NELLE PIEGHE DOLOROSE DELLA GUERRA

Una raccolta dei reportage di Andrea Sceresini dal fronte russo-ucraino

Nelle pieghe dolorose della guerra in Ucraina si nascondono le storie dei vinti, di tutti coloro che, comunque finirà questa guerra d’invasione, hanno già perso tutto: i profughi in fuga verso Leopoli, avamposto di quell’occidente che si è detto pronto ad accoglierli e ad aiutarli, chi è troppo vecchio per partire o ha scelto di restare, perché “Qui a Kiev c’è tutta la mia vita”, i giovani soldati con gli occhi stanchi, le mani piene di polvere e una bottiglietta di vodka a consolarli del futuro che è stato loro sottratto, perché se riusciranno a sopravvivere dovranno fare i conti per anni con il ricordo di quanto hanno visto e di quanto sono stati costretti a fare.

 Nei suoi reportage Andrea, come ogni reporter dal fronte, ci parla dell’andamento della guerra, delle battaglie che si combattono, di chi arretra e di chi avanza, e non solo.

Leggendo con attenzione e in sequenza i suoi articoli, ciò che ci resta impresso nella memoria non sono i nomi dei luoghi degli scontri tra i due eserciti e i loro esiti, ma le storie quotidiane di quelli che non hanno scelto questa guerra e che ne portano comunque il peso maggiore.

Andrea Sceresini non è l’unico reporter presente sul campo impegnato a guardare gli avvenimenti bellici anche, e soprattutto, dal punto di vista delle vittime.  

Abbiamo però scelto di presentare i reportage di Andrea non solo perché è un buon amico di archivio68sondrio, ma soprattutto perché dal 2014 insieme a Lorenzo Giroffi si è impegnato in prima persona a cercare di capire e farci capire che cosa stava succedendo nel Donbass.

E poi forse c’è anche un po’ di provincialismo che non guasta mai. Per quanto in giro per il mondo Andrea resta sempre un valtellinese doc.

leggi qui sotto i reportage  oppure scarica il pdf andrea corr (1)

La fuga da Kiev città fantasma. Chi resta imbraccia le armi, e attende

Scrivo da un treno freddissimo che viaggia con le luci spente. I passeggeri sono accalcati gli uni sugli altri, hanno bagagli voluminosi, sacchetti pieni di cibo e gli occhi stanchi di chi non dorme da molte notti. I bagni sono irraggiungibili per via della calca.

Per fare i propri bisogni ci si deve arrangiare nel piccolo pertugio delimitato da due porte di ferro che permette il passaggio da un vagone all’altro.

La destinazione è Chmel’nyc’kyj – un luogo dove la gran parte di queste persone non avrebbe mai pensato di dover andare, ma che ha il vantaggio di essere sufficientemente vicino a Lviv (Leopoli), sulla strada verso l’occidente.

È questa l’Odissea dei profughi ucraini in fuga da Kiev. Nella grande stazione della capitale i convogli sono letteralmente presi d’assalto. Tutti si lanciano sui treni migliori – quelli per Lviv o i diretti per il confine polacco. La gente urla e si spintona, e in molti restano a terra. Chmel’nyc’kyj è una sorta di compromesso: per ora arriviamo fin lì, poi si vedrà.

La Kiev che ci siamo lasciati alle spalle è ormai una città fantasma. I negozi sono tutti chiusi, le strade vuote, i semafori lampeggianti. Ci abbiamo trascorso una settimana, sufficiente per renderci familiare il miagolio lugubre dell’allarme aereo. Ogni notte suona almeno quattro o cinque volte, nel silenzio immobile delle strade deserte.

Maidan, la piazza dove nel 2013 scoppiò la rivoluzione, è oggi occupata in buona parte da un immenso posto di blocco. Le uniche presenze visibili sono quelle dei militari in assetto da guerra.

Vicino alla cattedrale di Santa Sofia c’è la distribuzione delle armi ai civili. I kalashnikov sono visibilmente vecchiotti, ma sembra che nessuno ci faccia caso. Con l’Ak viene consegnata anche una fascia gialla da mettere al braccio: è l’emblema della «Difesa territoriale», la nuova milizia voluta da Zelensky.

Igor, che deve aver superato la sessantina ormai da un pezzo, era uno dei neoarruolati di ieri: «Questa è la mia città, non l’abbandonerò nemmeno se dovessero raderla al suolo – ci ha detto sorridendo – In tanti se ne sono andati, ma io no. Quando arriveranno i russi sarò qui ad aspettarli».

In generale, lo spirito combattivo è molto alto. I vecchi cartelloni pubblicitari sono stati sostituiti con grandi scritte che invitano i soldati russi ad andarsene e abbandonare le armi. «Putin fottiti!», si legge su un muro.

Pronunciare la parola «Kiev» – alla moscovita – invece di «Kyiv» – secondo la pronuncia ucraina – è una gaffe che può costare più di qualche sguardo gelido. Il nervosismo, giustificatissimo, c’è e si respira costantemente nell’aria.

Sergio, che ha lavorato per anni con le aziende del nostro Paese e parla un ottimo italiano, è uno dei pochi che ha deciso di restare pur senza impugnare le armi.

Oggi vive nel sotterraneo di un caseggiato del centro, con due bottiglie d’acqua, qualche sacchetto di cibo e un paio di materassi buttati sul pavimento: «Qui a Kiev c’è tutta la mia vita – sorride -, che dovevo fare?».

La paura più grande è ovviamente quella delle bombe. Tutti sono rimasti sconvolti dalle immagini dei bombardamenti su Kharkiv. Ci si chiede: Putin farà lo stesso anche a Kiev?

Per ora le vie del centro sono state risparmiate. Qualche ordigno è caduto tra Podil e Lavra, ma si è trattato di episodi isolati: i russi – dicono – volevano colpire gli edifici dei ministeri. Forse hanno sbagliato mire. Dove si combatte sul serio è a nord, lungo la cintura urbana, vicino all’aeroporto.

Il villaggio di Bucha è il più conteso: per raggiungerlo da sud bisogna attraversare i resti di un ponte distrutto, risalendo la lenta marea di sfollati che si accalca senza sosta.

I boati della battaglia sono così forti che si sentono fino a venti chilometri di distanza. A Obolon, poco più a nord del centro di Kiev, i russi sono arrivati alcuni giorni fa e sono stati respinti. Oggi i cittadini del quartiere scavano trincee e fabbricano bottiglie Molotov.

Anche l’ospedale pediatrico Ohmadet è stato colpito dalle bombe. Qui, a poca distanza dalla stazione, sono ricoverati circa trecento bambini, quasi tutti affetti da gravi patologie o reduci dalla sala operatoria. Sgombrarli non è stato possibile, li si è dovuti trasferire nelle cantine.

Oggi vivono lì, sdraiati sul pavimento in terra battuta. I medici assicurano che non si potrà resistere a lungo in simili condizioni: «La situazione igienico-sanitaria è disastrosa – ci hanno detto – Abbiamo bisogno dell’aiuto dell’Europa, abbiamo bisogno della pace. Se non ci sarà la pace molti di questi bambini moriranno».

La pace però è una grande chimera. Che Putin possa fare dietrofront non lo crede nessuno. Si parla di corridoi umanitari, ma il timore è che si facciano sfollare gli ultimi civili per poter avere mano libera con i bombardamenti a tappeto.

Il Manifesto edizione del 6 marzo 2022

Assalto alla stazione di Kiev, la speranza è Leopoli

Abbiamo attraversato l’Ucraina assieme ai profughi in fuga dalla guerra. Da Kyiv a Leopoli, 540 chilometri, due giornate di tragitto. Abbiamo viaggiato su treni affollati all’inverosimile, privi di riscaldamento e sferzati da tormente di neve. Nonostante siano trascorsi ormai dodici giorni, tredici con oggi, dall’inizio dell’invasione russa, la stazione della capitale ancora rigurgita di folla. Tutti vogliono andare a Leopoli, ma i treni per Lviv arrivano dall’est e sono già strapieni di disperati. La gente si avvicina alle carrozze, si accalca attorno alle porte, bussa, urla. Niente da fare. L’unica è dirigersi altrove, puntando comunque verso ovest e cercando così, in qualche modo, di avvicinarsi alla meta.

