanti e mascherina, cosa può aver pensato quando da un giorno all’altro sono spariti i parenti e i volontari con cui giocava a carte. La vecchiaia non toglie la sensibilità, può rincoglionire un po’, ma affetti, volti, voci e gesti sono vita, aiuto a tirare avanti. Non è la stessa cosa vivere in quarantena e stare rinchiusi senza più riferimenti.

In quegli stessi giorni in cui gli elenchi di morti da casa di riposo diventavano lunghissimi, fiorivano proposte risolutrici dove ignoranza e cinismo si mischiavano, dando luogo a soluzioni demenziali, ma sempre colpevoli. Il clou è stato raggiunto in una delle più belle e colte città d’Italia, quando un cosiddetto governatore ha proposto di riunire tutti i vecchietti su una nave in disuso nel porto.  Fortunatamente il progetto è stato spazzato via dalle proteste della gente che, abituata a reggere gli impeti della bora, non ha esitato davanti ad una maligna raffica amministrativa.

La vecchiaia ha il vantaggio di non durare molto, racconta Cormac mc Carthy, ma anche il poco deve essere curato e vissuto con dignità.

Maura Tarabini