“Tel là, quello del Plasmon”

Sono stato un Sessantottino di un tipo un po’ speciale, anzi molto speciale. Non partecipavo, per esempio, alle manifestazioni del movimento e questo era piuttosto strano in tempi in cui la manifestazione costituiva l’appuntamento al quale nessuno avrebbe mai rinunciato, se non per motivi eccezionali. C’ero, però, tanto per capire il tipo che sono, quel giorno del ’73, quando a Sondrio ci fu la contestazione ad Almirante. Il capo del MSI teneva un comizio e noi antifascisti ci eravamo radunati nelle vicinanze, in area Balilla, e c’era un tot di polizia a tenerci sotto osservazione. Era un periodo in cui il sentimento antifascista era fortissimo, anche per tutta la serie di stragi e di tentativi eversivi che avevano seguito piazza Fontana ed eravamo piuttosto rumorosi. Ad un certo punto tra le guardie del corpo del caporione neofascista riconobbi un tale che faceva il buttafuori in un night di Milano e che si diceva fosse quello che suonava il gong nella pubblicità, per chi la ricorda, della Plasmon. Lo riconobbi perché anch’io ero di Milano e, dopo, racconto come mai mi trovavo a Sondrio.

Mi sento di appartenere al Sessantotto anche per un’altra ragione: l’essere dalla parte del lavoro era un tratto della mia identità culturale, così come si era formata nell’ambiente familiare e nel contesto in cui ero cresciuto. Mio padre era stato partigiano nella Garibaldi, era un socialista nenniano, spesso in contrasto con i dirigenti milanesi del partito, ed era piuttosto diffidente nei confronti della svolta che all’inizio degli anni ’60 aveva portato il PSI a collaborare con la DC nei governi di centrosinistra. Ero cresciuto a Bruzzano, quando ero piccolo un paesone alla periferia Nord di Milano con cascine, galline ruspanti e coltivazioni varie. Poi con il boom economico e la conseguente immigrazione dal Sud era stato inghiottito dall’area metropolitana milanese ed erano nati i grandi quartieri di edilizia popolare, come la Comasina ed altri, con la loro popolazione di meridionali, soprattutto calabresi e siciliani.

A 16 anni ero già al lavoro in un piccolo laboratorio dove riparavamo contachilometri ed altri aggeggi. Avevo già le idee chiare su padrone, operaio, sfruttamento, diritti, e frequentavo una compagnia di giovani operai, cresciuti assieme, senza che l’essere “bauscia” o “teroni” costituisse un elemento di divisione. Il carattere “multiculturale” della compagnia lo si vedeva anche nei nomi e nei soprannomi: Terry, Giorgio, Marietto, Carmelo, Charlie, che era sindacalista all’Alfa, Luis. Ci muovevamo come gruppo, avevamo il nostro punto di incontro in latteria, un tipo di esercizio pubblico allora abbastanza diffuso nei quartieri popolari milanesi, dove all’occorrenza si poteva mangiare anche qualcosa. Da lì, soprattutto il sabato sera e alla festa, partivamo per raid nei dintorni o puntate in centro, dove potevamo scegliere tra un’ampia serie di opzioni, anche in base ai quattrini che si avevano in tasca. C’erano le osterie, i cabaret e le balere dove imperversavano il boogie e il rock and roll o altri balli più alla moda e altri posti come il Roxy e il Copacabana, dove circolavano anche elementi della “lingera”, “ruchetè” e troie. Avevamo uno spiccato interesse per il divertimento, lo stare in compagnia, il far baldoria, l’obiettivo era quello di rimorchiare e per il controllo del territorio nascevano conflitti con altri gruppi come il nostro con il seguito di sfide e risse. Ciò era il sale e il pepe di quelle situazioni ed era oggetto di conversazione tra noi per settimane. Il lunedì mattina era spesso dedicato allo smaltimento degli eccessi dell’appena conclusa domenica, ma il padrone chiudeva un occhio, tanto sapeva che avremmo recuperato da buoni lavoratori quali eravamo. Non eravamo una banda, come ce n’erano allora, quasi in ogni quartiere. Eravamo più una via di mezzo, avevamo un nostro look particolare, a cominciare dai capelli in genere portati piuttosto lunghi. Ci potevamo paragonare per alcuni versi ai teddy boys di fine anni ’50, alcuni esemplari dei quali giravano ancora, pur avendo ormai perso lo smalto di un tempo.