«Andate a Chmel’nyc’kyj – ci suggerisce una donna -. A Chmel’nyc’kyj si può andare». Ed è vero. Anche il treno per Chmel’nyc’kyj è pieno, perché Chmel’nyc’kyj è a 350 chilometri da Kyiv e a Chmel’nyc’kyj la guerra non è ancora arrivata. Riusciamo a trovare posto nel passaggio tra una carrozza e l’altra, davanti a una porta che getta spifferi gelati. La temperatura è quella dell’esterno, cioè meno due gradi. Con noi, in non più di quattro metri quadrati, ci sono altre otto persone. Sono donne, bambini e anziani, perché gli uomini in età militare non possono lasciare il Paese e sono già quasi tutti sotto le armi. Chiediamo a una delle nostre vicine da dove è cominciato il suo viaggio. Ci risponde con una sola parola: «Kharkiv» – come se non ci fosse bisogno di aggiungere altro. Ciascuna di queste persone, qui, attorno a noi, porta con sé ricordi terribili di morte, case distrutte e lutti improvvisi.

Non tutti hanno voglia di parlarne. Il viaggio per Chmel’nyc’kyj dura circa otto ore. Arriviamo a destinazione che è notte. Le banchine sono buie e gelate, la piccola stazione già è colma di gente in attesa. Ci sono dei volontari, in pettorina arancione, che si danno da fare per distribuire un po’ di bevande calde e qualche panino. Uscire dallo scalo non si può, perché è già scattato il coprifuoco e la piazza della cittadina rigurgita di militari e uomini della Difesa Territoriale in assetto da guerra. Quando partirà il treno per Leopoli? «Patòm», dice il capostazione – “dopo”. Il nostro patòm sarà la mattina seguente alle 9.

Col sorgere del sole la folla si è riversata nuovamente all’esterno, immobile nella tensione dell’attesa. Anche questo convoglio riesce ad accoglierci, seppur con fatica. Viaggiamo ancora in piedi, perché il pavimento è fradicio e colmo di spazzatura, e comunque non ci sarebbe lo spazio nemmeno per accoccolarsi. Dopo tre ore il treno si ferma tra due palazzoni grigi. La scritta in cirillico recita: «Ternopil». Consultiamo le mappe sul telefonino.

A Leopoli mancano ancora più di cento chilometri. Vediamo la gente agitarsi, perché la locomotiva sembra non aver intenzione di ripartire. Poi sul marciapiedi spunta un uomo in divisa: «Kharkiv! – grida – Kharkiv!». Il convoglio è pronto a fare marcia indietro, e ciò significa che bisogna scendere in fretta. Ci ritroviamo ai piedi delle scalette, che sui treni ucraini sono altissime e ripide. Aiutiamo a scaricare passeggini, zaini, bimbi in età d’asilo. Un signora anziana ha le gambe che le tremano: tocca sorreggerla in due persone, e lei continua a ripetere «Spasiba, spasiba», grazie, come fosse una preghiera. Ripartiremo di lì a qualche ora, bianchi di neve e con i piedi ormai insensibili a causa del gelo.

Anche a Leopoli c’è la tormenta. Quando siamo partiti da qui, dieci giorni fa, la folla dei profughi occupava l’intera sala d’attesa della stazione. Ora la gente ha iniziato ad accamparsi anche nella piazza, dove è stato allestito un piccolo campo d’accoglienza. Il nostro viaggio finisce qui, quello dei nostri compagni di treno durerà ancora molti giorni. Per arrivare in Polonia mancano ancora cento chilometri, che sono anche i più duri. Cosa verrà dopo, ancora nessuno può saperlo.

Il manifesto edizione dell’8 marzo 2022

Per chi sventola la bandiera rossa nella terra contesa del Donbass

Nel centro di Donetsk, su un piedistallo di marmo, sorge una grande statua di Lenin. Ci sono anche tante bandiere rosse, a Donetsk, come quelle che si sono viste sventolare negli scorsi giorni sui carrarmati in corsa verso ovest.

Quando sono andato per la prima volta in Donbass, nel 2014, speravo di poter raccontare una nuova guerra di Spagna. Mi ero lasciato illudere da tutte quelle bandiere (anche se veder sventolare una bandiera rossa su un tank invasore un po’ dovrebbe far riflettere), dagli slogan antifascisti e dal “No pasaran!” scritto a caratteri cubitali sulla “Doma administratsiya” di Donetsk.

Ma poi avevo visto anche altre cose. C’erano le bandiere zariste, quelle putiniane, e c’erano i centinaia di volontari di estrema destra che erano venuti a combattere sotto quelle insegne.

Ho poi capito che l’antifascismo, a Donetsk, è ben diverso dal nostro. L’antifascismo, per i russi, è l’Armata patriottica di Stalin che respinge l’invasore tedesco (deriva da qui il concetto di “denazificazione” utilizzato da Putin, che non significa la sconfitta del nazismo come ideologia reazionaria, ma più genericamente la sconfitta dei nemici della Russia).

LA BANDIERA ROSSA simboleggia il potere imperiale sovietico, che aveva barattato l’uguaglianza col sogno di dominare il mondo. Perciò la falce e martello, a Donetsk, non era poi così in antitesi con i ritratti di Nicola II e le tesi dei suprematisti russi – e accorgersene, stando lì, non era per nulla difficile.

Un giorno, dovendo trascorrere una mezza mattinata con un leader locale del Partito comunista del Donbass – e parlando io poche parole di russo e lui nessuna d’inglese – volli provare a fare un gioco. Gli elencai alcuni personaggi storici, chiedendogli di farmi capire chi gli piacesse e chi no. I nomi di Stalin e dell’ultimo zar furono accolti con un sonoro «karasciò». Più moderato fu l’entusiasmo per Mussolini – che in fondo li aveva invasi ma era pur sempre un nazionalista – mentre Lenin fu salutato con una mezza storta di naso. I più strapazzati furono Marx ed Engels, che il mio interlocutore bollò con un lapidario aggettivo – «Pederàst, finocchi». Ma in fondo è l’ironia delle parole, che una volta svuotate del concetto possono voler dire qualunque cosa.

Così le insegne bolsceviche – che nel 1917 simboleggiavano l’unione della classe operaia mondiale contro la guerra – oggi vengono fatte sventolare da giovani coscritti che ammazzano altri giovani coscritti in nome della patria e dei sacri confini. Nel 1956, quando i carri russi entrarono a Budapest, Ignazio Silone si indignò contro chi parlava dell’intervento delle «truppe sovietiche contro gli insorti ungheresi»: «Il rispetto della verità – scrisse – esigerebbe che si dicesse “le truppe imperialiste russe contro i soviet dell’Ungheria”». Ora è più o meno la stessa cosa, con l’unica differenza che non ci sono soviet né da una parte né dall’altra.

Il manifesto edizione del 17 marzo 2022

Tenaglia russa sul Donbass. Cade Liman, città resistente

«Niet, niente giornalisti, nié pressa, di qui non si passa». Il soldato al posto di blocco scuote la testa, ci restituisce i documenti e ci fa cenno di fare dietrofront. Dove sono i russi? Non lo sa nemmeno lui, ma la sensazione è che siano fin troppo vicini.

Il villaggio di Pokrovs’ke, che fino a due settimane languiva nel cuore delle retrovie, oggi si è trasformato in un campo di battaglia. Volodymyrivka è già caduta, così come Pylypchatyne e Trypillya. E Klynove? «Pidisiat i pidisiat», ci dicono, cinquanta e cinquanta.

SIAMO ALLA PERIFERIA EST della città di Bakhmut. Da qui parte la lunga autostrada che collegava il Donbass occidentale con la città di Severodonetsk assediata dai russi – «la nuova Mariupol», come l’ha soprannominata la stampa di mezzo mondo. Bakhmut dista una quarantina di chilometri da Sloviansk e altrettanti da Kramatorsk, e il fatto che le truppe di Putin siano già arrivate fin qui – come testimoniano gli incessanti colpi d’artiglieria, la presenza di campi minati lungo le strade e il continuo afflusso di truppe e carri armati – decisamente non è un buon segno.

Lo ha ammesso apertamente lo stesso presidente Zelensky, in un discorso tv di due giorni fa: «La situazione più difficile è nel Donbass – sono state le sue parole – Nessuno, prima dell’esercito russo, aveva portato tanta distruzione nel Donbass».

