IL ’68, LA SCOPERTA DELLA POLITICA

 

Se devo rintracciare il ’68 nella mia memoria, non riesco a situarlo bene, potrei confonderlo con qualche anno prima o qualche anno dopo. Frequentavo il liceo a Sondrio e i primi fatti di agitazione studentesca che ricordo possono risalire al ’67 come al ’69…E’ sicuro che a un certo punto cominciò a succedere qualcosa, le assemblee degli studenti senza i professori, nella palestra del convitto, le prime manifestazioni lungo le vie della città, che non avevano mai visto tanta gente per strada dai tempi della liberazione, se non per la processione del venerdì santo.

Gli echi di quello che succedeva a Milano, o Parigi, o Praga giungevano come portati dal vento, o forse più dalle parole degli universitari che studiavano a Milano o a Trento, ma il venerdì sera tornavano in valle, e c’era sempre un circolo in cui raccontare quello che avevano visto e fatto e c’erano molti di noi che li ascoltavano rapiti, avidi di sapere. Io queste cose le intuivo, più che viverle di persona, perché a quei tempi alloggiavo in un collegio femminile, custodita come tante compagne dall’occhiuta sorveglianza di suore che in nessun caso ti facevano uscire di sera, anche se i gruppi in cui si ritrovavano gli altri erano Gioventù studentesca, comunque nell’alveo cattolico, o il piano terra della residenza di un prete cattolico, don Abramo Levi, che in quegli anni accompagnò con speciale ministero, con l’intelligenza dello spirito del tempo nuovo, la crescita dei giovani ribelli.

Ma tutto questo successe perché il ’68 in realtà fu preparato in modo quasi impalpabile, invisibile, da una trasformazione profonda che era avvenuta dentro la coscienza di ciascuno negli anni precedenti. Se il ’68 fu la ribellione antiautoritaria di una giovane generazione che per la prima volta nella storia si identificava come tale e prendeva di mira i fondamenti di quella società bloccata e soffocante in cui si trovava a vivere, ciò accadde perché molto esercizio era stato fatto negli anni precedenti, e ciascuno l’aveva compiuto a suo modo, nei luoghi pubblici e privati in cui era collocato. Il cattolico aveva già da tempo cominciato a mettere in questione l’autorità delle gerarchie, lo studente a non accettare supinamente il potere del professore in cattedra e a mettere in discussione i contenuti, la struttura autoritaria e classista della scuola; il figlio, e, fatto assai più sorprendente, la figlia, a discutere gli ordini, detti o non detti, di genitori che si volevano plenipotenziari della loro vita…anche gli operai da prima del ’68 avevano cominciato a prendere la misura di uno spazio possibile di azione contro l’organizzazione del comando e della subordinazione (anche in Provincia il funzionamento poco democratico delle commissioni interne, di lì a poco spazzate via dai consigli di fabbrica, e l’organizzazione del lavoro erano argomento di discussione anche tra lavoratori non particolarmente politicizzati).

Già da tempo, ciascuno, ciascuna, in solitaria o a piccoli gruppi, aveva cominciato a disobbedire. O, se non disobbediva apertamente, pativa l’ingiustizia, la prevaricazione, prendeva distanza da quell’ordine, non lo riteneva più naturale. Ho in mente le infinite discussioni con mia madre, la microorganizzazione di un gruppetto di amiche contro la disciplina assurda del collegio, le contestazioni che, pur senza scalpore, sgretolavano il potere dell’insegnante assiso in cattedra, l’abbandono di una religione tradizionalmente imposta, la mia ribellione alla preside delle medie che non voleva che mi iscrivessi al liceo: una figlia di operai!…furono tutti questi lievi, quasi inudibili scricchiolii che provocarono la diffusione rapida, a macchia d’olio, del movimento e fecero incontrare la politica a tanti e tante ragazze, li resero improvvisamente militanti; tanti ragazzi e tante ragazze, che mai ci avevano pensato prima, improvvisamente cominciarono a pensare alla rivoluzione. Vi aderirono spontaneamente, perché rispondeva a qualcosa che avevano maturato personalmente: il mondo poteva e doveva cambiare per corrispondere alla propria presa di coscienza. Non esclusivo movimento interno, perchè la maturazione avveniva in presa diretta con tutto quello che comunque si muoveva nel Paese, dalle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, all’uscita di lettera a una professoressa di don Milani, alle occupazioni delle università, all’antipsichiatria di Basaglia, alle lotte operaie… Intanto si leggevano Marx (e per me era anche scoprire la verità sulla vita di mio padre operaio e la mia personale collocazione sociale) e testi di sociologia, psicoanalisi, filosofia….

