Chi sono le persone detenute morte nelle rivolte in carcere
di Lorenza Pleuteri
giustiziami.it, 3 aprile 2020
Rouan, Artur, Marco, Salvatore e gli altri. Ecco chi erano le 13 persone morte in carcere durante le rivolte. . Di alcuni detenuti si conoscono pochissimi dati. Per altri familiari e conoscenti aggiungono qualche tassello in più, ma c’è anche chi ha paura a chiedere verità e giustizia.
Le istituzioni carcerarie continuano a negare informazioni e aggiornamenti. “Devono dirmi come è morto e perché. Era un ragazzo sveglio, non avrebbe mai rischiato la vita. Non ha preso volontariamente la droga o le pastigli. Non può essere. C’è qualcosa che non convince”. La mamma di Rouan Ourrad (meno probabilmente Abdellah o Abdellha, i cognomi con cui compare negli elenchi ufficiosi), chiusa nella sua casa di Casablanca, riesce solo a piangere.
Ripete, da giorni, le stesse due domande. Come? Perché?
A raccontarlo è l’imam che guidava le preghiere nel carcere di Modena, Abouabid Abdelaib, diventato un punto di riferimento per la famiglia d’origine dell’uomo. Rouan aveva 34 anni e origini marocchine. Era uno dei 13 detenuti che tra l’8 e il 10 marzo hanno perso la vita durante e dopo le rivolte scoppiate nelle case di reclusione di mezza Italia, azioni di protesta innescate
dalla compressione dei diritti minimi, da timore della diffusione del coronavirus e dalla coabitazione forzata, dal blocco dei colloqui con i parenti e delle uscite in permesso o per lavoro, dalla sospensione delle attività trattamentali e dei servizi garantiti dai volontari, dal mancato afflusso di droga dall’esterno e da chissà che altro.
Il suo cuore si è fermato mentre lo trasferivano al carcere di Alessandria. Al Sant’Anna gli restavano meno di due anni da scontare, il residuo di una somma di piccole pene per spaccio da strada. Avrebbe potuto chiedere una misura alternativa alla detenzione, ma fuori non aveva appoggi solidi. Il fratello più piccolo era ed è in cella, una sorella abita in Germania e un fratello
in Francia, un altro ancora era rientrato in Marocco quando il padre è morto.
A una trentina di chilometri da Modena sta un fratello gemello, El Mehdi, sconvolto, preoccupato, spaventato. “Quando Rouan è stato arrestato – si sfoga, al primo contatto – nostra madre ha perso il sonno. Non ci dormiva la notte. Per questo ero molto arrabbiato con lui. E poi c’erano problemi con i documenti, complicazioni da risolvere. Non ho fatto abbastanza per
aiutarlo. Adesso non si può tornare più indietro”. E ora lui ha paura di ricadute negative, per sé stesso e per la famiglia, tanto da supplicare di cancellare i commenti usciti di getto.
Almeno due detenuti – dal poco che si è saputo, aggirando il muro di silenzio alzato dalle istituzioni carcerarie e dai referenti istituzionali – avevano figli. Ariel Ahmad, cittadino marocchino di 36 anni, era padre di una ragazzina di 12 anni, avuta dalla ex convivente italiana.
Non la vedeva da tempo. Non riusciva a togliersela dai pensieri e dal cuore. “Era un uomo timido, carino, gentile – dice Paola Cigarini, storica volontaria del carcere modenese, da settimane impossibilitata ad entrare in istituto – Ringraziava sempre, anche per le piccole cose.
Non era una persona cattiva. Non riesco a pensarlo come uno che promuove una rivolta, un trascinatore”.
Condannato in via definitiva per resistenza, spaccio e false attestazioni sull’identità (in occasione di un arresto fu registrato come Erial), sarebbe tornato in libertà il 14 gennaio 2022.
Anche Agrebi Slim, quarantenne di origine tunisina, aveva una figlia. Ritenuto responsabile di un omicidio a Bologna, con la bimba e la madre in Francia, non aveva potuto vederla crescere.
“La ex compagna era venuta in Italia per testimoniare a suo favore – ricorda l’avvocata di allora, Donatella Degirolamo – e così aveva fatto una amica. Poi io non le ho più viste. E nemmeno lui, credo. Mi è rimasta l’immagine di lui come di un uomo solo. Della bimba gli era rimasta una foto, scattata quando aveva un anno”.
Dal Sant’Anna sono usciti con i piedi davanti, destinazione tavolo delle autopsie e morgue, anche Hafedh Chouchane (o Hafedeh Chouchen, 36 anni, tunisino, pochi giorni alla scarcerazione), Ben Mesmia Lofti (o Mesmia, 40 anni, tunisino) Alì o Alis Bakili (52 anni, pure lui tunisino). Per loro e per Agrebi e Ariel – lo ha scritto la Gazzetta di Modena – i primi esami post decesso confermano la tesi dell’overdose di un cocktail di psicofarmaci e metadone,
disponibili in gran quantità. Non sono state rilevate tracce di una ingestione forzata del mix letale. Nessun segno di lesioni né di azioni violente.
Il reato per cui la procura ha aperto un fascicolo, “omicidio colposo plurimo”, al momento si conferma una scelta tecnica, formale, necessaria per svolgere una serie di approfondimenti.
Non risultano indagati, in questa fase pare non si prospettino scenari alternativi. Si attende l’esito degli esami tossicologici per confermare – o smentire – la direzione presa dall’inchiesta penale, cui si affianca un’inchiesta ministeriale.