Al momento, oltre che a Severodonetsk – a est – e nella zona di Bakhmut – a sud – i reparti di Putin stanno facendo pressione anche sul fronte settentrionale. Ieri sera i soldati di Kiev avrebbero definitivamente abbandonato la cittadina di Liman, che per settimane era stata uno dei simboli della resistenza a nord di Sloviansk.

RITIRANDOSI, i reparti sconfitti avrebbero fatto saltare l’unico ponte ancora transitabile sul fiume Severskij Donetsk, che coronava una piccola diga in cemento. Non ci vuole l’acume di uno stratega per comprendere quale sia la strategia del Cremlino: stringere il Donbass in una grande tenaglia, spezzare le vie di rifornimento e chiudere in una sacca tutti i reparti nemici. È quello che sta succedendo a Severodonetsk, la cui capitolazione secondo molti è solo questione di giorni.

L’ormai ex capitale dell’oblast di Lugansk è oggi assediata su tre lati. L’unico ponte d’accesso ancora intatto – o meglio, ancora in piedi – si trova alla periferia nord-ovest, a poche centinaia di metri dalle postazioni russe. Per raggiungerlo e superarlo, però, bisogna percorrere diverse decine di chilometri in piena campagna – spesso allo scoperto – fino alla città di Sivers’k, anch’essa insidiata dalle truppe avversarie.

E poi via, per strade sterrate ingombre di camion e carri armati, fino a Lishichansk, sempre sotto la mira degli artiglieri di Mosca. Da qui deve transitare ogni cosa: i rifornimenti militari, i viveri, l’acqua, i feriti e i profughi in fuga – almeno finché i russi non decideranno di strappare anche questo ultimo cordone ombelicale.

È QUELLO che hanno già fatto, del resto, conquistando la famosa autostrada Bakhmut-Severodonetsk, la cui caduta, tre giorni fa, ha reso ancor più difficile la vita agli ucraini. Oggi a Severodonetsk si combatte casa per casa.

I reparti di Putin sono entrati in città a est e a sud, mentre le loro artiglierie lavorano soprattutto da nord. Ieri sera il magazzino degli aiuti umanitari – tra le cui mura di cemento sono trasportati ogni giorno decine di civili in fin di vita – è stato colpito da alcuni proiettili. Quattro volontari sono rimasti feriti, uno in modo grave.

IN DUE SI SONO RIFIUTATI di farsi trasportare in ospedale e hanno chiesto di restare lì, a compiere quello che dovrebbe essere il dovere di ogni essere umano – tendere la mano al prossimo, non ammazzarlo. Per quanto potrà ancora resistere Severodonetsk? Alcuni reparti ucraini – esasperati dal massacro – avrebbero già minacciato di arrendersi, ma c’è anche chi è intenzionato a resistere a oltranza.

Se così fosse, il parallelismo con Mariupol potrebbe persino rivelarsi appropriato. All’estrema periferia ovest della città, con alle spalle il fiume e l’ultimo ponte superstite, c’è un grande complesso industriale di epoca sovietica. Non si chiama Azovstal, ma Azot.

Potrebbe essere questa l’ultima roccaforte dei difensori di Severodonetsk? Alla Azot ci siamo stati circa dieci giorni fa, quando gironzolare per la città sotto assedio era ancora qualcosa di fattibile. Abbiamo visitato i bunker attigui alla fabbrica, nelle cui viscere vivevano circa 200 civili impauriti – perlopiù anziani, donne e bambini.

CHE NE SAREBBE DI LORO, se l’ultima battaglia dovesse svolgersi proprio laggiù? È una domanda che si stanno ponendo in tanti, e non solo a Severodonetsk. A est di Bakhmut i villaggi sono ancora pieni di civili.

In molte zone non c’è più né acqua, né luce, né gas, ma la gente non ha alcuna intenzione di andarsene. Alla canonica domanda «Kak situazia?», la risposta è sempre la stessa: «Ploha». Le cose, cioè, vanno sempre peggio. Vadim, un abitante di Bakhmut, ha appena finito di seppellire otto suoi vicini di casa.

Era ora di pranzo e le famiglie erano sedute a tavola, quando un proiettile d’artiglieria russo ha centrato in pieno il condominio. Addio pranzo e addio famiglie. «Proprio a cento metri da noi si era piazzata una batteria ucraina – racconta Vadim – Credo che quelli volessero beccare i nostri, forse hanno soltanto sbagliato mira».

DI STORIE SIMILI nel Donbass ne abbiamo ascoltate parecchie, su un fronte e sull’altro. Un tank prende posizione in un’area residenziale, apre il fuoco e poi si eclissa; il nemico risponde al fuoco e inevitabilmente colpisce qualche palazzo. La propaganda afferma: «Lo vedete? Il nemico spara sui civili». Cose che succedono, quando si comincia a fare la guerra.

Il Manifesto  del 27 maggio 2022

Severodonetsk è sola. «O resa o annientamento»

Da circa 24 ore la città di Severodonetsk è completamente isolata dal resto del Donbass. L’unico ponte rimasto in piedi sul fiume Severskij Donec – che divide l’ormai ex capitale dell’Oblast’ di Lugansk dalla vicina Lishichansk, ancora saldamente in mani ucraine – è saltato nella notte tra giovedì e venerdì. Oggi nessuno può più entrare o uscire dalla città, civili compresi. Per i circa 10mila soldati di Kiev rimasti asserragliati tra le case distrutte si prospetta un destino tutt’altro che invidiabile: «O la resa o l’annientamento», come ha dichiarato ieri pomeriggio il portavoce delle milizie della repubblica separatista di Lugansk, Andréi Marochko.

LA NOTIZIA della distruzione del ponte ha cominciato a circolare nella mattinata di ieri, mentre nuove nuvole di fumo si alzavano verso est, sull’orizzonte piatto del Donbass. «Most kaputt», ci ha annunciato incrociando gli avambracci un soldato di guardia a un posto di blocco. Per giorni, dopo che le unità di Putin avevano preso il controllo dell’autostrada Bakhmut-Severodonetsk, i comandi ucraini si erano industriati per mettere in piedi una via di rifornimento alternativa che garantisse un minimo d’ossigeno alla città. L’itinerario – che noi abbiamo percorso ieri per la seconda volta in tre giorni – corre attraverso villaggi semidistrutti e scomode stradine di campagna. Fino alla cittadina di Siversk’ – 60 chilometri da Kramatorsk – per terra c’è ancora un po’ d’asfalto. Poi si passa allo sterrato, che da queste parti si traduce in una continua gincana tra dune polverose, cavalli di frisia e ponticelli pericolanti.

Tuttavia, per quanti mezzi possano essere lanciati su questa nuova direttiva, da oggi neanche uno di essi arriverà mai a Severodonetsk. Abbiamo gironzolato per le strade di Siversk’, incrociando di tanto in tanto gli sguardi cupi di qualche sparuto gruppo di civili. Qui – come altrove – non è rimasto più nulla. Nell’unico negozietto rimasto aperto si vendono unicamente biscotti secchi, acqua in bottiglia e insaccati industriali. Non è rimasto altro. Non c’è più luce né gas, e anche la linea telefonica ha smesso di funzionare. «Ci avevano promesso gli aiuti umanitari – spiega una signora dai capelli precocemente incanutiti -, ma chi li ha mai visti? Una mia vicina ha iniziato ad allevare le nutrie. D’altronde si possono mangiare anche quelle, ed è sempre meglio che morire di fame».

COSA C’È DA VEDERE a Siversk’? L’attrazione principale, da tre mesi a questa parte, sono i crateri delle bombe. Ce ne sono in ogni via, e ovunque c’è qualche civile disposto a scortarti fin sul posto. «Questa qui è molto grande – annuncia un anziano indicando la voragine di un Grad -. Ma sapete? Se andate laggiù in fondo, oltre quel palazzo, ce n’è una ancora più grande…». Quali sono le speranze di questa gente? Vogliono che vinca l’Ucraina o la Russia? Oppure non gliene importa nulla, purché le nutrie possano tornare a razzolare nei fossi e i Grad se ne stiano chiusi nei loro arsenali? Difficile dirlo. Quel che è certo, almeno stando alle cronache degli ultimi giorni, è che la pace resterà un’utopia ancora per molto tempo.