Dopo il liceo, passai qualche anno a Milano, ma le cose erano già cambiate. C’era già stata la strage di Piazza Fontana, e il clima era pesante. Soprattutto era difficile “fare politica”, potevi solo schierarti da una parte o dall’altra di pezzi del movimento, che era già andato, appunto, in pezzi.

Il ritorno in Valle: la politica è una ricerca

Abbastanza presto, insieme ad altri amici, ritornai in valle, dove ci pareva che fosse possibile vivere in modo più coerente con quello che pensavamo e “fare politica”, come si diceva allora, in modo più efficace in un ambiente che conoscevamo meglio. Scelta strana, a pensarci ora che i giovani, così pare, aspirano solo a fuggire dalla valle…C’è da dire che quello che capitò in quegli anni ci segnò in modo profondo anche nelle scelte esistenziali. Nessuno, almeno nella cerchia dei miei amici e delle mie amiche, pensò a costruirsi una carriera, per quanto ne avessimo le possibilità e i tempi lo consentissero, e questo, ricordo, fu un tormento per mio padre, che non capiva come potessi buttar via una prestigiosa borsa di studio e, come diceva lui, “andare a star peggio quando si può star meglio…”. Però ci aiutò, me e i miei amici, ad allestire la “comune” in cui andammo a vivere, quando due amici si sposarono e, non volendo formare la famigliola che si chiude nelle quattro mura, presero una casa grande dove andammo a vivere stabilmente in sei, ma che rimase aperta a vari passaggi, accogliendo anche due bambini senza famiglia che poi diventarono grandi con noi e alcuni giovani in difficoltà. Anche questa fu un’esperienza legata alle convinzioni che avevamo maturato – il rifiuto della famiglia che si chiude e soffoca nelle sole relazioni parentali, il vivere i legami di amicizia come più importanti e più liberi di quelli familiari. Esperimento difficile, come si può immaginare, ma che durò abbastanza a lungo, almeno tre anni con alcuni trasferimenti da una casa all’altra.

Fu insieme ad alcuni degli amici con cui vivevo che scelsi di aderire al progetto politico di un’organizzazione extraparlamentare, che si stava sviluppando in Provincia. Ero attratta dalle pratiche di radicamento sul territorio di questa organizzazione, che lavorava con gli studenti e con i lavoratori, nei luoghi concreti delle scuole e dei luoghi di lavoro. C’era un bello scambio tra il gruppo dirigente e i “cub”, comitati di base sorti in alcuni istituti scolastici superiori, in alcune fabbriche e settori del terziario, come con i collettivi giovanili nei paesi. E’ stata un’esperienza che ha dato consistenza e stimolo alla mia passione politica, come l’ha data a molti ragazzi e molte ragazze più giovani che hanno potuto maturare una speciale consapevolezza su quello che vivevano, nella scuola come nei paesi, cogliendone il legame con un mondo più ampio. Credo che non si sia più verificato un simile fenomeno di aggregazione giovanile: con l’aggregazione cresceva il protagonismo, l’uscita dall’isolamento, la sensazione di stare nel mondo e di non starci come presenze irrilevanti..Ma soprattutto questa politica faceva cadere le frontiere sociali, si incontravano e incrociavano i loro linguaggi studenti e lavoratori, mai pensabile prima. Credo di aver militato in questa organizzazione a modo mio: schivavo la linea politica, le lunghe riunioni sul quadro politico, a cominciare da quello internazionale a quello nazionale per poi arrivare a quello locale, mi lasciavano muta e poco coinvolta; facevo volentieri “il lavoro di fabbrica” perché era vicino alle condizioni concrete di vita e di lavoro. Ricordo lunghe conversazioni con gli operai per capire esattamente come erano le condizioni “dentro”, per raccogliere il più minutamente possibile informazioni sulla nocività, sui ritmi, sui tempi, su come avveniva lo sfruttamento nelle pieghe dell’organizzazione del lavoro, per riuscire poi a stendere un volantino da distribuire a tutti che fosse comprensibile, con un linguaggio il più vicino possibile alla lingua comune, così che risultassero concreti e credibili gli obiettivi da portare avanti. Facevo questo lavoro con qualche compagno maschio, ma soprattutto con la mia amica di sempre. Il sindacato faceva battaglie generali che quasi mai entravano nel merito della vita di fabbrica, anche quando si avvicinarono i momenti bui dei licenziamenti alla “Fossati”. I partiti di sinistra già da allora erano piuttosto lontani dalla loro base. E comunque i lavoratori valtellinesi votavano in maggioranza democristiano. Non lavoravo con gli operai per fargli cambiare voto, ma perché aumentasse la consapevolezza dello sfruttamento e la speranza di poterlo contrastare.