Proprio nel ’68 fui chiamato sotto le armi e, dopo il CAR a Bari, fui assegnato alla Brigata Missili in Altoadige. Lì ci trovammo gomito gomito con gli americani e la convivenza non fu facile: sarà stato per via del Vietnam o sarà stato per il loro innato bullismo, fatto sta che una sera scoppiò una rissa allo spaccio e li suonammo di santa ragione. Fu proprio nel periodo della naja che capitai a Sondrio. Ero in licenza e trovai la latteria chiusa per ferie. Erano gli anni in cui, grazie alle lotte del’ 68 e del ’69 e agli aumenti salariali ottenuti con gli scioperi, gli operai cominciavano a fare qualche giorno di vacanza al mare o in montagna. Venni a sapere che i miei amici erano in Valtellina e così li raggiunsi. Poi Sondrio sarebbe divenuta la meta di spedizioni nei fine settimana. Una volta portammo con noi anche un tipo soprannominato “Venezia” che era un virtuoso della truffa: se lo ricordano ancora alcuni commercianti di Sondrio quando con nonchalance allungava assegni non coperti a pagamento di merci che acquistava dopo lunghe contrattazioni. “Ma qui non c’è un cazzo!” fu la mia prima impressione di cittadino, appena messo piede nel capoluogo valtellinese, ma poi mi abituai, anche perché avevo conosciuto una tipa di Scarpatetti e c’era del tenero, tanto che nel ’70 eravamo già sposati. Rimasi per alcuni anni a Sondrio e partecipai più per caso che per scelta ad alcune iniziative antifasciste. Fui per 8 mesi al Fossati e, quando mi licenziai per andare nella vicina Confederazione, il responsabile del personale mi ammonì: “La Svizzera non è eterna”, come a dire che al Fossati il lavoro era sicuro. La prima volta che tornai li vidi, gli operai del cotonificio, in piazza con tanto di bandiere rosse, era il 1973 ed erano in lotta contro i licenziamenti. Poi nel ’75 l’era Fossati sarebbe definitivamente finita.

Dopo la Svizzera, ci trasferimmo a Milano perché ero stato assunto al Corrierone. Lì ebbi modo di constatare la differenza tra l’operaio/contadino del Fossati e il lavoratore sindacalizzato di via Solferino che non si faceva certo mettere sotto i piedi e godeva di una rete di protezione da aristocrazia dell’aristocrazia operaia che a Sondrio non se la sarebbero sognata neanche i bancari. Negli anni di assenza da Bruzzano, l’ambiente era cambiato parecchio: ritrovai gli amici, ma la gioventù era passata per tutti e, poi, stavano affermandosi quei valori che sarebbero divenuti dominanti nella Milano da bere degli anni 80: più individualismo, meno solidarietà e altro. Era cambiata anche la vita di Bruzzano con una penetrazione mafiosa silenziosa ma diffusa e qualche forma di degrado urbano che prima non c’era. E’ forse anche per questo che, raggiunti i 35 anni contributivi allora necessari per andare in pensione, sono tornato a Sondrio, oggi un ambiente più tranquillo per i miei settant’anni: mi hanno fatto i complimenti per come li porto e in effetti, tutto abbronzato come sono appena tornato da due mesi di Bellaria e senza un capello bianco, faccio ancora la mia bella figura, però gli anni sono settanta e non c’è santo che tenga.