Dopo aver chiuso in una morsa Severodonetsk – che presumibilmente verrà lasciata al proprio destino – Putin potrebbe replicare lo stesso schema anche altrove. È dell’altro ieri la notizia della caduta di Lyman, che da Sloviansk dista meno di trenta chilometri. Anche qui, gli ucraini si sarebbero ritirati oltre il fiume Severskij Donec, facendo saltare l’ultimo ponte ancora transitabile. Il guado del corso d’acqua non sarà cosa facile – i russi ci hanno provato già più volte nelle scorse settimane, ma i loro movimenti sono sempre stati intercettati per tempo dai droni dell’esercito di Kiev. Però resta in ballo il fronte sud, che da Popasne si sta allungando in direzione di Bakhmut – e lì non ci sono né fiumi né torrenti a frenare l’avanzata dei russi.

IERI POMERIGGIO, proprio a Bakhmut, l’artiglieria di Mosca ha colpito un grosso stabilimento industriale. Il fumo era visibile a chilometri di distanza, tra il boato dei missili e i sibili della contraerea. Qui tutto sembra ormai pronto a contenere la prossima avanzata degli invasori. Le strade della cittadina – 73mila abitanti nel 2021 – rigurgitano di soldati e mezzi militari. Gli uomini ai block post appaiono sempre più sbrigativi e nervosi, così come i molti residenti che hanno deciso di restare nonostante la guerra.

Dove sia esattamente il fronte non è chiarissimo, ma tutti i territori che si estendono a nordest dell’autostrada M03 – che giungendo da Sloviansk sfiora l’estrema periferia del centro abitato – sono considerati piuttosto insicuri. Molte strade sono state minate e le batterie di Grad si spostano con nonchalance tra le strade del centro. Billy Nessen, un volontario newyorchese che fino all’altro ieri viveva nel centro per gli aiuti umanitari di Severodonetsk, è una delle poche note stonate in questo paesaggio uniforme fatto di verde mimetico e fumo grigio.

Barba incolta da avventuriero, capelli arruffati, 65 anni portati benissimo e un figlio di tre che lo aspetta negli States. Il suo sogno oggi è quello di tornare a Severodonetsk (che lui, all’americana, ha ribattezzato «Siwìro»), dalla quale è stato evacuato controvoglia e dove altri volontari come lui continuano a darsi da fare per soccorrere i civili rimasti intrappolati sotto le bombe. Sembra una follia, ma Billy sostiene di aver sentito parlare di un nuovo percorso alternativo che non contempla l’utilizzo di ponti ma implicherebbe, in compenso, uno spericolato guado del fiume in mezzo alle sparatorie. «Guys, I can do it», sostiene sorridendo. Noi, in cuor nostro, speriamo veramente che ce la faccia.

Il Manifesto  del 28 maggio 2022

La «normalità» delle bombe a Lyshichansk, città zombie

I soldati si sono messi al riparo sotto un albero. Hanno gli occhi stanchi e le mani sporche di polvere. Sono seduti a terra, in mezzo all’erba verdissima e scompigliata dal vento.

Sembrano esausti, e certamente lo sono. Un paio si sono persino messi a dormire. Gli chiedi: «Odkuda vy? Da dove venite?».

QUELLI INDICANO un punto indefinito, oltre il curvone in fondo alla strada: «Severodonetsk», dicono. Poi tornano ad abbassare la testa. Abbiamo trascorso una mattinata per le strade di Lyshichansk, l’ultima città sotto controllo ucraino a ovest del Severskij Donec.

Severodonetsk – «la nuova Mariupol», come l’hanno ribattezzata i giornali – è per l’appunto laggiù, dall’altra parte del fiume. Il ponte che collegava i due centri abitati è stato abbattuto nella notte tra giovedì e venerdì e da allora l’ormai ex capitale dell’oblast’ di Lugansk è isolata dal resto del Paese.

Avremmo voluto raggiungere le macerie del ponte, ma i soldati non ce l’hanno permesso – è troppo pericoloso, dicono, i russi sono appostati sull’altra sponda e sparano in continuazione. Lungo il curvone accanto a noi sfilavano piccoli convogli di camion e carri armati.

Cosa esattamente stia accadendo a Severodonetsk in fondo non lo sa nessuno. Le fonti russe hanno annunciato la «liberazione» di due terzi del tessuto urbano, condendo il proclama con un poco rassicurante monito nei confronti dei combattenti di Kiev: «Chi non si arrende verrà liquidato».

DAL CANTO LORO, gli ucraini sostengono di aver scatenato una serie di controffensive vittoriose, costringendo il nemico a una parziale ritirata.

Dalla collina di Lyshichansk – che dall’alto domina la città gemella – tutto ciò che abbiamo potuto vedere sono state le nuvole di fumo degli edifici in fiamme e i continui lampi delle esplosioni.

Prima della guerra a Severodonetsk vivevano circa 110mila persone, nove decimi delle quali sono riuscite a mettersi in salvo alla vigilia della tempesta. Chi è rimasto vive sepolto nei bunker e nelle cantine, in attesa di un’alba che oggi più che mai sembra lontana. Anche a Lyshichansk il clima è plumbeo.

Qui i russi non sono ancora arrivati – per farlo dovranno riuscire nell’ardua impresa di guadare il Severskij Donec, finora hanno sempre fallito. Tuttavia, sono vicinissimi, una vicinanza più che mai tangibile.

IMMAGINATE due schieramenti d’artiglieria posizionati l’uno di fronte all’altro, e di trovarvi nel mezzo. Questa è la situazione di Lyshichansk. Quando vai in guerra, impari a riconoscere il fischio acuto dei proiettili in arrivo.

È un suono raggelante, e quando giungi a sentirlo vuol dire che hai pochi secondi per gettarti al riparo in attesa dell’esplosione. In questa cittadina arroccata sulle alture – 95mila abitanti prima del 24 febbraio – quel suono è diventato parte della vita quotidiana.

Non sempre le bombe scoppiano tra le case, il più delle volte si limitano a volarci sopra, per poi schiantarsi una manciata di chilometri più a est, se provengono dai cannoni ucraini, o verso ovest, se esplose dai russi.

L’effetto è lancinante, è come trovarsi puntato in faccia un kalashnikov ogni volta che si gira l’angolo della strada. Ma la gente qui sembra essersi abituata anche a questo.

Abbiamo visto uomini e donne camminare tranquillamente sul marciapiedi mentre missili e Grad fischiavano sopra loro teste. Una donna, palesemente ubriaca, è passata saltellando vicino alla nostra macchina. Rideva da sola, in preda a chissà che pensieri.

NEL CORTILE di un condominio un ragazzino ci ha inseguito per mezz’ora chiedendo inutilmente una sigaretta. «U nas net sigaret», gli ripetevamo noi. Ma lui sembrava non capire e continuava a venirci dietro trascinando i piedi, con un ghigno vuoto dipinto sul volto. È questo l’effetto di tre mesi di bombe?

A Lyshichansk non c’è più luce né gas né acqua corrente. La gente ha smesso di lavarsi; si cucina all’aperto, direttamente sul fuoco dei falò. Gli aiuti umanitari? In pochi li hanno visti. In giro vedi solo volti smagriti, con la postura da zombie e gli sguardi persi nel nulla.

PROPRIO nel punto più alto della città, di fronte alla conca fumante di Severodonetsk, sorge un grande palazzo di otto piani. Abbiamo scalato a piedi tutte e sedici le rampe di scale, fino a raggiungere gli appartamenti del sottotetto. Qui, tra porte sfondate e vetri in frantumi, ci siamo imbattuti in una vecchina piccola e secca, con un fazzoletto a righe stretto sotto il mento.

«Gdié vasha doma?», le abbiamo chiesto. Ci ha risposto che la sua casa è proprio lì, all’ottavo piano, e che lì – nonostante tutto – lei continua a vivere e dormire.

«Nié bunker?», abbiamo insistito. Lei ha fatto un gesto scherzoso con la mano, come a scacciare un pensiero buffo e senza senso. «Eta maià doma», ha ripetuto un paio di volte: questa è casa mia. Così si vive, sotto le bombe, nella città di Lyshichansk.

Il Manifesto  del 29 maggio 2022

Senza Severodonetsk, il fiume è l’ultima trincea del Lugansk

Farsi ammazzare, a Severodonetsk, è molto più facile di quanto si possa pensare. Immaginate una città circondata su tre lati da un esercito ostile.