Un altro momento per me molto importante fu la battaglia per il divorzio. I compagni, forse inconsapevolmente, la lasciarono gestire un po’ di più a noi donne. A noi erano chiare le implicazioni sulla vita delle donne di questa battaglia e la facemmo con convinzione, percorrendo quartieri e paesi a tappeto, parlando con le donne, discutendo anche animatamente con le più mature, senza aver bisogno di discutere con le più giovani.

Una storia differente che continua

Fu un po’ dopo la battaglia per il divorzio che cominciammo, io e altre amiche, ad avvertire il disagio di un linguaggio e di una politica che non aveva molto a che fare con la vita concreta delle persone, un linguaggio che nelle sue analisi e nei suoi obiettivi mi lasciava muta e insignificante…tutto il contrario del sentirsi protagonista nella propria vita e nei destini del mondo che era stata l’esperienza di libertà degli inizi. La politica nuova riproduceva le forme della vecchia che avevamo criticato, la distanza tra i dirigenti che elaboravano la “linea” e “la base” su cui questa doveva riversarsi, una narrazione che non riusciva a farsi corpo con la vita delle persone. Soprattutto, e fu una scoperta altrettanto grande, se non di più, di quella della libertà di esserci e di contare della generazione giovanile del 68, scoprimmo che il nostro essere donne ci faceva differenti dai nostri compagni maschi, e questa differenza non era compresa, non era messa a tema della politica, non la cambiava di un’acca. C’erano le commissioni femminili di partito in cui si affrontava “la questione femminile” come contraddizione secondaria rispetto alla principale, quella di classe, ma erano ancora i compagni maschi che ne parlavano, ne facevano un capitoletto della teoria, le donne di nuovo oggetto di discorso dell’altro, non soggetto di un proprio discorso. La secondarietà delle donne, cardine del patriarcato, era conservata, ribadita anche nella politica che si voleva rivoluzionaria.

In quegli anni che erano intercorsi dal 68, avevamo fatto politica, io e le mie compagne, in una specie di ubriacatura di parità con gli uomini, l’autorità che avevamo messo in discussione era anche quella del padre-padrone, ma questo, comprendemmo a un certo punto, aveva dato libertà ai nostri fratelli, non a noi, per la nostra libertà di donne andava compiuto un altro lungo cammino che non è ancora finito. La scoperta avvenne un po’ per caso, trovandoci a parlare trasversalmente anche con le compagne di altri gruppi politici, e scoprendo di capirci e di ritrovare un entusiasmo, una partecipazione che ci faceva ritrovare la parola. Delle diversità di linee politiche ci importava assai poco…

Fu casuale, ma non tanto. Giungevano gli echi di una presa di coscienza delle donne che, come il movimento del 68, si allargava a macchia d’olio, e che in alcune situazioni era cominciato prima del 68. Si manifestava, anche per noi si manifestò ad un certo punto, intorno al 1975, nella presa di distanza dalle organizzazioni in cui avevamo militato, in una separazione anche fisica. Scoprimmo dopo che il tutto era cominciato nel 1966 in una università americana, dove un giorno, nel corso di un’assemblea in cui si stava discutendo della condizione femminile e che vedeva l’avvicendarsi di interventi maschili, un gruppo di studentesse abbandonò l’assemblea per riunirsi a parlare tra loro. Fu un gesto rivoluzionario, nella sua simbolicità. Fu l’inizio della “rivolta nella rivolta”, come dice una voce autorevole del femminismo italiano, segnò il principio della libertà femminile.

La separazione fu un’offesa e uno choc, provocò anche reazioni scomposte: ricordo l’aggressività, solo verbale ma comunque minacciosa, con cui alcuni compagni accolsero lo stand separato che allestimmo all’interno di una festa del partito…Fu comunque un passo molto difficile da elaborare, per i compagni maschi, non so neanche se oggi, a distanza di 40 anni, lo sia stato compiutamente. Fu l’inizio di un esodo generale delle donne dai partiti e dalle organizzazioni politiche della sinistra, sulle cui ragioni la sinistra non si interrogò, né allora né dopo; se lo avesse fatto, non si troverebbe probabilmente oggi così orfana di popolo.