Forse convergeranno al Palagiustizia di Modena anche gli atti dei primi accertamenti sulla fine tragica degli altri detenuti “modenesi”, spirati dopo la decisione di smistarli in penitenziari non andati fuori controllo: oltre a Rouan, Ghazi Hadidi (o Hadidi, tunisino di 35 anni con una
condanna definitiva per una violenza pesante, deceduto sulla strada per Verona), Artur Iuzu (moldavo di 31 anni, in custodia cautelare, arrivato a Parma senza vita) e Salvatore Cuono Piscitelli (mandato a Ascoli). Pure di quest’ultimo, sebbene fosse italiano, non si è saputo quasi
nulla: aveva 40 anni compiuti in gennaio e il fine pena il 17.8.2020.
Ghazi era assistito dall’avvocato Alberto Emanuele Boni, lo stesso difensore di Rouan. “Se è vero che questi ragazzi stavano male per aver ingerito metadone e pasticche ed erano cianotici – rimarca -non si capisce perché non li abbiano portati e subito negli ospedali più vicini al carcere, consentendo di curarli per tempo, di salvarli.
Invece no. Hanno fatto una cosa insensata. Hanno deciso di spedirli in penitenziari di città lontane, non è dato sapere se in ambulanza o su blindati. Sono morti durante il viaggio. Lo Stato li aveva in custodia. Lo Stato, se vuole dirsi civile, dovrà dare spiegazioni. Perché non si sono prevenute le rivolte? Perché i disordini non sono stati contenuti, prima che arrivassero alle
conseguenze costate la vita a tutti questi detenuti? E perché c’era tutto quel metadonedisponibile? Si è sentito dire che si trattava di non pochi litri”.
Kedri Haitem, 29enne tunisino, stava da pochi mesi alla Dozza di Bologna ed è morto lì, quando si sono spenti i fuochi e gli echi della rivolta. Arrestato nel 2019 per delle rapine, reduce da una lunga condanna per altre vicende scontata a Reggio Emilia, era in custodia cautelare, per legge
“non colpevole”.
In patria faceva il sarto, dentro l’aiuto cuoco e l’addetto a quella che nel gergo interno si chiama Mof, la “manutenzione ordinaria fabbricato”, piccole riparazioni, tinteggiature, interventi da muratore e idraulico. Sempre nel carcere reggino aveva percorso altre tappe di un cammino positivo ed era riuscito a conquistare un lavoro esterno, di pubblica utilità. Gli operatori avevano scommesso su di lui, la comunità esterna pure. Si prendeva cura di aree verdi e piante in un piccolo comune di provincia. Poi un inciampo, la liberazione a fine pena, il ritorno dietro le sbarre. Alla Dozza era seguito dai mediatori culturali.
Alle prime avvisaglie del rischio coronavirus, a fine febbraio, i loro servizi non sono stati considerati essenziali – pur essendolo per molti detenuti stranieri e di conseguenza per il personale interno stremato – e il comune ha deciso di tenerli a casa, abilitandoli poi a lavorare via Skype e per telefono solo dal 25 marzo. Non è stato più dato l’accesso ai volontari, altre figure fondamentali. Alcuni reparti sono stati “espugnati” dai detenuti in rivolta, altri sono rimasti
inviolati. Probabilmente anche Kedri ha ingerito psicofarmaci, saccheggiati in infermeria, e forse del metadone.
La procura, per confermare o smentire che la causa del decesso sia una overdose e accidentale, chiede tempo. Devono essere depositati e valutati i risultati delle analisi tossicologiche. Non solo. Qualcosa sembra non tornare. L’oppioide, dopo i disordini di Modena e i primi morti, doveva essere messo in un posto ultrasicuro in tutte le case di reclusione. Radio carcere ipotizza che non sia andata così, non a Bologna, e che il ragazzo tunisino e i compagni
lo abbiano trovato e bevuto, miscelato con il resto. Ed era della Dozza l’anziano recluso per mafia – posto agli arresti domiciliari in ospedale pochi giorni prima del decesso – stroncato dal coronavirus.
Altro istituto, altre devastazioni, altre tragedia. I carri funebri hanno portato via dal carcere di Rieti i cadaveri di Carlo Samir Perez Alvarez (nativo dell’Equador, 28 anni), Ante Culic (41 anni, croato, fine pena il 27.5.2024) e Marco Boattini (40enne della zona di Pomezia, in attesa di processo d’appello). Per due non si trova nessu o disposto a parlare.
“Purtroppo nemmeno il nostro ufficio è riuscito ad avere altri dati. E non abbiamo alcun contatto con le famiglie di origine”, è costretto ad ammettere Stefano Anastasia, il Garante delle persone private della libertà per la Regione Lazio. Per Marco i giornalisti del Venerdì di Repubblica hanno trovato qualche brandello di storia e una cugina. Rosa. Era entrato in carcere “dopo una
sentenza per una rissa aggravata, oltre che per questioni di droga. E la droga aveva caratterizzato gli ultimi passi della sua esistenza: la morte della madre lo aveva sconvolto.
Il resto lo avevano fatto i rapporti sempre più sottili con il padre – che da tempo viveva all’estero – e con il fratello. La sua casa, nella zona di Pomezia, era diventata una sorta di “comune”: occupata da un gruppo di suoi amici balordi, in realtà spacciatori, che riempivano Instagram di filmati di Marco impegnato in cose demenziali, alle volte umilianti. Lavorava in una tipografia,
aveva anche incontrato una ragazza che gli voleva bene”.