Nelle periferie si combatte casa per casa, significa che ci sono cecchini appostati sui tetti, e ogni essere umano che indossa una divisa di un altro colore – o che non indossa divise, come nel caso di giornalisti e civili – rischia di essere annientato al minimo cenno di movimento. Le bombe cadono in continuazione, e nessuno – nemmeno gli artiglieri che le lanciano – sa con esattezza dove andranno a cadere.

IERI A SEVERODONETSK è morto un collega, il reporter francese Frèdèric Leclerc Imhoff, della tv Bfm. Aveva 32 anni. Era giovane, molto giovane, come la maggior parte dei cronisti presenti oggi sul campo.

Frèdèric stava seguendo un’evacuazione di civili. Era a bordo di un furgoncino blindato della polizia dell’oblast’ di Lugansk. Un ordigno è esploso sulla strada, la scheggia ha forato le lamiere del veicolo e gli ha tranciato di netto la gola – fine della storia. Ieri questo è successo a Frèdèric, ma poteva capitare a qualunque altro giornalista, internazionale e non.

I furgoni blindati della polizia di Lugansk altro non sono – nella maggior parte dei casi – che vecchi camioncini portavalori ripitturati di verde. Ci siamo saliti anche noi, giusto qualche giorno fa, perché a Severodonetsk le evacuazioni avvengono quotidianamente e sono una delle cose che più vale la pena raccontare.

Ma nessuno, nemmeno la Croce rossa, può dirsi al sicuro su quelle strade. «Quando sentite i fischi delle schegge avete un massimo di due secondi per buttarvi a terra», ci avevano avvisato i volontari prima di farci montare a bordo – e di sibili nell’aria, quel pomeriggio, ne abbiamo uditi veramente parecchi.

OGGI, CON LA MORTE di Frèdèric, sale a circa trenta il numero dei giornalisti ammazzati in questi primi tre mesi di guerra. Al computo vanno aggiunti i nomi dei tanti colleghi uccisi tra il 2014 e il 2022 – a cominciare da Andy Rocchelli e Andrej Mironov, annientati a colpi di mortaio esattamente otto anni fa, mentre facevano il loro dovere di reporter di fronte alle postazioni dell’esercito ucraino.

Ma le bombe – e con loro chi le manovra – non guardano in faccia alle qualifiche professionali, né si fermano di fronte all’indignazione della società civile.

A Severodonetsk ieri è stata altra giornata di battaglia. Il leader dei combattenti ceceni, Ramzan Kadyrov, ha dichiarato che la città è ormai «interamente sotto il controllo russo».

Ciò nonostante questo non corrisponde al vero, perché in tal caso la polizia dell’oblast’ di Lugansk non avrebbe potuto nemmeno mettersi al volante. È certo, tuttavia, che le truppe di Mosca stanno facendosi avanti con sempre maggior decisione.

I VOLONTARI del magazzino per gli aiuti umanitari – che si trova più o meno al centro della città – ci hanno fatto sapere che in questo momento i russi «sono praticamente alla porta accanto».

È probabile che i soldati ucraini cercheranno di trincerarsi nel grande stabilimento Azot, le cui ciminiere dominano la periferia ovest di Severodonetsk e che potrebbe rappresentare l’ultimo baluardo difensivo prima della capitolazione definitiva.

D’altronde, tutti sono più o meno concordi nel dare ormai per spacciata la città. Le macerie dell’unico ponte superstite sul fiume Severskji Donec – che collega il centro abitato con il resto del Donbass ucraino – sono forse ancora transitabili, ma il rischio di crollo, unito al fuoco incessante delle batterie russe, rende ogni passaggio quantomeno opinabile.

Insomma: Putin a breve potrebbe anche averla vinta, ma è proprio a quel punto che si troverebbe a cospetto dell’ostacolo più formidabile – il fiume stesso.

Più volte, nel corso delle ultime settimane, gli uomini di Mosca hanno tentato di guadare il corso d’acqua, ma immancabilmente i droni di Kiev hanno vanificato ogni accenno di sortita. Del resto, un ponte galleggiante non è qualcosa che si possa far passare inosservato e per buttarlo giù non è nemmeno necessaria chissà quale pioggia di fuoco.

DUNQUE, IL NOCCIOLO più o meno è questo: se i russi riusciranno a costruire una testa di ponte al di là del Severskji Donec, è probabile che la presa dell’ex capitale dell’oblast’ di Lugansk possa tradursi in una vittoria strategica, oltre che propagandistica.

In caso contrario, Mosca dovrà accontentarsi dei soliti proclami, delle ormai classiche sfilate di civili festanti (le cui immagini già stanno circolando sui social) e di altre amenità simili. Tutto ciò, al netto dei morti, dei lutti e delle macerie – s’intende.

UNA SITUAZIONE molto simile si sta verificando sul fronte settentrionale, nella zona di Lyman: anche qui i russi l’hanno ormai avuta vinta sugli ucraini, anche qui dovranno presto vedersela col fiume.

Il Manifesto del 31 maggio 2022

Nelle pieghe dolorose della guerra i tanti volti del dissenso

Nei cuniculi di una cantina divenuta bunker non ci si può abituare a vivere. Eppure succede. Vecchi dvd, fornellini di fortuna e qualche branda che con l’arrivo dell’estate non è neanche più così fredda. Nel Donbass dove infuria la battaglia ci sono civili intrappolati che da mesi vivono sotto terra. Non vogliono lasciare la casa che è sopra, seppur col tetto ormai bucato. Alexander ha la casa nella periferia di Krematorsk. La fabbrica dove lavorava è chiusa. Sua moglie e sua figlia sono scappate, lui è rimasto a controllare gli animali che ha in casa, cerca cibo e beni di prima necessità col baratto. «A me non interessa chi vincerà questa guerra, io ho già perso tutto». La galassia di chi si oppone a questa guerra è composita, difficile da raccontare. La guerra di Alexander è di logoramento e solitudine, come per lui, per molti.

A LISICIANKS, GLI ANZIANI che hanno deciso di restare, con i russi ormai alle porte, non si aspettano nulla. Nei rifugi dove i botti delle esplosioni si sentono nitidamente, il frastuono della propaganda invece è silenziato. Qui nessuno crede a liberatori ed eroi. C’è solo il delirio della guerra ad essere vissuto. Nella metropolitana di Karkhiv c’è un giovane ucraino con un passato in Italia. Lui da mesi si nasconde tra case di campagna e rifugi in metropolitane. Non vuole combattere, non ha per nulla voglia di rispettare l’obbligo di arruolamento in questi mesi di guerra. «Non sono l’unico, in molti sono scappati verso ovest. Ci si organizza in chat segrete su Telegram. Dai mille ai duemila dollari costa il viaggio. Si corrompono i militari ucraini al confine e via».

IN MOLTI INVECE STANNO arrivando in Ucraina, per unirsi alla battaglia, per lotte politiche da portare avanti. I bielorussi della rivoluzione tradita a Minsk, quella repressa nel sangue da Lukashenko hanno deciso di formare il battaglione Kastus Kalinouski. Combattono al fianco degli ucraini, come Dima. «Per me l’Ucraina oggi è il terreno di scontro ideale per abbattere l’idea di Russia che vuole incidere in altri Paesi. Come fa Vladimir Putin con noi in Bielorussia non deve più accadere. Io sono stato in carcere diverse volte a Minsk, solo per aver espresso le mie posizioni anti-Lukashenko. Sono scappato prima in Lituania, attraversando i boschi, lì poi ho trovato protezione, asilo politico. Avevo trovato anche lavoro come taglialegna. Poi però ho sentito di dover fare qualcosa. Ho seguito l’addestramento e ho deciso di partire. I video di battaglia li mando a mia moglie e ai miei due figli rimasti a Vilnsu. Devono capire cos’è la guerra in difesa della libertà». Dima è ormai imbottito di propaganda anti-russa, è difficile capire quanto di lucido sia ancora vivo nella sua resistenza politica. Dice di combattere col mito del criminale di guerra Stepan Bandera e che tutto è legittimo in questa guerra contro Putin.