Comunque, per tornare a noi, noi ragazze avevamo troppo da fare a capire cosa ci stava succedendo per indugiare su quello che ci appariva ormai passato. Senza convocazioni, senza volantini o social, si formò a Sondrio del tutto spontaneamente un gruppo di 40, 50 ragazze che si riunivano nei sotterranei della sede del Bim, per discutere di tutto: il rapporto tra personale e politico, il nesso fra sessualità e potere, il legame strutturale tra produzione e riproduzione, il rapporto tra i sessi, il patriarcato ancora vivo e vegeto nelle relazioni amorose come in quelle politiche..Fu una presa di coscienza che si esprimeva nella ricerca di un linguaggio nuovo, aderente a quello che eravamo, alla nostra mente e al nostro corpo, corpo e linguaggio insieme, solo da lì poteva rinascere una politica che ci corrispondesse e fosse efficace per tutti. Facemmo nostre, e contribuimmo nel nostro piccolo a inventare due formule efficaci: “ il personale è politico” e “la politica del partire da sé”. Significava riconoscere che già la vita individuale, personale, è attraversata da quella cosa pervasiva, complicata, non schematizzabile che è il potere e il suo ordine simbolico, che decide cosa sia reale, rilevante, vero, giusto; che non c’è frattura tra noi e la realtà fuori di noi; che ogni gesto di affermazione di libertà e di condivisione con altre/ i deve partire dal capire di cosa siamo fatte, a quale subordinazione siamo esposte, quale livello di disobbedienza dobbiamo mettere in atto….

Così come facemmo nostra e contribuimmo a inventare una forma politica particolare, i gruppi di autocoscienza, piccoli gruppi dove si rompeva la secolare mutezza e ognuna aveva lo spazio per prendere la parola e ascoltare le altre: la condivisione delle esperienze lavorava alla costruzione di un’identità nuova e insieme dava sostanza al desiderio di libertà di ciascuna. Si lavorava a costruire un “noi” che comprendesse e articolasse al suo interno le singole soggettività. A Sondrio nacquero numerosi piccoli gruppi, e in ogni paese della valle ne nasceva uno, anche molto informalmente. Fu un’esperienza che, una volta fatta, rimane per tutta la vita, credo; anche quando i gruppi si sciolgono perché seguono la trama mutevole della vita, rimane come punto di vista e attenzione a quello che accade, come impegno nelle relazioni, come attenzione a stare in presenza della realtà.

Furono anche esperienze che diedero luogo a lotte visibili, cui molte donne valtellinesi parteciparono, quelle per i consultori, per la depenalizzazione dell’aborto, contro la violenza: esse riemersero pubblicamente negli anni, anche qui spontaneamente, nei movimenti contro la guerra, la prima e seconda guerra del golfo, la guerra dei Balcani. Anche quando qualcuno dice, o spera, che le donne abbiano perso la parola, essa riemerge, anche oggi nei movimenti di insofferenza e di opposizione a figure politiche che incarnano il disprezzo per il sesso femminile, quali Berlusconi o Tramp , o nei grandi movimenti internazionali contro la violenza sulle donne NUDM o Metoo, o nelle lotte ambientaliste nate nei Paesi emergenti e che vedono le donne protagoniste in prima fila, un riferimento su tutti Vandana Shiva.

Non si tratta solo di lotte su obiettivi specifici: essi portano sulla scena pubblica, disvelano e insieme sgretolano “il patto sessuale che sottende tutte le istituzioni umane, con effetti dirompenti sulla politica tradizionale” (Lia Cigarini).

Dunque, all’interno di un movimento generazionale, nel vivo di un’esperienza di uomini e donne insieme, la storia si divide dando origine a due storie differenti. Quella delle donne negli anni ’70 ha dato origine a profondi mutamenti culturali nella società del tempo, che sono anche sfociati in importanti leggi dello Stato, da quella sul divorzio al nuovo diritto di famiglia, alla legalizzazione dell’aborto..tanto che importanti teorici della società e della politica affermano oggi che la rivoluzione femminista è l’unica che abbia prodotto risultati stabili in quei due decenni. Ma al di là delle leggi che sono sempre un compromesso e una parzialissima traduzione di quello che davvero si muove nella società, sappiamo che i nodi fondamentali sono ancora tutti all’ordine del giorno, il difficile presente pesa sulla vita di tutti, uomini e donne, possiamo dire ancora di più sulle donne.

Forse nelle donne c’è meno disorientamento, abbiamo trovato delle bussole, e delle pratiche, che aiutano a non farci sommergere da quello che accade, ci consegniamo di meno alla rappresentazione esteriore e mediatizzata della politica, sappiamo vedere un po’ di più il legame con quello che non trova rappresentazione. E guardiamo con lucida speranza ai movimenti che oggi rimbalzano da un angolo all’altro del pianeta, che coinvolgono in grande numero le ragazze di oggi, perché se il patriarcato cade davvero, anche con la partecipazione degli uomini amici delle donne, ne verranno straordinari benefici alla convivenza di tutti.