TRA I VOLONTARI CHE si uniscono all’esercito di Kiev ci sono anche tanti ceceni, che mal digeriscono l’asse Ramzan Kadyrov (presidentissimo ceceno) con Putin. I battaglioni dei ceceni in supporto ai russi sono famigerati per la loro efferatezza e per incursioni prive di paura. A Severodonetsk passeggiano le truppe cecene, sventolano bandiere di vittoria mentre le truppe ucraine provano a resistere ancora. Una delle figure di spicco del dissenso ceceno è Abubakar Yangulbaev. Per anni ha provato a resistere nella capitale cecena, a Groznyj. La sua opposizione non ha trovato vita facile. Abubakar è un avvocato, non ha deciso d’imbracciare le armi in Ucraina, continua il suo attivismo in una località segreta, braccato dai servizi, dalla rete d’informatori russi che lo cercano. Abubakar è stato sequestrato da Kadyrov in persona, portato nella villa del presidente, pestato a sangue e minacciato. Abubakar mette in fila i dati di tutte le morti in Ucraina tra i battaglioni ceceni, perché il governo di Kadyrov non fornisce i numeri reali delle perdite, evitando anche di risarcire le famiglie. «Io ho perso la mia serenità, la mia vita, ma a questo punto continuo».

ABUBAKAR LO SEGUIAMO in una città del nord Europa. Cambia casa ogni settimana, non ha sim, non può incontrare familiari o amici. Per la prima volta incontra dal vivo giornalisti, tutte le interviste rilasciate fino ad oggi sono sempre e solo state da remoto. Il dissidente fa degli esercizi fisici in un parco, dopo aver passeggiato per ore. Sono le uniche cose che ancora può fare liberamente in questa vita da rifugiato. «Sono arrivati al mio punto più debole. Hanno arrestato mia madre. Tramite i miei avvocati mi hanno fatto recapitare un messaggio chiaro. Se rientro in Cecenia potrebbero rilasciare mia madre. Alla fine accetterò il ricatto, ma già so che terranno comunque in carcere anche mia mamma. Il sistema di potere di Kadyrov è spietato e per anni nessuno ha mai fatto nulla a livello internazionale. Solo oggi ci s’impressiona per i Kadyrovtsy, i sanguinari battaglioni ceceni in Ucraina. Noi la subiamo da anni l’ingerenza di Putin in Cecenia».

IL DISSENSO CHE ARRIVA dalla Russia lo incrociamo poi sul volto di un diciottenne che da anni vive in Italia.
Sta tornando in Russia, nella sua San Pietroburgo in bici. Lo sta facendo con un cartello piantato sul manubrio che recita «No War». Al collo tiene stretta la bandiera bianco e celeste, effige proibita in Russia
.
«Per molti come me la bandiera ufficiale russa non rappresenta più noi, persone libere, perché è una bandiera di violenza. Io mi riconosco in questi colori e voglio andare ad urlarlo a San Pietroburgo . Mi arresteranno? Fa nulla, ma io la mia pena la voglio vivere su questa bicicletta, in chilometri da percorrere per attraversare tutta Europa, pedalando, prima dei confini russi. Voglio che le persone che m’incontrano capiscano che non tutti i russi appoggiano la guerra di Putin». Daniil Shedko Andreevich non ha alcuna certezza politica, come in molti di quelli che abbiamo incontrato. Ha però ben chiaro di voler opporsi alla guerra in Ucraina.

Il Manifesto del 19 giugno 2022

𝗜 𝗿𝘂𝘀𝘀𝗶 𝗮𝘃𝗮𝗻𝘇𝗮𝗻𝗼 𝘀𝘂 𝗕𝗮𝗸𝗵𝗺𝘂𝘁. “𝗟𝗲 𝘀𝗽𝗶𝗲 𝗳𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗱𝗮 𝗮𝗽𝗿𝗶𝗽𝗶𝘀𝘁𝗮”

Alla domanda “What’s the situation?”, i soldati ucraini di guardia ai posti di blocco replicano quasi sempre in due modi: “Normal’na”, quando va tutto bene, oppure “Pyat‘desyat i pyat’desyat” – che vuol dire “cinquanta e cinquanta” – se qualcosa nei dintorni sta andando storto. Da qualche giorno a questa parte, lungo le strade che da Bakhmut conducono a Siversk, i militari si limitano ad allargare le braccia e scuotere la testa. Che la situazione sia tutt’altro che buona, in questo estremo lembo di Donbass orientale ancora in mano alle forze di Kiev, lo si può intuire anche solo ascoltando il rombo delle artiglierie.

Il martellamento russo è continuo, e si concentra principalmente sui grandi nodi viari. L’intento – più che palese – è quello di tagliare le gambe all’armata di Zelensky, impedendo l’arrivo dei rifornimenti e ostacolando il ricambio delle truppe al fronte. A Siversk nelle ultime ore sono cascati diversi pezzi di grosso calibro, le cui schegge hanno mandato in frantumi i vetri di centinaia di finestre. “Dormire è diventato impossibile”, racconta Sacha, un pensionato settantenne con i capelli bianchissimi e l’andatura un po’ sbilenca di chi da mesi è costretto a trascorrere le notti su un pancaccio steso in cantina. Anche lui, come molti suoi coetanei, ha preferito restare laddove è nato, esponendosi così al doppio rischio di beccarsi una bomba sulla testa e venir tacciato di simpatie putiniane dai soldati che presidiano la città.

“In tanti ci guardano con sospetto – chiosa lui –. Dicono che siamo rimasti per aspettare l’arrivo dei ‘moscoviti’, che patteggiamo per i separatisti e odiamo il nostro esercito. Io, semplicemente, vorrei trascorrere gli ultimi anni che avrò da vivere qui, a casa mia. E vorrei che non ci fossero più bombe né guerre”. Che tra gli abitanti del Donbass ucraino si celino diversi informatori al servizio del nemico è comunque abbastanza palese. Sabato scorso a Chasiv Yar, una decina di chilometri a ovest di Bakhmut, un razzo russo ha centrato un palazzo uccidendo almeno trenta persone. Proprio in quell’edificio, solo qualche giorno prima, si era trasferito un piccolo contingente di militari ucraini, che avevano trasformato alcuni appartamenti in dormitori. Chi ha trasmesso la notizia ai soldati di Putin? Chi ha fornito loro le coordinate esatte del luogo?

“Purtroppo per fare tutto questo oggi basta un semplice telefonino – ci ha detto un sottufficiale di stanza nella zona –. Alcune spie sono state individuate proprio in questo modo, con un banale controllo dei messaggi inviati sul cellulare. Ma è chiaro che non possiamo sequestrare gli smartphone di tutti i civili dell’Oblast’”. Quel che è certo, mentre le truppe di Mosca avanzano lentamente verso il cuore del Donbass, è che la tensione nell’aria è sempre più palpabile. I controlli ai check point – un tempo perlopiù rapidi e sbrigativi – si sono fatti interminabili. Tutti i documenti vengono fotografati e inviati ai comandi, ai quali tocca dare il via libera per il passaggio di ogni singola vettura.

Lungo le strade sono stati piazzati nuovi cavalli di frisia, che costringono i pochi automobilisti in transito a esibirsi in continue gincane su entrambe le carreggiate. A Bakhmut il clima è incandescente e i civili non escono quasi più di casa. “Gdié ruskie? Dove sono i russi?”, è la domanda che si pongono tutti, mentre il rombo continuo delle artiglierie fa tremare le vetrine dei pochi negozi rimasti aperti. Stando agli ultimi aggiornamenti, le avanguardie di Putin dovrebbero trovarsi a meno di sette chilometri dal centro della città.

A sudest, si combatte alle porte del villaggio di Vesela Dolina, superato il quale si entra nei primi rioni periferici di Bakhmut. L’autostrada M03, che lambisce i sobborghi orientali della città, è stata valicata in più punti dai reparti russi. Presto anche qui i telefonini smetteranno di prendere, e non ci sarà più né acqua né elettricità, e allora vorrà dire che la partita sarà finita sul serio.

«Niet, niente giornalisti, nié pressa, di qui non si passa». Il soldato al posto di blocco scuote la testa, ci restituisce i documenti e ci fa cenno di fare dietrofront. Dove sono i russi? Non lo sa nemmeno lui, ma la sensazione è che siano fin troppo vicini.

Il villaggio di Pokrovs’ke, che fino a due settimane languiva nel cuore delle retrovie, oggi si è trasformato in un campo di battaglia. Volodymyrivka è già caduta, così come Pylypchatyne e Trypillya. E Klynove? «Pidisiat i pidisiat», ci dicono, cinquanta e cinquanta.

SIAMO ALLA PERIFERIA EST della città di Bakhmut. Da qui parte la lunga autostrada che collegava il Donbass occidentale con la città di Severodonetsk assediata dai russi – «la nuova Mariupol», come l’ha soprannominata la stampa di mezzo mondo. Bakhmut dista una quarantina di chilometri da Sloviansk e altrettanti da Kramatorsk, e il fatto che le truppe di Putin siano già arrivate fin qui – come testimoniano gli incessanti colpi d’artiglieria, la presenza di campi minati lungo le strade e il continuo afflusso di truppe e carri armati – decisamente non è un buon segno.

Lo ha ammesso apertamente lo stesso presidente Zelensky, in un discorso tv di due giorni fa: «La situazione più difficile è nel Donbass – sono state le sue parole – Nessuno, prima dell’esercito russo, aveva portato tanta distruzione nel Donbass».

Al momento, oltre che a Severodonetsk – a est – e nella zona di Bakhmut – a sud – i reparti di Putin stanno facendo pressione anche sul fronte settentrionale. Ieri sera i soldati di Kiev avrebbero definitivamente abbandonato la cittadina di Liman, che per settimane era stata uno dei simboli della resistenza a nord di Sloviansk.

RITIRANDOSI, i reparti sconfitti avrebbero fatto saltare l’unico ponte ancora transitabile sul fiume Severskij Donetsk, che coronava una piccola diga in cemento. Non ci vuole l’acume di uno stratega per comprendere quale sia la strategia del Cremlino: stringere il Donbass in una grande tenaglia, spezzare le vie di rifornimento e chiudere in una sacca tutti i reparti nemici. È quello che sta succedendo a Severodonetsk, la cui capitolazione secondo molti è solo questione di giorni.

L’ormai ex capitale dell’oblast di Lugansk è oggi assediata su tre lati. L’unico ponte d’accesso ancora intatto – o meglio, ancora in piedi – si trova alla periferia nord-ovest, a poche centinaia di metri dalle postazioni russe. Per raggiungerlo e superarlo, però, bisogna percorrere diverse decine di chilometri in piena campagna – spesso allo scoperto – fino alla città di Sivers’k, anch’essa insidiata dalle truppe avversarie.

E poi via, per strade sterrate ingombre di camion e carri armati, fino a Lishichansk, sempre sotto la mira degli artiglieri di Mosca. Da qui deve transitare ogni cosa: i rifornimenti militari, i viveri, l’acqua, i feriti e i profughi in fuga – almeno finché i russi non decideranno di strappare anche questo ultimo cordone ombelicale.

È QUELLO che hanno già fatto, del resto, conquistando la famosa autostrada Bakhmut-Severodonetsk, la cui caduta, tre giorni fa, ha reso ancor più difficile la vita agli ucraini. Oggi a Severodonetsk si combatte casa per casa.

I reparti di Putin sono entrati in città a est e a sud, mentre le loro artiglierie lavorano soprattutto da nord. Ieri sera il magazzino degli aiuti umanitari – tra le cui mura di cemento sono trasportati ogni giorno decine di civili in fin di vita – è stato colpito da alcuni proiettili. Quattro volontari sono rimasti feriti, uno in modo grave.

IN DUE SI SONO RIFIUTATI di farsi trasportare in ospedale e hanno chiesto di restare lì, a compiere quello che dovrebbe essere il dovere di ogni essere umano – tendere la mano al prossimo, non ammazzarlo. Per quanto potrà ancora resistere Severodonetsk? Alcuni reparti ucraini – esasperati dal massacro – avrebbero già minacciato di arrendersi, ma c’è anche chi è intenzionato a resistere a oltranza.

Se così fosse, il parallelismo con Mariupol potrebbe persino rivelarsi appropriato. All’estrema periferia ovest della città, con alle spalle il fiume e l’ultimo ponte superstite, c’è un grande complesso industriale di epoca sovietica. Non si chiama Azovstal, ma Azot.

Potrebbe essere questa l’ultima roccaforte dei difensori di Severodonetsk? Alla Azot ci siamo stati circa dieci giorni fa, quando gironzolare per la città sotto assedio era ancora qualcosa di fattibile. Abbiamo visitato i bunker attigui alla fabbrica, nelle cui viscere vivevano circa 200 civili impauriti – perlopiù anziani, donne e bambini.

CHE NE SAREBBE DI LORO, se l’ultima battaglia dovesse svolgersi proprio laggiù? È una domanda che si stanno ponendo in tanti, e non solo a Severodonetsk. A est di Bakhmut i villaggi sono ancora pieni di civili.

In molte zone non c’è più né acqua, né luce, né gas, ma la gente non ha alcuna intenzione di andarsene. Alla canonica domanda «Kak situazia?», la risposta è sempre la stessa: «Ploha». Le cose, cioè, vanno sempre peggio. Vadim, un abitante di Bakhmut, ha appena finito di seppellire otto suoi vicini di casa.

Era ora di pranzo e le famiglie erano sedute a tavola, quando un proiettile d’artiglieria russo ha centrato in pieno il condominio. Addio pranzo e addio famiglie. «Proprio a cento metri da noi si era piazzata una batteria ucraina – racconta Vadim – Credo che quelli volessero beccare i nostri, forse hanno soltanto sbagliato mira».

DI STORIE SIMILI nel Donbass ne abbiamo ascoltate parecchie, su un fronte e sull’altro. Un tank prende posizione in un’area residenziale, apre il fuoco e poi si eclissa; il nemico risponde al fuoco e inevitabilmente colpisce qualche palazzo. La propaganda afferma: «Lo vedete? Il nemico spara sui civili». Cose che succedono, quando si comincia a fare la guerra.

Il Fatto Quotidiano  del 16 luglio 2022

𝗦𝗶𝘃𝗲𝗿𝘀𝗸 𝗮𝘀𝗽𝗲𝘁𝘁𝗮 𝗶𝗻𝘀𝗼𝗻𝗻𝗲 𝘀𝘂𝗹𝗹𝗮 𝗰𝗼𝗹𝗹𝗶𝗻𝗮: «𝗗𝗼𝘃𝗲 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗶 𝗿𝘂𝘀𝘀𝗶?

Siversk – Sul biglietto c’è scritto così: «Natasha mia, mamma e papà stanno bene, non preoccuparti per noi, vivi e sii felice». Il biglietto ce l’ha consegnato Irina, con la preghiera di fotografarlo e inviarlo via WhatsApp a sua figlia che vive a Kiev. Sono mesi che Irina non può parlare con Natasha, perché Irina abita a Siversk, e a Siversk i telefoni hanno smesso di funzionare. Da settimane, questa sperduta cittadina ai confini nordorientali dell’Oblast’ di Donetsk è al centro della più grande offensiva russa nel cuore del Donbass.

A Siversk non c’è linea telefonica, non c’è acqua, non c’è gas e non c’è elettricità. Siversk è una città senza più sonno, perché il continuo martellare delle artiglierie rende impossibile qualsiasi riposo. A Siversk si vive nelle cantine, che in russo si chiamano podval. Ogni podval ospita venti o trenta persone, quasi tutte anziane e malate.

NON POTENDO COMUNICARE col mondo esterno, i civili di Siversk non hanno la benché minima idea di cosa stia accadendo intorno alla città e sopra le loro teste, e così, ogni volta che li incontri, la domanda che ti pongono è sempre la stessa: «Gdié ruskiye?», Dove sono i russi? Noi, che prima di partire abbiamo letto le ultime notizie su Twitter, proviamo ad aggiornarli nel nostro russo sgangherato. «Ruskiye Severodonetsk? – fanno loro sgranando gli occhi – Ruskiye Lyshichansk? Ruskiye Pryvillja?», Sono le battaglie di un mese fa, e sono state combattute a meno di quaranta chilometri da qui, ma a Siversk non ne è giunto neanche l’eco.

Del resto, i militari ucraini di stanza quaggiù provengono quasi tutti dall’ovest del Paese- il che implica che i rapporti con la popolazione locale, rigorosamente russofona, non siano sempre idilliaci. «Con noi i soldati non parlano mai – ci hanno raccontato alcuni civili-. Ci chiamano “separatisti” e dicono che siamo dalla parte di Putin. Ogni tanto arrivano qui con i loro carri armati, si piazzano tra le case, sparano e se ne vanno. Questo più o meno è tutto ciò che sappiamo».

CHE BUONA PARTE dei cittadini rimasti a Siversk patteggi per il Cremlino è d’altronde piuttosto palese. Molti lo fanno in modo aperto, anche di fronte a noi cronisti: «Naziu krop», dicono indicando i soldati. Secondo fonti militari ucraine, circa il 70% di coloro che hanno deciso di restare a vivere nei pressi del fronte non vedrebbe di cattivo occhio l’arrivo dei russi. Quanto ci sia di reale in questa statistica e quanto invece sia dettato dalla tensione, dalla diffidenza reciproca e dalla paura noi non lo sappiamo. Certo è che restare umani, a Siversk, è qualcosa di terribilmente difficile.

Vagando per le strade abbiamo osservato le stesse facce senza speranza che avevamo visto a Severodonetsk. Mentre le bombe cascavano tutto intorno a noi, un uomo sui sessant’anni, a petto nudo e con un occhio pesto, ci ha inseguito con una bottiglia di plastica offrendoci insistentemente della vodka. Pochi metri più in là, quello che doveva essere suo nipote camminava allo scoperto con in braccio un gattino. Entrambi sorridevano, ma di un sorriso imbambolato e quasi privo di vita. Così ci si riduce, dopo settimane di bombardamenti e di podval. D’altronde, qui come altrove, le truppe di Putin sembrano intenzionate a venire avanti ad ogni costo.

ALCUNI GIORNI FA l’agenzia moscovita Tass ha annunciato in pompa magna la «liberazione» di Siversk. Era una palese fake news, ma dietro di essa si celavano neanche troppo reconditamente le reali intenzioni del Cremlino: l’obiettivo è quello di chiudere la partita in tempi rapidi, costi quel che costi. Al momento le avanguardie russe si trovano nel villaggio di Verkhn’okam’yans’ke, sei chilometri a est di Siversk. Da li le truppe scelte di Mosca hanno già lanciato numerosi attacchi in direzione della città. Ma il centro abitato sorge sul cucuzzolo di una collina, e prenderlo d’assalto con le fanterie non è certo cosa facile. Al contempo i russi si stanno muovendo anche da nord, dove negli scorsi giorni hanno occupato i paesi di Bilohorivka e Hryhorivka, al di qua del fiume Severskij Donec.

leri pomeriggio abbiamo osservato le artiglierie di Kiev bersagliare con insistenza le alture che sorgono a sud del corso d’acqua il che farebbe supporre che i reparti avversari si stiano disimpegnando con agilità anche in quel settore. Quanto siano effettivamente vicini, tuttavia, è ben arduo a dirsi. Il quadro qui attorno è in continua evoluzione – ci hanno spiegato i militari ucraini -. Ci sono attacchi e contrattacchi continui. Si combatte tanto con le artiglierie, è vero, ma si registrano anche molti scontri diretti, e sono tutti parecchio sanguinosi».

L’IMPRESSIONE GENERALE – corroborata da alcune indiscrezioni raccolte sul campo – è che i generali di Kiev puntino essenzialmente a guadagnare tempo. L’obiettivo è duplice: far stancare il nemico e costringerlo a concentrare nella zona di Siversk il maggior numero possibile di truppe. «Quando la pressione russa diventerà insostenibile, i nostri si ritireranno subito su una linea di difesa più arretrata», ci ha confidato ieri pomeriggio un ufficiale ucraino.

Ma d’altro canto l’unica strada che collega Siversk al resto del Donbass è anch’essa da giorni sotto assedio. Percorrerla risulta sempre più difficile e pericoloso, sia nel suo tratto iniziale che in quello terminale. Se i russi dovessero prenderla, per le migliaia di soldati di Zelensky rimasti imbottigliati nei pressi della città sarebbe la fine.

Il Manifesto del 17 luglio 2022

Nel Donbass che resiste «non si può più stare»

Le carrozze di terza classe del treno Dnipro-Lviv sono piene di soldati in licenza. Il viaggio è lungo 19 ore, e altre 19 ce ne vorranno per tornare, e dal momento che i giorni di libertà non sono mai più di quattro o cinque ciò significa che questi ragazzi trascorreranno 48 ore a casa e le altre 48 a sonnecchiare sui pancacci duri e tremolanti delle ferrovie ucraine.

TUTTAVIA, NESSUNO DI LORO rinuncerebbe mai a questa opportunità. «Rivedere casa mia…», sospira Dimitri, che fino all’altro ieri dormiva nel fango delle trincee di Pokrovske. Con sé ha un sacchetto di pane nero, qualche fetta di salame industriale e una bottiglietta di plastica piena di whisky.

Beve per dimenticare, come tutti i reduci del Donbass. I volti dei commilitoni seduti accanto a lui sono tutti scuri e silenziosi. Nessuno ha voglia di parlare, nemmeno di cose leggere – e dopo neanche un’ora la bottiglietta è già vuota.

Così si viaggia, sugli interminabili convogli che conducono verso l’occidente. Lì, a Lviv (Leopoli), la vita scorre più o meno normale. Si può sorseggiare una birra seduti a un bar, i ristoranti sono aperti e i teenager vestono alla moda, con le magliette risvoltate e i tatuaggi in bella mostra. Il Donbass, visto dall’ovest, appare quasi come un concetto lontano e persino un po’ assurdo, la cui esistenza è certificata solo dalle prime pagine dei giornali e dalle continue immagini trasmesse in tv.

Eppure il Donbass esiste, e nel Donbass oggi si muore e si ammazza senza tregua. Domenica nella città di Bakhmut – a meno di sette chilometri dalle linee russe – i cannoni hanno tuonato a ripetizione per tutto il pomeriggio.

LA GENTE ORMAI non ci fa più caso, perché vedere una bomba cascare tra i palazzi, da queste parti, è un po’ come da noi assistere al passaggio di un tram. Cose di tutti i giorni, cose che capitano e amen. L’altro ieri i militari di Kiev hanno istituito una serie di nuovi posti di blocco proprio nel centro della città. «Perché?», abbiamo chiesto. Ci hanno spiegato che si temono infiltrazioni nemiche oltre le linee di resistenza. «E veramente credete che i russi possano attraversare indisturbati le retrovie del fronte e arrivare fin qui?». «Mozhno – hanno risposto laconicamente i militari -, può darsi ».

In generale, il clima è di grande incertezza e di grande attesa. A un altro posto di blocco i poliziotti ci hanno chiesto di caricare a bordo una donna e di darle un passaggio fino alla stazione degli autobus di Kramatorsk. Irina – questo è il suo nome – era arrivata in città quella mattina stessa, al seguito di un convoglio umanitario proveniente da Kiev. A Bakhmut non ci aveva trascorso più di due ore, che tuttavia sono sono state più che sufficienti per convincerla a mollare tutto e tornarsene a casa. «Non si può stare qui – ci ha ripetuto più volte lungo il tragitto -, ma lo sentite o no, quanto cazzo sparano?». I bus erano già tutti partiti e Irina, pur di andarsene al più presto, ha deciso di farsi 400 km in taxi.

A SIVERSK LA SITUAZIONE è ancora peggiore. Ogni giorno i supporter di Putin annunciano su Twitter la caduta della città. Eppure gli ucraini resistono, seppur a costo di molte perdite, e quotidianamente pubblicano sui social le foto e i video dei mezzi nemici in fiamme. È una strana guerra, di cui tutti sembrano aver voglia di parlare tranne coloro a cui tocca combatterla veramente.

Domenica mattina siamo stati a visitare un poligono di tiro dell’esercito di Kiev. Decine di ragazzetti poco più che diciottenni si addestravano a sparare contro delle piccole scatole di cartone marchiate con una “Z”. Il clima era rilassato, nonostante i continui boati. Qualcuno rideva, altri si facevano dei selfie. Gli unici silenziosi erano gli ufficiali, i quali, radunati in disparte, osservavano con compiaciuto interesse le gesta belliche dei nuovi arrivati.

FINO ALL’ALTROIERI anche questi figli di mamma vestivano alla moda come i loro coetanei di Lviv, e forse la sera andavano a tuonare su Twitter, esultando a gran voce per ogni tank nemico distrutto. Probabilmente tra un mese li ritroveremo sull’accelerato notturno che parte da Dnipro, con una bottiglietta di whisky in mano e gli occhi fissi a guardare il cielo.

Il Manifesto del 19 luglio 2022